sabato 20 dicembre 2025

Sabato 20 dicembre 2025: Anche il Natale è un eterno ritorno (seconda e ultima parte)...

 E riprendo oggi con i ricorsi del Santo Natale di tanti anni fa...

<Zio Michele era stato anche un impenitente donnaiolo e la nonna era convinta che, anche per quei suoi gravi peccati di gioventù, oltre a perdere un occhio per la sifilide, avrebbe perso anche l'anima e che, perciò, mai e poi mai avrebbe potuto evitare il fuoco eterno, neppure con le sue preghiere o con quelle della loro mamma, sempre in pena per quel figlio scavezzacollo e mangiapreti, e ormai alla presenza misericordiosa di Dio e della Vergine. Per questo nonna lo guardava con occhi di preoccupato tenero rimprovero, sperando in una sua improvvisa conversione. E attese, invano, fino alla morte dell’amato fratello, che al suo funerale pretese che la banda suonasse “bandiera rossa” fra lo scorno di quanti vi parteciparono. E con tanti limoni da offrire ai presenti…

(al limooonə!!!)

(Nonna Rita, negli anni passati, per salvare quel giovane figlio in preda a “un male che non si poteva dire” in un ospedale del Nord, nonostante fosse analfabeta e non avesse mai messo piede fuori dalla porta di casa, aveva preso il treno da sola per riportarlo in famiglia e poterlo far curare “dalle sue parti”, dove le sarebbe stato più facile essere quotidianamente presente al suo capezzale. Dovette combattere la sua personale battaglia contro il parere di tutti i medici e con tante croci lasciate su pezzi di carta che non sapeva leggere, ma lo riportò con sé e gli stette accanto fino alla sua totale guarigione.

“Una donna coraggiosa e forte”, si diceva di lei. Non a caso, “si chiama Rita e porta il nome della santa dei casi impossibili”, si diceva di lei. E lei aveva dimostrato che niente è impossibile ad una madre e ad una donna forte e coraggiosa!).

Zia Maria, invece, a differenza di sua suocera, aveva la forza della leggerezza e del sorriso sempre pronto e coinvolgente. Era una persona deliziosa: solare, allegra, generosa, chiacchierina. Con malizia e lievità. Nonostante il marito fedifrago e comunista, e il figlio, Vincenzo, che seguiva le orme del padre nell’adesione totale al Partito di Giuseppe Stalin e di Palmiro Togliatti

(addà vənì baffónə…) (deve venire baffone…)

Piccola, rotondetta, sempre ordinata e ben vestita, zia Maria aveva grandi occhi vivaci, simili a quelli della “boòpide Giunone”, e una risata lunga e contagiosa che raramente metteva la parola fine prima di accesi scintillii d’ilarità. Evidenziava sempre il lato umoristico delle parole o delle situazioni con rapida ironia, trascinando tutti i presenti a ridere con lei. E tu sai benissimo quanto fosse contagioso “u strìgnə” (lo strigno, la gioiosa irrefrenabile risata) di quella benedetta donna che rideva di cuore soprattutto con mamma e con nonna Angelina.

Mòuə so’ rə cìnghə menótə də strìgnə” (ora sono i cinque minuti di folli risate), dicevi tu.

Più disincantate di lei, le sue due figliole: Rosaria, sorridente e luminosa con i suoi riccioli biondi e guance di pesca; Rita, silenziosa e notturna come i suoi neri capelli.

Nella loro casa incontravamo spesso una sorella di zia Maria di nome Lauretta (zia Lauretta per tutti) più bruttarella ma tanto allegra e spiritosa anche lei. Amava raccontare di sé e dei suoi tanti mariti, l'ultimo dei quali era ancora vivo e vegeto. Bello e aitante e innamoratissimo della sua Lauretta. Insieme formavano una coppia prodigiosa. Di magica luce nei cieli bui e tempestosi di quegli anni. (…) 

Zia Maria e zia Lauretta avevano il dono della risata. Frutto di una infanzia difficile con dentro il cuore la pena di una mamma volata troppo presto in Cielo, e della necessità di stringere tra le loro piccole braccia quel comune grande dolore, che si stemperava nella complicità di un sorriso impertinente, suscitato dalla caduta di un vecchietto per strada, da un ombrello strappato dal vento dispettoso alle mani di una donna disperatamente aggrappata al suo manico, o dagli imprevedibili casi umoristici della vita, che loro due sapevano cogliere al volo e sapientemente rimestare. E tu lo sai, papà, perché eri spesso testimone delle loro risate a più non posso per ogni piccola vicenda che esulava dalla norma.

Delle due fantastiche donne ho già scritto un simpatico, sapido e commosso racconto. 1)

(Penso che la scrittura sia un dono divino: fissa nel tempo lacrime e sorrisi.

È simile a una foto. Questa, però, eterna volti e corpi, l'involucro di noi.

La scrittura perpetua l'anima. Doppia immortalità. Dono meraviglioso sempre. Come non dire grazie al buon Dio per la sua totale gratuità? Ma noi uomini spesso manchiamo di gratitudine verso il nostro Creatore per i tanti doni, quasi sempre ignorati o ritenuti scontati perché ce li portiamo addosso dalla nascita, quindi ci appartengono di diritto. Oppure, pensiamo presuntuosamente che siano dovuti ai nostri meriti personali tanto che non ci scomodiamo mai a dire un grazie né a Lui né a quanti i nostri talenti apprezzano e li rendono visibili con bontà e generositàMa anche questo è un altro discorso su cui si potrebbe scrivere un trattato. Titolo? La difficile riconoscenza…)

Anche la nonna, cognata beneamata di zia Maria sapeva ridere, come ho più volte ricordato, ma mi piace ribadirlo perché do molta importanza all’efficacia salutare di una generosa risata. E così pure mamma, dopo il ritorno del marito dalla guerra, o quando era lei a fare ritorno nella nostra casa per riabbracciare genitori e figlie. Spesso la nostra casa si riempiva delle loro contagiose risate, stelle comete di scoppi improvvisi con le loro lunghissime code luminescenti a illuminare i nostri Natali.

(E anche io e Anna Maria abbiamo ereditato questa capacità: ancora oggi abbiamo brevi risate di complicità, squarci di sole nella monotonia di giorni grigi o arrabbiati. Pure Ombretta ha risate lunghe più dei suoi lunghi capelli, e un amore per la vita che vince ogni difficoltà ogni dolore, spesso presenti alla sua giovinezza. Oggi, però, le risate sono sempre più rare. Nonostante si vivano tempi migliori rispetto al passato: non ci sono più coprifuochi e bombe a pioverci sulla testa, almeno qui da noi; non più pulci e pidocchi e scarafaggi. Per strada mi capita sempre più spesso di incontrare volti ridotti a smorfia di stanchezza, disgusto, disperazione. Indifferenza. La nostra è ormai “l’epoca delle passioni tristi”, come opportunamente hanno scritto lo psichiatra francese Gérard Schmit e il filosofo argentino Miguel Benasayag. Non ti allarmare, papà, sono due grandi studiosi del nostro tempo. Anche nella nostra casa è sempre più difficile ridere, ma ci capita ancora, e ancora le lunghe risate, condite di sana autoironia, mi riportano alle situazioni divertenti e condivise di allora).

Allora, a casa di zia Maria e zio di Michele, la Notte Santa era una festa colma di confusione:

                    fede miscredenza pettegolezzo preghiere canti abbuffate (…)

battibecchi chiacchiere cantilenanti preghiere ambiziosi proclami (Gesù nasce per metterci tutti d’accordo in santità e armonia…) canti poesie risate dolci liquori gioia di vivere…

Gesù Bambino impiegava molto tempo a nascere. Veniva portato tra le mani-conchiglia del bimbo più piccolo, in testa ad una processione lunghissima che si snodava per tutte le stanze della grande casa che aveva un pianterreno, un primo e un secondo piano. Dopo aver salito, sceso, attraversato scale e stanze e camere e ogni più piccolo anfratto della casa e persino i balconi e il terrazzo, si ritornava giù per deporre il Bambino nella grotta tra Maria e Giuseppe, il bue e l'asinello. La lunga processione si illuminava di candeline bianche o rosse (spente subito dopo con un brutto odore di cera bruciata e piccoli fili di fumo grigiastro che si sperdevano ben presto tra le nostre mani giunte e non di rado il bambino più grandicello bruciava i lunghi capelli della bimbetta davanti a lui con grida e soccorsi immediati e scompiglio nella lunga fila e l’acre odore di fumo e di capelli bruciacchiati si spandeva per la casa…) e si accendeva delle note divine di “Tu scendi dalle stelle” (l’immancabile canto tradizionale che includeva voci adulte e bambine e mille inevitabili stonature e approssimate parole…).

Tu scendi dalle stelle, o Re del cieeelo

e vieni in una grott’al freddo e al geeelo

e vieni in una grott’al freddo e al geeelo…

A te che sei del mondo il Creeatoore

mancàno panni e fuocoomio Signooore

mancàno panni e fuocoomio Signooore…

Dopo la nascita di Gesù, noi bambini recitavamo le poesie. Le donne di casa si affrettavano a preparare la tavola con ogni ben di Dio: “pèttuə” (pettole), piciuatìddə (dadini di massa sbollentati), baccalà in umido con olive e uva passa, capitone fritto e arrostito (a te e a mamma piaceva molto il capitone, che a noi bambini e ragazzi faceva ribrezzo perché ci sembrava un serpente e basta, e provavamo disgusto nel vedervelo mangiare con tanto gusto…); e, poi, frittelle, cartellate, calzoncelli (o cuscinetti di Gesù Bambino), mostaccioli, taralli di ogni genere, fichisecchi, mandorle tostate, arance e mandarini, noci e nocelline. Vini e rosolÎ.

Era capitato anche a Lizia di portare Gesù Bambino e poi anche a me, ed era capitato a tutti noi bambini di recitare per la prima volta la poesia che zia Maria voleva insegnarci a tutti i costi perché la riteneva bella e facile per i più piccoli che non andavano ancora all'asilo. Eccola, caro papà, te la ricordi pure tu?

Tutti vanno alla capanna

per vedere una gran cosa

anche io son curiosa

di veder che cosa c'è?

Guarda, guarda quel Bambino

come dorme, poverino!

Sembra far la ninnananna

tra le braccia della mamma.

Se io avessi un biscottino,

lo darei a quel Bambino.

Biscottino non ne ho

e il mio cuore gli darò!

Credo che la poesiola abbia attraversato secoli su bocche sdentate di nonne e nipotini e su quelle più morbide delle mamme, prima di giungere sulle labbra di farfalla colorata della mia amatissima prozia e tra le sue mani in volo per mimarla a dovere. L'ho, poi, insegnata ai miei figli e ai miei nipoti non perché fosse particolarmente bella e facile, come sosteneva zia Maria, ma perché mi riportava a quei Natali, a quell'atmosfera magica e incantata, a quei profumi, a quegli odori, a quelle preghiere, a quei canti, a quelle braccia d'amore. A quei tafferugli. A quelle risate.

Capitava sempre qualche imprevisto, che coglieva di sorpresa la compagnia, creando parapiglia e disagio, risolti immediatamente da qualche battuta ironica o autoironica di zia Maria e tutto finiva in una grande corale fragorosa bolla iridescente di sapone, che aveva forma di labbra dischiuse al buonumore. Labbra d’infanzia di latte e di panna. Labbra di bianche perle di giovinezza. Labbra concave di spietata vecchiaia. Sì, quella tenera poesiola mi riporta a te, a nonna, a mamma, agli zii e a tutti i parenti e amici di allora. A quei tempi di rumorosa semplicità e di caotica armonia. Ad un mondo, almeno per noi bimbi, sereno. Un mondo, che oggi esiste solo nella memoria del cuore. E, in realtà, quei volti, quelle voci, quei profumi e quelle atmosfere di sorridente bonomia oggi li rivivo solo nell’anima ed è lì che riscopro pensieri, storie, emozioni di allora. E quel rito del Natale si è protratto negli anni quasi intatto.

Nel tempo, sono comparsi gli alberi di natale (di finto abete), stracolmi di pacchi e pacchettini da aprire dopo la mezzanotte. I panettoni e i pandoro hanno sostituito quasi tutti i dolci fatti in casa. Sono comparse le chitarre ad accompagnare il canto di Natale nella Notte Santa, che via via si è andata arricchendo delle musiche d’oltreoceano, ascoltate attraverso il giradischi, il registratore, il televisore. Alle voci antiche sono subentrate nuove voci e tutto ancora nelle nostre famiglie si ripete con alterne vicende e in case diverse dalle antiche case…

Roma saluto triste di notturno silenzio

spazio di stazione solitaria fioche luci

battito del cuore ansia divisa (…)

           Domani sarà Natale

Altre voci altri occhi altre illusioni

     Presenze    Mute    Chiassose

   Insieme attraversiamo il giorno

     (il giorno atteso dell’Attesa)

Ci traghetta un desiderio d’amore

al ritorno scontato e mai uguale

di un Natale d’alberi di plastica

vestiti di luci spogli di speranze

a concludere l’anno dai mille richiami

e un solo riscatto ipotesi di pace

sotto l’antica cometa che ci vuole

buoni e pacificati col mondo

         per una Notte sola.

        (Solo per una notte?)

 

Calda atmosfera di rosse candele accese

nella casa lontana ci accoglie mio figlio

cappuccio rosso e bianco di finta neve (…)

                  Mezzanotte

Scendono a farci compagnia ombre

di mai sopito amore eterno rimpianto.

In amari calici lo champagne saluta

anche questo Natale e scivola in gola

a spegnere l’arsura di un’angoscia

che sfiora di baci il nostro ritrovarci

                     SOLI

senza preghiere e senza canti

senza miracoli e senza prodigi

       senza stelle né incanti

Non più come un tempo magica

              questa Notte

Ma una tenerezza che scalda il cuore

infila l’uscio sotto la pioggia e il vento 

vola verso Sud e allaccia nodi a nodi

 in un ritrovato alone di mistero              

(che non si spezzi questa gòmena d’amore        

         chiedo al miracolo del Natale)>

(“Natale romano”, stralci da L’ora dell’ombra e della riva, op. cit.)  

Buon Natale e Sereno Anno Nuovo a tutti con tanto Amore! Angela/lina

giovedì 18 dicembre 2025

Giovedì 18 dicembre 2025: Il Libro Fantasy di PIETRO LODOVICHI "Gli OCCHI del PREDATORE - Il Circense -"...

Miei carissimi, interrompo momentaneamente i ricordi del mio Santo Natale di oltre settant’anni fa perché ieri ho vissuto una serata straordinaria, tra realtà e magia, nella Chiesa di Santa Teresa dei Maschi, ubicata in Bari vecchia (altra magia da sottolineare) per la presentazione dell’opera prima del giovanissimo  scrittore Pietro Lodovichi, presentato dalla signora  Giovanna Castrovilli in collaborazione con Antonella Maria Loconsole in veste di intervistatrice e del Prof. Pasquale Ruggeri come intervistatore, e con l’intervento di Raffaella Leone P.R. della SECOP edizioni, che ha pubblicato il romanzo Gli OCCHI del PREDATORE - Il Circense -. Con una copertina misteriosa e potentemente connotativa (opera dell'altrettanto giovane Nicola Piacente, che della Collana "Imaginatio Mundi" è anche il Direttore editoriale) di un genere letterario che sempre più sta catturando e affascinando i giovani perché rivela mondi misteriosi, visibili e invisibili, potenti nelle loro sorprendenti sfaccettature, legate a creature fantastiche che hanno superpoteri per una lotta epica tra il Bene e il Male, con eroi che affrontano prove iniziatiche, avventure a vastissimo raggio, conflitti interiori, legati soprattutto alla brama di Potere, alla sete d'Amore, alla passione per tutto ciò che racchiude il meraviglioso/tenebroso senso della vita e della morte, della sconfitta e della vittoria, del viaggio lungo un'esperienza avventurosa e lontana, con colpi di scena (Lodovichi è straordinario nel creare la suspence ad ogni fine capitolo) che lasciano senza fiato i lettori e con il d'uscita ai loro intrecci spesso violenti, misteriosi, senza compromessi e mezzi termini, secondo la migliore tradizione, abbastanza recente, del Fantasy moderno.

Mi piace ricordare, a questo proposito, che il primo libro di tale genere viene ritenuto "Le fate nell'ombra" di George MC Donald (1858), libro che ha influenzato autori come J. R. R.Tolkien e C. S. Lewis. Il signore degli anelli di Tolkien ha, infatti, inaugurato il fantasy epico, a cui si ispira inevitabilmente anche il nostro Lodovichi. Ma occorre indubbiamente ricordare anche George R.R. Martin con il suo Cronache del Ghiaccio e del Fuoco oppure Brandon Sanderson con le sue opere per adulti, e, tra le donne, la scrittrice J. K. Rowling col suo fortunatissimo Harry Potter, ma anche Sarah J. Maas, Erin Doom, Susanna Clark e l’italiana Licia Troisi.

Intanto, tornando a Gli OCCHI del PREDATORE, occorre dire che già il titolo è fortemente suggestivo, a partire dagli "OCCHI" appunto che fanno leva prepotentemente sullo sguardo, già di per sé molto importante in una comunicazione normale e quotidiana figuriamoci in quelle che sanno di mitologico, irreale e magico (che bello comunicare con lo sguardo che ci restituisce i volti e i segni di una intesa speciale o di una offesa da cui difendersi non con la spada, ma con un sorriso. E poi nei volti percepire le voci, i sogni, i desideri, le realizzazioni o le delusioni, nuovi mondi, nuove storie. Due occhi specchio di chi ci guarda con la sua anima allo scoperto mentre restituiamo l’essenza più profonda di noi). Ma agli occhi segue "del PREDATORE" che acuisce il senso del "vedere profondo e attento" di chi è avvezzo a guardarsi intorno voracemente per impadronirsi della preda, di qualcosa cioè fortemente desiderata.

E il mistero si infittisce quando viene definito il protagonista principale, "il Circense", di questo primo Libro di una ipotizzabile trilogia, che va già prendendo forma nella fervida mente dell'autore tanto che è già pronto il secondo volume (GLI OCCHI DEL PREDATORE - Il  Monastero - ). Tanto fervida, tra l'altro, nel darci il primo assaggio immediatamente con una scrittura-esergo particolarissima che sembra venire da lontano, dalla notte dei tempi, in cui il Primo Imperatore di Sudtrek si presenta, parlando del suo Potere e delle innumerevoli difficoltà nel gestirlo per cambiare le sorti del mondo. Segue una mappa (opera della giovanissima illustratrice Dalila Acella), che ci affascina per la notevole fantasia e creatività dell'Autrice nel definire un mondo immaginario quasi fosse reale perché, a mio parere, ci ha messo anche talento, passione e cuore.

Tre giovani, dunque, Pietro, Nicola, Dalila, che hanno tutte le carte in regola per andare lontano. Non a caso Pietro Lodovichi lavora a Dubai, avendo messo le ali già da alcuni anni. In quest’ultimo anno in tre si sono impegnati con tutte le forze della loro vibrante anima per realizzare un Libro che parli ai giovani (e meno giovani) con un linguaggio nuovo, risalendo a lontani miti appresi probabilmente dal mondo greco-latino perché superassero tempo e spazio e giungessero fino a noi con nuovi eroi e nuovi dèi che ci affascinano come i poemi omerici e latini ci affascinarono quando imparammo a leggerli, a identificarci nelle loro gesta avventurose ed eroiche, ad amarli.

Nei ringraziamenti, infine, c'è tutta la carica di umiltà, maturità e di umanità del nostro Autore che valorizza ogni persona che abbia contribuito, in qualche modo, a sostenerlo in questa non facile impresa. Anche io desidero ringraziare la signora Giovanna Castrovilli, Antonella Maria Loconsole, Pasquale Ruggeri, Raffaella Leone e, non per ultimo, Pietro per aver contribuito notevolmente a   farci comprendere la bellezza del Libro, oggi preso in esame, dal punto di vista strutturale, contenutistico, formale, e a farci scoprire i tanti segmenti della personalità di Pietro Lodovichi e delle sue mille avventure vissute con la mente, col cuore, con l’anima, per restituirsi soprattutto a sé stesso nel suo intero e per poter, poi, comprendere meglio tutti gli altri da sé, a qualsiasi latitudine e longitudine di questo nostro pianeta appartengano. Per migliorarsi. Per migliorarci. Tra sogno e realtà.

E desidero completare questo mio commento critico con le straordinarie e sentite e generose parole di Pietro: "... Un libro non basterebbe per ringraziare tutte le persone a cui sono grato. Nei miei viaggi, nei miei amori, nelle mie amicizie e nella mia famiglia ho trovato inconsapevolmente frammenti di questa storia. Ognuno ha lasciato un'impronta, una scintilla, che si è trasformata in parola scritta.

Ed è proprio questo, forse, il segreto: ogni libro nasce dalle mie esperienze, ma non appartiene solo a me. In ogni pagina, chi legge può ritrovarsi, riconoscere un frammento della propria vita, ridere e piangere delle stesse emozioni che hanno attraversato me.

Perché alla fine, le storie ci uniscono...".

Che dire? Buona lettura a quanti avranno tra le mani un Libro imperdibile e indimenticabile in ogni sua pagina...

Il viaggio continua in un continuo andare lontano e un ritornare a casa per riprendere il volo…

A me non resta che invitarvi a seguirne le traiettorie, visibili e invisibili, per non perdere di vista la terra-non terra, il mare-non mare, il cielo-non cielo e tutta la magia possibile di questo nuovo genere letterario che si avvia spedito per le strade del terzo millennio. Grazie. A presto. La vostra Angela/lina               

lunedì 15 dicembre 2025

Lunedì 15 dicembre 2025: Il Santo Natale è un eterno ritorno... (prima parte)

È tempo di parlarvi di come ho vissuto per anni il Santo Natale e come lo vivo oggi… Il Natale dei miei verdi anni nella “casa del gelso e delle rose” è ormai solo un tenerissimo ricordo…

<Il Natale con te e la nonna e mamma e Lizia e gli altri parenti era troppo bello per non rimpiangerlo e non ricordarlo. Mi rimaneva nel cuore senza passare mai. Non tutto passa? Chissà.

                           Anche il Natale è un “eterno ritorno”

Costruivi ogni anno un presepe grande di carta spessa per le montagne e le vallate, che venivano sovrastate da rami di mandarini con i loro solari frutti. Un profumo inebriante si spandeva per la casa. Tappezzavi, poi, di muschio fresco e odoroso lo spiazzo davanti alla grotta e le stradine che s'inerpicavano fino alle stelle, dipinte su una lunga e larga stoffa di satin blu. E i pastori giganti di terracotta e di cartapesta. E le pecorelle e i cani. E la stella cometa e gli angeli. E un brulichio di luci a rendere magica l'atmosfera dell'Attesa. Il presepe portava in casa prati e montagne. E un senso antico di silenzio e di preghiera. Durante l'anno, mettevi da parte quelle carte spesse e ruvide, di un colore marroncinoverdemarcio, con cui i negozianti di generi alimentari incartavano i maccheroni, che venivano venduti a peso, sfusi e senza involucro e non a pacchetti da mezzo chilo o da un chilo che, oggi, hanno tanto di etichetta sulla scadenza, che poi magari scopri contraffatta o sostituita per ringiovanire un prodotto scaduto da vari mesi o anni, ma dicono più sicuri (?) dal punto di vista igienico, più belli esteticamente. Era un presepe che occupava una intera parete della stanza da pranzo e che completavi, improrogabilmente, entro l'8 dicembre per la festa dell'Immacolata, con lunghi rami di pino ai quali appendevi quei piccoli soli, disseminati tra i verdi aghetti. Quel vellutato tappeto di muschio, dal profumo di terra bagnata, avrebbe agevolato poi il cammino di pastori e re magi verso la grotta. Lucette colorate e la stella cometa, sospesa al filo di nylon invisibile, che andava da una parete all'altra della stanza. Il laghetto con le paperelle. La cascata di carta stagnola tagliata a striscioline. Le pecorelle sparse qua e là tra ciuffi d'erba vera e fiocchi di neve finti, di soffice ovatta. E il bue e l'asinello inginocchiati davanti alla mangiatoia con Giuseppe e Maria “də gràstə” (di terracotta) in atto di preghiera. E, in fondo alla grotta, il giaciglio dorato, vuoto, in attesa di Gesù Bambino. Quanto stupore! Quanta soffusa bellezza! Quanto fiduciosa e vibrante quell’Attesa!

In tutta la casa un profumo mai dimenticato e mai più ritrovato di dolcetti natalizi: le cartellate (brune rose di vincotto), i calzoncelli o cuscinetti di Gesù Bambino con pasta di mandorle e cannella, i taralli “inginocchiati” e i tarallini col gileppo, “rə piciuatìddə” (ciottolini di pasta a ricordarmi d'inverno il mare e il gioco delle cinque pietre sulla spiaggia), “rə mastazzùlə” (i mostaccioli con mandorle, cacao e vincotto, altra delizia di marmorea grazia!). Quel profumo impregnava le stanze e le chiacchiere delle donne che abitavano nel quartiere e venivano ad aiutare mamma e la nonna: Sabellina, Marietta, Angelina. Non si stancavano mai di raccontare fatti e misfatti del vicinato. Ma il Natale con te era anche bello da vivere perché occupava di sé tutto il mese di dicembre. Il presepe da far fiorire come un libro dell’Arte Pop-up nei primi otto giorni del mese e, poi, l’Immacolata, Patrona del nostro paese, e il digiuno interrotto la sera della Vigilia “chə rə fəcazzéddə də la Madónnə” (con le focaccine della Madonna), formate da pani schiacciati e tagliuzzati in superficie in tanti quadratini e con dentro i semi di anice o di finocchio; ed ecco Santa Lucia (eh sànda ləcìa bənədèttə tìnə dd’ócchiərə quàntə a ‘na chiesjə e nàn vétə mànghə la sagrəstè!...) (eh Santa Lucia benedetta hai gli occhi grandi quanto una chiesa e non vedi neppure la sacrestia!...), la voce della nonna sorpresa e indispettita quando si accorgeva che io, un po’ più grandicella, avevo problemi a leggere da lontano: le sembrava “‘nu scəcàffə a Crìstə”, (uno schiaffo al buon Dio), visto che lei non poteva leggere perché non sapeva leggere… Santa Lucia, molto amata e venerata per la sua incrollabile fede (che porta luce a chi fede non ha).

Dal 16 dicembre, infine, la novena che precedeva il Santo Natale: Tempo di Attesa e di Preghiera. Tempo di rinnovata Speranza. Prima della mezzanotte andavamo in chiesa per vedere nascere Gesù Bambino tra preghiere, canti, incenso. Nella nostra casa nasceva sempre fuori orario: o molto prima o molto dopo. In chiesa cantavamo, insieme con quelle che tu chiamavi “rə bəzzòuchə” e “rə viatéddə” (bigotte e le signorine della parrocchia), accompagnate solennemente da un pianista che suonava il maestoso organo, “Tu scendi dalle stelle” e altri canti natalizi e una ninnananna che faceva più o meno così: 

La ninna dei pastori fa ah ah ah!

La ninna dei pastori fa ah ah ah!

Dormi, dormi, bambino

ché qui ti veglia il mio cuor.

Dormi, mio Re divino,

la ninna dell'amor!

 

La ninna della mamma fa oh oh oh!

La ninna della mamma fa oh oh oh!

Dormi, dormi bambino,

ché mamma veglia per Te.

Dormi, mio Re divino,

la Croce ancora non c'è!

 

La ninna degli angioletti fa uh uh uh!

La ninna degli angioletti fa uh uh uh!

Dormi, dormi, bambino,

ché Qualcuno veglia lassù.

Dormi, mio fanciullino,

la ninna, del mio bel Gesù!

(Non c'erano allora i canti natalizi d’importazione americana, “Silent Night”, “White Christmas”, “Jingle Bells” che allietano il nostro Natale nei disincantati giorni dell’attesa. Né c'era l'albero pieno di luci, di festoni scintillanti con fiocchi argentati, rossi, dorati... Né panettoni in eserciti composti e colorati sugli scaffali dei supermercati. Non c’erano neppure supermercati, ma negozietti alla buona, gestiti alla buona con tanta gente che andava alla buona “chə la ləbbréttə” - “con un quadernino”, antesignano dell’attuale taccuino -, su cui l’esercente scriveva la somma da pagare appena possibile, nonostante il cartello in bella vista “quì non si fà credensa”). Quando vivevamo insieme il Santo Natale, spesso mi chiedevo, in chiesa, il senso di quegli angioletti che facevano uh! uh! uh!, quasi fossero lupi e volessero spaventare noi bambini. Oggi so che lupi molto più feroci di quelli veri si nascondono sotto luminose vesti d’angeli e spesso si annidano proprio nelle chiese e colpiscono proprio i bambini. O nelle case. Allora, i lupi erano lupi, gli agnelli erano agnelli e gli angeli erano angeli. Almeno era questa la percezione della realtà umana e sociale che si aveva nella nostra casa e nella nostra comunità contadina di paese di provincia, dove si ignorava persino il fumo di sei milioni di ebrei, saliti al cielo attraverso tristi ciminiere, e dove anche i reduci sciancati venivano guardati con occhi di cristiana partecipazione, che si rifletteva consolatoria nei loro occhi rassegnati. E c’era una canzoncina che cantavamo con mamma e con i bambini che venivano a giocare con noi: Andiamo andiamo a spasso,/ la notte non è vero/ che quando il lupo dorme/andiamo a divertirci:/ ‘lupo, che fai?’/ ‘mi sto svegliando!’/ ‘uh, mamma mia, mamma mia!’// Andiamo andiamo a spasso,/ la notte non è vero/ che quando il lupo dorme/ andiamo a divertirci:/ ‘lupo, che fai?’/ ‘mi sto mettendo i pantaloni!’/ ‘uh, mamma mia, mamma mia!’”… e così, di volta in volta, il lupo indossava tutti gli indumenti fino a quando usciva fuori per rincorrerci, afferrarci e mangiarci. Ed era un fuggi fuggi di noi agnelli sempre più impauriti in cerca di riparo. Chi veniva scoperto diventava lupo. Io venivo sempre scoperta, ma non mi veniva mai bene vestire i panni del lupo perché non facevo mai spaventare nessuno… C'era poi un gioco, che facevamo all'asilo (non si chiamava ancora Scuola Materna o Scuola dell'Infanzia allora, ma asilo e basta!), che si chiamava “Il lupo e gli agnelli”, dove il lupo faceva proprio uh uh uh, per spaventare gli agnellini e farli sparpagliare fino a che uno, di volta in volta, rimaneva fermo senza sapersi più orientare per tornare a casa e perdeva il posto assegnatogli nel gioco. Vinceva chi era bravo a trovare sempre la via del ritorno, la propria casa, e a conservare il posto fino alla fine. Anche qui io perdevo sempre. Non ho mai trovato facile la strada del ritorno con dentro sempre la voglia di andare via. Ma questa è un'altra storia che più tardi forse ci racconteremo (domani forse ti narrerò del vento che sfoglia libri e rimescola la storia e stringe eternità di tempo domani forse…)

Ora, però, è ancora tempo di ricordare con te i tanti nostri Natali che son passati. È vero, sono passati (come sono passati gli inverni e i carnevali, l'adolescenza e i primi amori, le primavere e i ciliegi, il mare e i granchi da prendere tra gli scogli di sera e una lanterna per far luce. Come sono passati gli autunni e le foglie tra il vento e le stelle. Le notti insonni e le albe attese. I veli e le malinconie. Le risate al sole e le corse sulla sabbia. Sono passati i giorni della festa e quelli del dolore, i giorni dei progetti e quelli dei rimpianti). La pioggia e il rumore contro i vetri. (t t t ttttttdling dling dlingtttttttttictictictttttt dling tac tac dlingttttttt tic t…). Tutto passa (e si trascina il tempo che non passa se non sul nostro corpo, arandolo, e tra i capelli, seminando bianchi cespugli invasivi, e sui sentimenti, inaridendoli per troppa siccità e troppa arsura. Il tempo, una misura relativa, per ciascuno di noi, nel tempo infinito che tutti ci comprende). Ma il nostro Natale è per me un tempo senza tempo che io mi porto nel cuore (mò vèinə natàlə nàn ténghə dənàrə mə pìgghjəchə la pìppə e mə mèttəchə à fəmà… nel nostro dialetto una canzone napoletana cantata da Renato Carosone…)

Il ramo di pino con arance e mandarini è ancora oggi un dono di frutti da sbucciare per sentire l'odore intenso delle bucce bruciate nel camino. Un profumo particolare che mi è rimasto dentro. Dentro anche il profumo avvolgente di tutte le pietanze natalizie, mandate al forno in pietra, situato vicino alla nostra chiesa di San Giovanni (“u fùrnə də San Giuànnə”). Esiste ancora oggi e ancora oggi sforna ottime focacce e squisiti taralli. Allora, il garzone veniva a prendere “rə spasaròulə” (i grandi tegami rettangolari di non so quale metallo smaltato di nero), con ben allineate lunghe file di rose zuccherine, le cartellate, o i tegami rotondi di terracotta con dentro la pasta col ragù o l’agnello con le patate e li metteva su un'asse di legno scuro; poggiava un “tarallo” di stoffa, che aveva colore di sporco e di fumo, sulla testa e l'asse in bilico sul tarallo e montava in bicicletta esibendosi in larghe piroette di qua e di là, mantenendo miracolosamente la lunga tavola nera in equilibrio perfetto sul capo fino al forno e fischiettando o cantando allegri motivetti. Più una esibizione che una vera necessità: il forno era a due passi. Ma quando passava, noi bambini facevamo “oh!” e lui ci sorrideva, ammiccando felice (quànta vùməchə ca vè facénnə ca cə càtə pòuə na ma vədè rə fàccə nóstə…) (quante storie deve fare se poi cade allora staremo a vedere quali guai combinerà…). Quanto poco costava un tarallo di felicità!

Ogni volta, però, appena lui svoltava l'angolo e si perdeva alla mia vista, io cominciavo a preoccuparmi per la sorte di quelle delizie che, per fortuna, tornavano sempre a casa, spandendo per le strade un dolcissimo e intensissimo profumo di zucchero filato, vincotto, cannella e chiodi di garofano o di pomodori abbrustoliti. Anche quel profumo mai più dimenticato, mai più ritrovato (l’ho già scritto? Non importa, è giusto ripeterlo ancora e ancora. Per riportarlo almeno virtualmente qui nella mia casa. Accenderlo nella memoria… Basta che un rumore, un odore, già uditi o respirati un tempo, lo siano di nuovo, nel passato e insieme nel presente, reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, perché subito l’essenza permanente e solitamente nascosta delle cose sia liberata e il nostro vero io si svegli”, scriveva Marcel Proust).

Ero piuttosto tranquilla per le cartellate, quelle fritte che non bisognava mandare al forno. La nonna le friggeva “jndə a la frəssòulə” (in una grossa padella nera), piena di olio bollente e le conservava per sbollentarle, poi, all'occorrenza, nel dolce vincotto che lei e le sue sante donne preparavano durante l'estate con i fichi che mettevano al sole sulle larghe e lunghe canne intrecciate dei graticci, perché diventassero secchi, mentre quotidianamente li “lavoravano” con le dita perché rimanessero morbidi. Spesso tu mi sollecitavi a raggiungere sul terrazzo nonna Angelina per aiutarla in quella operazione che rendeva le mie mani appiccicose e dolci. Appena pronti, i fichisecchi venivano in parte mandati al forno con pezzi di cioccolato e noccioli di mandorle e una foglia d’alloro oppure lasciati al naturale. O sbollentati per farne vincotto: dopo la cottura, venivano versati dal tegame in un sacchetto di tela, da cui, pressandolo con la forza delle mani, si vedeva colare quel liquore dolcissimo ma anche forte e un tantino acre, che era magico ingrediente di tanti dolci natalizi e pasquali, ma anche di bicchieri pieni di neve.Pure i cuscinetti di Gesù Bambino, “rə calzənggéddərə”, venivano per metà mandati al forno e per metà fritti: i primi venivano poi decorati con glassa bianca; i secondi, ricoperti di zucchero (non ho visto mai un Gesù Bambino, che di anno in anno nasceva, appoggiarvi la testa: li mangiavamo prima che Lui venisse al mondo oppure erano talmente ben conservati che erano, per noi bambini, introvabili prima di Natale). Tu, in tutto quel brulicare di preparativi di dolci prelibatezze non intervenivi, lasciavi che fossero mamma e la nonna con le altre donne a sbrigarsela, ma poi per almeno un mesetto facevi colazione con cartellate e calzoncelli, conservati con cura da nonna “jndə a rə candàréddərə” (in ampi vasi di creta o di ceramica… “u càndarìddə” al singolare) e riposti nel fuoco alla monachina della cucina.

Ma il ricordo più bello di quegli anni bambini, protrattosi fino alla mia adolescenza, riguarda il Santo Natale vissuto dopo mezzanotte: dopo la nascita e la messa, a piedi (le automobili erano molto rare e anche le biciclette non erano poi tante) eravamo soliti sfidare il gelo e le stelle chiare del sereno invernale per andare a casa di zia Maria e zio Michele, il fratello di nonna Angelina, per festeggiare insieme la “loro” nascita di Gesù. Ci aspettavano ogni anno con tanti altri parenti, amici e conoscenti nella loro sala da pranzo, dove c'era un presepe più grande del nostro. C'era tanta gente da zia Maria, che era sempre sorridente e festaiola. Zio Michele, tu lo sai, era molto generoso e ospitale: un comunista ostinato e forte, che litigava sempre affettuosamente con la nonna che era, secondo lui, democristiana e bigotta. La nonna si faceva il segno della croce e gli diceva che lui, invece, era il diavolo perché comunista e miscredente, e che, da morto, sarebbe andato all'inferno “a scàrnəvəscià fùchə” (“a rimestare fuoco”). Zio Michele rideva come un matto e andava ad abbracciare forte l'unica sua sorella: erano solo loro due e si volevano un bene dell'anima. So-sourə” (“so-sorella”), diceva commosso, “mi basteranno le tue preghiere per evitare l'inferno”. E quel modo di chiamarla era un doppio nodo d'amore, quasi a dire due volte sorella. Ed era un appellativo tenerissimo che solo lui usava. Per lei>. (Le piogge e i ciliegi, vol. 1°, SECOP edizioni, Corato-Bari, 2017)

E per oggi mi fermo qui. Riprenderò presto con questo racconto magico e realistico che non ha età e in cui quelli che hanno più o meno i miei anni possono ritrovarsi… Angela/lina

 

 

mercoledì 10 dicembre 2025

Mercoledì 10 dicembre 2025: Convegno "IL DIALETTO: una lingua da custodire"...

Per il Convegno sui dialetti del 4 dicembre, nel Teatro comunale a Bitonto: “Il DIALETTO: una lingua da custodire”. Ecco il mio intervento: “Nel tempo senza tempo dei camini accesi…”.

Buon pomeriggio e benvenuti per vivere insieme una serata che sicuramente ci riserverà tante emozioni. Ritengo, infatti, che sia molto significativo e intenso il titolo dato dalla famiglia Piacente a questo Convegno sui dialetti. Mi piace moltissimo quel “custodire” che è segno di cura, di premura, di attenzione e protezione nel tempo, per preservarlo, il dialetto, dai pericoli di errate interpretazioni, mentre sarebbe opportuno fare riferimento al significato di nutrimento che il custodire contiene. E nutrire significa anche arricchirlo spiritualmente per aiutarlo a crescere, irrobustirsi, rigenerarsi.

Il dialetto, infatti, ha bisogno oggi di essere rivalutato in tutte le sue possibili derivazioni. Come stiamo facendo noi questa sera.

Il mio intervento, intanto, è legato innanzitutto ai ricordi della mia infanzia, vissuta con i nonni, in un cortile aperto a mille storie, mille voci, mille incontri del cuore, concentrati intorno a un camino acceso, non solo per riscaldarci, ma soprattutto per raccontarci e per ascoltarci nella loro lingua (il dialetto), che raramente diventava la nostra lingua perché sentivamo ormai, come tutti i ragazzi vissuti tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, la necessità di esprimerci in italiano. E spesso le nostre storie non superavano il cortile e le strade del nostro quartiere. Avevano le gambe corte e non avevano i mezzi per andare lontano.

Ecco un ricordo della primissima infanzia: c’erano, nel grande camino all’aperto nel nostro cortile u pəgnatìddə”, in cui si cucinavano rə fàfə, rə cìcərə, rə cəcèrchjə, rə ləntècchiə, la favéttə… e, accanto al “fuoco vivo”, il tegame di terracotta con gli appetitosi maccheroni al forno (rə scəcaffùnə au fùrnə)… (N.B.: le “e” rovesciate sono mute. Traduzione in italiano: pignatta di terracotta in cui si cucinavano le fave, i ceci e cicerchie, le lenticchie, la purea di fave o favetta; i maccheroni al forno).

Ma il ricordo più bello è legato alla tenera presenza dei nostri nonni materni in quel cortile: … quando ero piccolissima tu, mio amatissimo nonno, prendevi le mie manine e aprivi ad ogni numero un ditino perché per me fosse più semplice contare, perché fosse più chiaro il numero raggiunto. Non mi potevo sbagliare. Il pugnetto chiuso era il numero zero. Poi, ecco tirare fuori il pollice e poi l’indice e poi il medio, l’anulare e il mignolo (cùssə ad arà, cùssə a spruà, cùssə ad accattà rə ppànə, cùssə ad accattà rə mmìrə, e cùssə? Friulì friulà friulì friulà…) (questo ad arare, questo a potare, questo a comprare il pane, questo a comprare il vino, e questo? Friulì friulà friulì friulà) e mi sfregavi il mignolino tra le tue dita e io imparavo e ti sorridevo appagata e mai stanca di ripetere il gioco.

E, più tardi, come una gallinella, con la mia manina nella tua, mi portavi nel cortile che percorrevamo a lunghi piccoli passi dicendo insieme Réna réna rəsənìddə/ sciàməngə a fà 'nu pəgnatìddə/ n’ògnə də pànə cu rafanìddə/ e... zinnanà” (un nonsense quasi del tutto intraducibile, che cantavamo insieme per accovacciarci ridendo al suono di zinnanà).          

E, intanto, la nonna cantava, nei rari respiri del giorno, legno di culla, corde di parole, le ninnenanne per farci addormentare - ninna oh ueh la ninna oh/ e chéssa figghia mè, e chéssa figghia mèe a ci la dòo// ninnaréllə oh ueh la ninnaréllə /  

u lùpə s’è mangiatə, u lùpə s’è mangiatəla picuréllə - voce d’antico amore che mi legò alle pietre dell’antica casa, mentre il lupo ululava alle finestre della luna o s’impigliava tra le rose e le spine del nostro cortile. Oppure tra le lunghe trecce, sale-pepe, intrecciate a crocchia (il tuppo) della nonna. Mio nonno narrava storie innamorate e lei, mia nonna, le raccoglieva in panieri di ricami che un tempo avevano sorriso alle dita di mia madre in una carezza ch’era canto e racconto.

Ridevano mia nonna e mia madre, quando mia madre veniva d’estate a trascorrere le vacanze con noi. Di lunghe risate riempivano la casa il cortile la via il cielo. La gente passava, salutava e senza sapere il perché, complice, sorrideva. Così impastata era la gente del mio paese di un tempo… pane genuino, occhi curiosi…

Anche se erano i difficili anni del dopoguerra (seconda Guerra Mondiale), in cui bisognava non solo combattere l’analfabetismo dilagante, soprattutto nei paesi del sud, ma anche affermare i valori di una nazione piegata in ginocchio e in fase di ricostruzione.

Nella nostra Bitonto ci fu il paradosso del fiorire di più dialetti da un quartiere all’altro: il cozzale (u chəzzéul) dei contadini rimasti a coltivare la terra, e il dialetto “də r’artìrə” di quelli più ardimentosi che si trasferirono in paese per mandare soprattutto i figli a scuola e fare gli artigiani nella propria bottega. E altri miscugli di vari dialetti da quartiere a quartiere.

Dalla RAI in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione, nel 1960, dopo un provino, fu affidato al bravissimo maestro Alberto Manzi (morto proprio il 4 dicembre 1997) il compito, con la trasmissione “Non è mai troppo tardi”, di provvedere all’alfabetizzazione strumentale di tutti quelli che si esprimevano solo in dialetto, portando un beneficio indiscutibile per tutti, in una nazione che stava tentando di risorgere in ogni modo possibile. Anche mio nonno lo seguiva quotidianamente con grande attesa e molta attenzione. Mia sorella Lizia, più paziente di me, lo aiutava a imparare a leggere e a scrivere almeno la sua firma.

Il rovescio della medaglia fu che tutti si sentirono obbligati a parlare in italiano e a cancellare il dialetto. Ricordo le risate tra noi quando sentivamo parlare con grande sussiego qualche nostra conoscente o parente in un italiano zoppicante come “il pilaccio” al posto di “peluria” o il “rosèo” per riferirsi più semplicemente a “carnagione chiara”. E che dire di quando zia Angelina, la sorella maggiore di nostro padre, veniva a farci visita? Tutta impettita lo salutava tra un ossequiante “frate” e un naufragante “fratre mé nostra matre ci tiene la tossica”, a moltiplicare le nostre risate. Risate incontenibili quando si accingeva con tutti noi a recitare le preghiere, culminanti in una serie ininterrotta di rechiemeterna con surreale e ossimorica conclusione: rechie e scatt in pace, amén.

Credo che non occorrano altri esempi. Il dialetto, del resto, veniva proibito anche a scuola.

Persino il “prete scomodo”, Don Lorenzo Milani, come ben sappiamo, nella sua “Scuola di Barbiana” sentì l’urgenza di insegnare la lingua italiana ai suoi scolari per il sacrosanto principio di restituire una uguaglianza sociale a chi non aveva mai avuto voce. E, poi, anche altre lingue, mandandoli all’estero per dischiudere loro più ampi orizzonti di esperienze, di conoscenze e di possibilità di lavoro.

Illuminato precursore dei nostri giorni.

Solo da alcuni anni, purtroppo, abbiamo riscoperto il dialetto e la sua importanza nel definire le nostre radici, la nostra identità. E abbiamo ripreso la narrazione orale dei nostri nonni, che tramandavano valori ed emozioni nel tempo lento di più generazioni: ngèir e ngèir na volt (c’era e c’era una volta )… E la ripetizione rendeva magica l’attesa.

E c’erano i camini accesi sulla nostra voglia di ascoltare le storie antiche che ci facevano sognare la prima alba del mondo, i tramonti ancora da scoprire…

E i primi graffiti dei primi nostri antenati per consegnarsi alla storia e alla nostra memoria.

Esisteva, dunque, una sorta di consegna del “testimone” da una generazione all’altra che oggi non esiste più. Dobbiamo fare i conti, purtroppo, con un “gap” generazionale dovuto innanzitutto alla mancanza di tempo, notevolmente accorciato dal vertiginoso sviluppo scientifico e tecnologico che ha favorito nuovi mezzi e modi di comunicazione a livello planetario in tempo reale con conseguente “italiano impoverito”, fagocitato dalla lingua inglese che è alla base di questi mezzi e si è impadronita della nostra lingua, creando un nuovo e diverso analfabetismo, soprattutto delle emozioni e dei sentimenti, in un’apparente “agorà social” che è divisione e solitudine più che veicolo di socializzazione e di appartenenza a una comunità. Esempio lampante l’uso smodato del cellulare a tutte le ore del giorno e della notte, da parte di tutti, giovani e meno giovani che ignorano così la bellezza della natura; la prudenza soprattutto in macchina; l’importanza dei volti, di uno sguardo, del raccontarsi e ascoltarsi, come si faceva un tempo, seguendo il ritmo delle stagioni e del cuore. E c’era il nostro stupore. Il nostro incanto! L’azzurro del mare a confondersi con l’azzurro del cielo, le vele, il volo dei gabbiani...

Una breve parentesi: mi piace ricordare dello psicanalista e psichiatra francese del secolo scorso, Jacques Lacan, più volte citato al nostro psicanalista e saggista Massimo Recalcati, il termine “lalangue”, che indica la lingua profonda dell’inconscio - praticamente il nostro dialetto - che ci vive dentro e che emerge quando siamo più emozionati, più arrabbiati, più veri nelle nostre manifestazioni comportamentali. Essa è misteriosa, nasce con noi all’inizio della nostra vita ed è fatta essenzialmente di sentimenti forti e di forti emozioni e contrasti. È la nostra “lingua materna”, appresa attraverso il battito del cuore delle nostre mamme. Ritmo ancestrale e Amore.

E qui vorrei fare un applauso a tutti i miei interlocutori, seduti con me a queste sedie, per gli argomenti che, in tal senso, andranno a trattare. E concordo con iI lungimirante Ignazio Buttitta, sapientemente citato dal nostro Prof. Gianluca Simonetta nello straordinario titolo, in dialetto siciliano, che ha dato alla sua Relazione: “Quannu i paroli non figghianu paruli” (“Quando le parole non figliano più le parole”). Ma bisogna rifarsi a qualche verso precedente per comprendere meglio la portata valoriale e sociale della sua poesia: Quannu ci arrubbano a lingua aduttata dai patri: è persu pi sempri. Diventa poveru e servu quannu i paroli non figghianu paroli. In pratica, quando le parole non ripropongono le parole dei padri, si perde per sempre il popolo che diventa servo e più povero. Ma aspettiamo quanto ci dirà, con la sua enorme competenza e il suo sapiente ed effervescente modo di raccontare, il prof. Simonetta.

Personalmente, mi auguro che ci sia una possibile inversione di marcia proprio con la riscoperta e la valorizzazione dei nostri dialetti: eco della nostra anima più antica e profonda.

E vorrei concludere con questi pochi versi, dedicati a un signore d’altri tempi, NICOLA PIACENTE senior, noto ingegnere bitontino, a cui è dedicata questa serata. Un gentiluomo appassionato del suo lavoro e “visionario”, tanto da precorrere i tempi di là da venire nell’abbellire il suo paese, che amava tanto, con ardimentosi progetti di multipiani, e da inneggiarlo con i suoi sapidi poemetti “Re sopanomère”, nel ricordo affettuoso dei suoi concittadini. Ebbene, quel signore è ancora oggi presente tra noi con la sua famiglia e vedo che ci sta sorridendo, sornione e tenero.

Festeggio oggi con te, Nicola, il saluto/ quotidiano - pizzico di gioia e d’allegria -/ a fermare il mattino su un’intesa/ di versi da trattare con lieve ironia/ per ingannare il tempo/ del nostro invecchiare./ Ma il tempo è stato più veloce/ della tua voce,/ e non te ne ha dato il tempo.// Tua eredità le tante vite amate/ e ancora da amare,/ la tenera carezza della preghiera/ a tua MADRE, ai tuoi FIGLI e NIPOTI/ a renderti ancora VIVO e presente/ (nella nostalgia dei tuoi ricordi/ intrecciati alla famiglia/ tenacemente). Buon compleanno tra noi! Grazie.

(N.B. Desidero precisare che oltre ai nostri interventi - della Preside Giovanna Piacente, figlia dell’Ingegnere NICOLA PIACENTE, in rappresentanza di tutta la famiglia, il mio, quello del poeta dialettale e musicologo, bravissimo flautista, Vincenzo Mastropirro, della prof.ssa di Lettere classiche Carmela Minenna, e del docente universitario Gianluca Simonetta - ci sono stati gli interventi molto sentiti e profondi del Sindaco dott. Angelo Ricci, del prof. Nicola Pice e del Senatore Giovanni Procacci, magistralmente coordinati dal bravissimo Direttore del Quotidiano DaBitonto, prof. Mario Sicolo (alias Apulo Scriba). Molto gratificante per Peppino Piacente, vero e indefesso motore e promotore del Convegno e del Concorso nazionale della VI edizione della poesia dialettale, l’invito del Sindaco a programmare e realizzare di anno in anno le prossime edizioni di Convegni Culturali e Letterari, arricchenti la nostra Bitonto di nuova linfa vitale. Vorrei, inoltre, ricordare che sia le poesie dei dieci premiati con le motivazioni, sia i testi degli interventi faranno parte del Libro che verrà pubblicato con gli Atti del Convegno. Che dire? Solo GRAZIE! E grazie a tutti voi che avete la bontà di leggere il profluvio delle mie parole. Alla prossima. Angela/lina