lunedì 15 dicembre 2025

Lunedì 15 dicembre 2025: Il Santo Natale è un eterno ritorno... (prima parte)

È tempo di parlarvi di come ho vissuto per anni il Santo Natale e come lo vivo oggi… Il Natale dei miei verdi anni nella “casa del gelso e delle rose” è ormai solo un tenerissimo ricordo…

<Il Natale con te e la nonna e mamma e Lizia e gli altri parenti era troppo bello per non rimpiangerlo e non ricordarlo. Mi rimaneva nel cuore senza passare mai. Non tutto passa? Chissà.

                           Anche il Natale è un “eterno ritorno”

Costruivi ogni anno un presepe grande di carta spessa per le montagne e le vallate, che venivano sovrastate da rami di mandarini con i loro solari frutti. Un profumo inebriante si spandeva per la casa. Tappezzavi, poi, di muschio fresco e odoroso lo spiazzo davanti alla grotta e le stradine che s'inerpicavano fino alle stelle, dipinte su una lunga e larga stoffa di satin blu. E i pastori giganti di terracotta e di cartapesta. E le pecorelle e i cani. E la stella cometa e gli angeli. E un brulichio di luci a rendere magica l'atmosfera dell'Attesa. Il presepe portava in casa prati e montagne. E un senso antico di silenzio e di preghiera. Durante l'anno, mettevi da parte quelle carte spesse e ruvide, di un colore marroncinoverdemarcio, con cui i negozianti di generi alimentari incartavano i maccheroni, che venivano venduti a peso, sfusi e senza involucro e non a pacchetti da mezzo chilo o da un chilo che, oggi, hanno tanto di etichetta sulla scadenza, che poi magari scopri contraffatta o sostituita per ringiovanire un prodotto scaduto da vari mesi o anni, ma dicono più sicuri (?) dal punto di vista igienico, più belli esteticamente. Era un presepe che occupava una intera parete della stanza da pranzo e che completavi, improrogabilmente, entro l'8 dicembre per la festa dell'Immacolata, con lunghi rami di pino ai quali appendevi quei piccoli soli, disseminati tra i verdi aghetti. Quel vellutato tappeto di muschio, dal profumo di terra bagnata, avrebbe agevolato poi il cammino di pastori e re magi verso la grotta. Lucette colorate e la stella cometa, sospesa al filo di nylon invisibile, che andava da una parete all'altra della stanza. Il laghetto con le paperelle. La cascata di carta stagnola tagliata a striscioline. Le pecorelle sparse qua e là tra ciuffi d'erba vera e fiocchi di neve finti, di soffice ovatta. E il bue e l'asinello inginocchiati davanti alla mangiatoia con Giuseppe e Maria “də gràstə” (di terracotta) in atto di preghiera. E, in fondo alla grotta, il giaciglio dorato, vuoto, in attesa di Gesù Bambino. Quanto stupore! Quanta soffusa bellezza! Quanto fiduciosa e vibrante quell’Attesa!

In tutta la casa un profumo mai dimenticato e mai più ritrovato di dolcetti natalizi: le cartellate (brune rose di vincotto), i calzoncelli o cuscinetti di Gesù Bambino con pasta di mandorle e cannella, i taralli “inginocchiati” e i tarallini col gileppo, “rə piciuatìddə” (ciottolini di pasta a ricordarmi d'inverno il mare e il gioco delle cinque pietre sulla spiaggia), “rə mastazzùlə” (i mostaccioli con mandorle, cacao e vincotto, altra delizia di marmorea grazia!). Quel profumo impregnava le stanze e le chiacchiere delle donne che abitavano nel quartiere e venivano ad aiutare mamma e la nonna: Sabellina, Marietta, Angelina. Non si stancavano mai di raccontare fatti e misfatti del vicinato. Ma il Natale con te era anche bello da vivere perché occupava di sé tutto il mese di dicembre. Il presepe da far fiorire come un libro dell’Arte Pop-up nei primi otto giorni del mese e, poi, l’Immacolata, Patrona del nostro paese, e il digiuno interrotto la sera della Vigilia “chə rə fəcazzéddə də la Madónnə” (con le focaccine della Madonna), formate da pani schiacciati e tagliuzzati in superficie in tanti quadratini e con dentro i semi di anice o di finocchio; ed ecco Santa Lucia (eh sànda ləcìa bənədèttə tìnə dd’ócchiərə quàntə a ‘na chiesjə e nàn vétə mànghə la sagrəstè!...) (eh Santa Lucia benedetta hai gli occhi grandi quanto una chiesa e non vedi neppure la sacrestia!...), la voce della nonna sorpresa e indispettita quando si accorgeva che io, un po’ più grandicella, avevo problemi a leggere da lontano: le sembrava “‘nu scəcàffə a Crìstə”, (uno schiaffo al buon Dio), visto che lei non poteva leggere perché non sapeva leggere… Santa Lucia, molto amata e venerata per la sua incrollabile fede (che porta luce a chi fede non ha).

Dal 16 dicembre, infine, la novena che precedeva il Santo Natale: Tempo di Attesa e di Preghiera. Tempo di rinnovata Speranza. Prima della mezzanotte andavamo in chiesa per vedere nascere Gesù Bambino tra preghiere, canti, incenso. Nella nostra casa nasceva sempre fuori orario: o molto prima o molto dopo. In chiesa cantavamo, insieme con quelle che tu chiamavi “rə bəzzòuchə” e “rə viatéddə” (bigotte e le signorine della parrocchia), accompagnate solennemente da un pianista che suonava il maestoso organo, “Tu scendi dalle stelle” e altri canti natalizi e una ninnananna che faceva più o meno così: 

La ninna dei pastori fa ah ah ah!

La ninna dei pastori fa ah ah ah!

Dormi, dormi, bambino

ché qui ti veglia il mio cuor.

Dormi, mio Re divino,

la ninna dell'amor!

 

La ninna della mamma fa oh oh oh!

La ninna della mamma fa oh oh oh!

Dormi, dormi bambino,

ché mamma veglia per Te.

Dormi, mio Re divino,

la Croce ancora non c'è!

 

La ninna degli angioletti fa uh uh uh!

La ninna degli angioletti fa uh uh uh!

Dormi, dormi, bambino,

ché Qualcuno veglia lassù.

Dormi, mio fanciullino,

la ninna, del mio bel Gesù!

(Non c'erano allora i canti natalizi d’importazione americana, “Silent Night”, “White Christmas”, “Jingle Bells” che allietano il nostro Natale nei disincantati giorni dell’attesa. Né c'era l'albero pieno di luci, di festoni scintillanti con fiocchi argentati, rossi, dorati... Né panettoni in eserciti composti e colorati sugli scaffali dei supermercati. Non c’erano neppure supermercati, ma negozietti alla buona, gestiti alla buona con tanta gente che andava alla buona “chə la ləbbréttə” - “con un quadernino”, antesignano dell’attuale taccuino -, su cui l’esercente scriveva la somma da pagare appena possibile, nonostante il cartello in bella vista “quì non si fà credensa”). Quando vivevamo insieme il Santo Natale, spesso mi chiedevo, in chiesa, il senso di quegli angioletti che facevano uh! uh! uh!, quasi fossero lupi e volessero spaventare noi bambini. Oggi so che lupi molto più feroci di quelli veri si nascondono sotto luminose vesti d’angeli e spesso si annidano proprio nelle chiese e colpiscono proprio i bambini. O nelle case. Allora, i lupi erano lupi, gli agnelli erano agnelli e gli angeli erano angeli. Almeno era questa la percezione della realtà umana e sociale che si aveva nella nostra casa e nella nostra comunità contadina di paese di provincia, dove si ignorava persino il fumo di sei milioni di ebrei, saliti al cielo attraverso tristi ciminiere, e dove anche i reduci sciancati venivano guardati con occhi di cristiana partecipazione, che si rifletteva consolatoria nei loro occhi rassegnati. E c’era una canzoncina che cantavamo con mamma e con i bambini che venivano a giocare con noi: Andiamo andiamo a spasso,/ la notte non è vero/ che quando il lupo dorme/andiamo a divertirci:/ ‘lupo, che fai?’/ ‘mi sto svegliando!’/ ‘uh, mamma mia, mamma mia!’// Andiamo andiamo a spasso,/ la notte non è vero/ che quando il lupo dorme/ andiamo a divertirci:/ ‘lupo, che fai?’/ ‘mi sto mettendo i pantaloni!’/ ‘uh, mamma mia, mamma mia!’”… e così, di volta in volta, il lupo indossava tutti gli indumenti fino a quando usciva fuori per rincorrerci, afferrarci e mangiarci. Ed era un fuggi fuggi di noi agnelli sempre più impauriti in cerca di riparo. Chi veniva scoperto diventava lupo. Io venivo sempre scoperta, ma non mi veniva mai bene vestire i panni del lupo perché non facevo mai spaventare nessuno… C'era poi un gioco, che facevamo all'asilo (non si chiamava ancora Scuola Materna o Scuola dell'Infanzia allora, ma asilo e basta!), che si chiamava “Il lupo e gli agnelli”, dove il lupo faceva proprio uh uh uh, per spaventare gli agnellini e farli sparpagliare fino a che uno, di volta in volta, rimaneva fermo senza sapersi più orientare per tornare a casa e perdeva il posto assegnatogli nel gioco. Vinceva chi era bravo a trovare sempre la via del ritorno, la propria casa, e a conservare il posto fino alla fine. Anche qui io perdevo sempre. Non ho mai trovato facile la strada del ritorno con dentro sempre la voglia di andare via. Ma questa è un'altra storia che più tardi forse ci racconteremo (domani forse ti narrerò del vento che sfoglia libri e rimescola la storia e stringe eternità di tempo domani forse…)

Ora, però, è ancora tempo di ricordare con te i tanti nostri Natali che son passati. È vero, sono passati (come sono passati gli inverni e i carnevali, l'adolescenza e i primi amori, le primavere e i ciliegi, il mare e i granchi da prendere tra gli scogli di sera e una lanterna per far luce. Come sono passati gli autunni e le foglie tra il vento e le stelle. Le notti insonni e le albe attese. I veli e le malinconie. Le risate al sole e le corse sulla sabbia. Sono passati i giorni della festa e quelli del dolore, i giorni dei progetti e quelli dei rimpianti). La pioggia e il rumore contro i vetri. (t t t ttttttdling dling dlingtttttttttictictictttttt dling tac tac dlingttttttt tic t…). Tutto passa (e si trascina il tempo che non passa se non sul nostro corpo, arandolo, e tra i capelli, seminando bianchi cespugli invasivi, e sui sentimenti, inaridendoli per troppa siccità e troppa arsura. Il tempo, una misura relativa, per ciascuno di noi, nel tempo infinito che tutti ci comprende). Ma il nostro Natale è per me un tempo senza tempo che io mi porto nel cuore (mò vèinə natàlə nàn ténghə dənàrə mə pìgghjəchə la pìppə e mə mèttəchə à fəmà… nel nostro dialetto una canzone napoletana cantata da Renato Carosone…)

Il ramo di pino con arance e mandarini è ancora oggi un dono di frutti da sbucciare per sentire l'odore intenso delle bucce bruciate nel camino. Un profumo particolare che mi è rimasto dentro. Dentro anche il profumo avvolgente di tutte le pietanze natalizie, mandate al forno in pietra, situato vicino alla nostra chiesa di San Giovanni (“u fùrnə də San Giuànnə”). Esiste ancora oggi e ancora oggi sforna ottime focacce e squisiti taralli. Allora, il garzone veniva a prendere “rə spasaròulə” (i grandi tegami rettangolari di non so quale metallo smaltato di nero), con ben allineate lunghe file di rose zuccherine, le cartellate, o i tegami rotondi di terracotta con dentro la pasta col ragù o l’agnello con le patate e li metteva su un'asse di legno scuro; poggiava un “tarallo” di stoffa, che aveva colore di sporco e di fumo, sulla testa e l'asse in bilico sul tarallo e montava in bicicletta esibendosi in larghe piroette di qua e di là, mantenendo miracolosamente la lunga tavola nera in equilibrio perfetto sul capo fino al forno e fischiettando o cantando allegri motivetti. Più una esibizione che una vera necessità: il forno era a due passi. Ma quando passava, noi bambini facevamo “oh!” e lui ci sorrideva, ammiccando felice (quànta vùməchə ca vè facénnə ca cə càtə pòuə na ma vədè rə fàccə nóstə…) (quante storie deve fare se poi cade allora staremo a vedere quali guai combinerà…). Quanto poco costava un tarallo di felicità!

Ogni volta, però, appena lui svoltava l'angolo e si perdeva alla mia vista, io cominciavo a preoccuparmi per la sorte di quelle delizie che, per fortuna, tornavano sempre a casa, spandendo per le strade un dolcissimo e intensissimo profumo di zucchero filato, vincotto, cannella e chiodi di garofano o di pomodori abbrustoliti. Anche quel profumo mai più dimenticato, mai più ritrovato (l’ho già scritto? Non importa, è giusto ripeterlo ancora e ancora. Per riportarlo almeno virtualmente qui nella mia casa. Accenderlo nella memoria… Basta che un rumore, un odore, già uditi o respirati un tempo, lo siano di nuovo, nel passato e insieme nel presente, reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, perché subito l’essenza permanente e solitamente nascosta delle cose sia liberata e il nostro vero io si svegli”, scriveva Marcel Proust).

Ero piuttosto tranquilla per le cartellate, quelle fritte che non bisognava mandare al forno. La nonna le friggeva “jndə a la frəssòulə” (in una grossa padella nera), piena di olio bollente e le conservava per sbollentarle, poi, all'occorrenza, nel dolce vincotto che lei e le sue sante donne preparavano durante l'estate con i fichi che mettevano al sole sulle larghe e lunghe canne intrecciate dei graticci, perché diventassero secchi, mentre quotidianamente li “lavoravano” con le dita perché rimanessero morbidi. Spesso tu mi sollecitavi a raggiungere sul terrazzo nonna Angelina per aiutarla in quella operazione che rendeva le mie mani appiccicose e dolci. Appena pronti, i fichisecchi venivano in parte mandati al forno con pezzi di cioccolato e noccioli di mandorle e una foglia d’alloro oppure lasciati al naturale. O sbollentati per farne vincotto: dopo la cottura, venivano versati dal tegame in un sacchetto di tela, da cui, pressandolo con la forza delle mani, si vedeva colare quel liquore dolcissimo ma anche forte e un tantino acre, che era magico ingrediente di tanti dolci natalizi e pasquali, ma anche di bicchieri pieni di neve.Pure i cuscinetti di Gesù Bambino, “rə calzənggéddərə”, venivano per metà mandati al forno e per metà fritti: i primi venivano poi decorati con glassa bianca; i secondi, ricoperti di zucchero (non ho visto mai un Gesù Bambino, che di anno in anno nasceva, appoggiarvi la testa: li mangiavamo prima che Lui venisse al mondo oppure erano talmente ben conservati che erano, per noi bambini, introvabili prima di Natale). Tu, in tutto quel brulicare di preparativi di dolci prelibatezze non intervenivi, lasciavi che fossero mamma e la nonna con le altre donne a sbrigarsela, ma poi per almeno un mesetto facevi colazione con cartellate e calzoncelli, conservati con cura da nonna “jndə a rə candàréddərə” (in ampi vasi di creta o di ceramica… “u càndarìddə” al singolare) e riposti nel fuoco alla monachina della cucina.

Ma il ricordo più bello di quegli anni bambini, protrattosi fino alla mia adolescenza, riguarda il Santo Natale vissuto dopo mezzanotte: dopo la nascita e la messa, a piedi (le automobili erano molto rare e anche le biciclette non erano poi tante) eravamo soliti sfidare il gelo e le stelle chiare del sereno invernale per andare a casa di zia Maria e zio Michele, il fratello di nonna Angelina, per festeggiare insieme la “loro” nascita di Gesù. Ci aspettavano ogni anno con tanti altri parenti, amici e conoscenti nella loro sala da pranzo, dove c'era un presepe più grande del nostro. C'era tanta gente da zia Maria, che era sempre sorridente e festaiola. Zio Michele, tu lo sai, era molto generoso e ospitale: un comunista ostinato e forte, che litigava sempre affettuosamente con la nonna che era, secondo lui, democristiana e bigotta. La nonna si faceva il segno della croce e gli diceva che lui, invece, era il diavolo perché comunista e miscredente, e che, da morto, sarebbe andato all'inferno “a scàrnəvəscià fùchə” (“a rimestare fuoco”). Zio Michele rideva come un matto e andava ad abbracciare forte l'unica sua sorella: erano solo loro due e si volevano un bene dell'anima. So-sourə” (“so-sorella”), diceva commosso, “mi basteranno le tue preghiere per evitare l'inferno”. E quel modo di chiamarla era un doppio nodo d'amore, quasi a dire due volte sorella. Ed era un appellativo tenerissimo che solo lui usava. Per lei>. (Le piogge e i ciliegi, vol. 1°, SECOP edizioni, Corato-Bari, 2017)

E per oggi mi fermo qui. Riprenderò presto con questo racconto magico e realistico che non ha età e in cui quelli che hanno più o meno i miei anni possono ritrovarsi… Angela/lina

 

 

mercoledì 10 dicembre 2025

Mercoledì 10 dicembre 2025: Convegno "IL DIALETTO: una lingua da custodire"...

Per il Convegno sui dialetti del 4 dicembre, nel Teatro comunale a Bitonto: “Il DIALETTO: una lingua da custodire”. Ecco il mio intervento: “Nel tempo senza tempo dei camini accesi…”.

Buon pomeriggio e benvenuti per vivere insieme una serata che sicuramente ci riserverà tante emozioni. Ritengo, infatti, che sia molto significativo e intenso il titolo dato dalla famiglia Piacente a questo Convegno sui dialetti. Mi piace moltissimo quel “custodire” che è segno di cura, di premura, di attenzione e protezione nel tempo, per preservarlo, il dialetto, dai pericoli di errate interpretazioni, mentre sarebbe opportuno fare riferimento al significato di nutrimento che il custodire contiene. E nutrire significa anche arricchirlo spiritualmente per aiutarlo a crescere, irrobustirsi, rigenerarsi.

Il dialetto, infatti, ha bisogno oggi di essere rivalutato in tutte le sue possibili derivazioni. Come stiamo facendo noi questa sera.

Il mio intervento, intanto, è legato innanzitutto ai ricordi della mia infanzia, vissuta con i nonni, in un cortile aperto a mille storie, mille voci, mille incontri del cuore, concentrati intorno a un camino acceso, non solo per riscaldarci, ma soprattutto per raccontarci e per ascoltarci nella loro lingua (il dialetto), che raramente diventava la nostra lingua perché sentivamo ormai, come tutti i ragazzi vissuti tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, la necessità di esprimerci in italiano. E spesso le nostre storie non superavano il cortile e le strade del nostro quartiere. Avevano le gambe corte e non avevano i mezzi per andare lontano.

Ecco un ricordo della primissima infanzia: c’erano, nel grande camino all’aperto nel nostro cortile u pəgnatìddə”, in cui si cucinavano rə fàfə, rə cìcərə, rə cəcèrchjə, rə ləntècchiə, la favéttə… e, accanto al “fuoco vivo”, il tegame di terracotta con gli appetitosi maccheroni al forno (rə scəcaffùnə au fùrnə)… (N.B.: le “e” rovesciate sono mute. Traduzione in italiano: pignatta di terracotta in cui si cucinavano le fave, i ceci e cicerchie, le lenticchie, la purea di fave o favetta; i maccheroni al forno).

Ma il ricordo più bello è legato alla tenera presenza dei nostri nonni materni in quel cortile: … quando ero piccolissima tu, mio amatissimo nonno, prendevi le mie manine e aprivi ad ogni numero un ditino perché per me fosse più semplice contare, perché fosse più chiaro il numero raggiunto. Non mi potevo sbagliare. Il pugnetto chiuso era il numero zero. Poi, ecco tirare fuori il pollice e poi l’indice e poi il medio, l’anulare e il mignolo (cùssə ad arà, cùssə a spruà, cùssə ad accattà rə ppànə, cùssə ad accattà rə mmìrə, e cùssə? Friulì friulà friulì friulà…) (questo ad arare, questo a potare, questo a comprare il pane, questo a comprare il vino, e questo? Friulì friulà friulì friulà) e mi sfregavi il mignolino tra le tue dita e io imparavo e ti sorridevo appagata e mai stanca di ripetere il gioco.

E, più tardi, come una gallinella, con la mia manina nella tua, mi portavi nel cortile che percorrevamo a lunghi piccoli passi dicendo insieme Réna réna rəsənìddə/ sciàməngə a fà 'nu pəgnatìddə/ n’ògnə də pànə cu rafanìddə/ e... zinnanà” (un nonsense quasi del tutto intraducibile, che cantavamo insieme per accovacciarci ridendo al suono di zinnanà).          

E, intanto, la nonna cantava, nei rari respiri del giorno, legno di culla, corde di parole, le ninnenanne per farci addormentare - ninna oh ueh la ninna oh/ e chéssa figghia mè, e chéssa figghia mèe a ci la dòo// ninnaréllə oh ueh la ninnaréllə /  

u lùpə s’è mangiatə, u lùpə s’è mangiatəla picuréllə - voce d’antico amore che mi legò alle pietre dell’antica casa, mentre il lupo ululava alle finestre della luna o s’impigliava tra le rose e le spine del nostro cortile. Oppure tra le lunghe trecce, sale-pepe, intrecciate a crocchia (il tuppo) della nonna. Mio nonno narrava storie innamorate e lei, mia nonna, le raccoglieva in panieri di ricami che un tempo avevano sorriso alle dita di mia madre in una carezza ch’era canto e racconto.

Ridevano mia nonna e mia madre, quando mia madre veniva d’estate a trascorrere le vacanze con noi. Di lunghe risate riempivano la casa il cortile la via il cielo. La gente passava, salutava e senza sapere il perché, complice, sorrideva. Così impastata era la gente del mio paese di un tempo… pane genuino, occhi curiosi…

Anche se erano i difficili anni del dopoguerra (seconda Guerra Mondiale), in cui bisognava non solo combattere l’analfabetismo dilagante, soprattutto nei paesi del sud, ma anche affermare i valori di una nazione piegata in ginocchio e in fase di ricostruzione.

Nella nostra Bitonto ci fu il paradosso del fiorire di più dialetti da un quartiere all’altro: il cozzale (u chəzzéul) dei contadini rimasti a coltivare la terra, e il dialetto “də r’artìrə” di quelli più ardimentosi che si trasferirono in paese per mandare soprattutto i figli a scuola e fare gli artigiani nella propria bottega. E altri miscugli di vari dialetti da quartiere a quartiere.

Dalla RAI in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione, nel 1960, dopo un provino, fu affidato al bravissimo maestro Alberto Manzi (morto proprio il 4 dicembre 1997) il compito, con la trasmissione “Non è mai troppo tardi”, di provvedere all’alfabetizzazione strumentale di tutti quelli che si esprimevano solo in dialetto, portando un beneficio indiscutibile per tutti, in una nazione che stava tentando di risorgere in ogni modo possibile. Anche mio nonno lo seguiva quotidianamente con grande attesa e molta attenzione. Mia sorella Lizia, più paziente di me, lo aiutava a imparare a leggere e a scrivere almeno la sua firma.

Il rovescio della medaglia fu che tutti si sentirono obbligati a parlare in italiano e a cancellare il dialetto. Ricordo le risate tra noi quando sentivamo parlare con grande sussiego qualche nostra conoscente o parente in un italiano zoppicante come “il pilaccio” al posto di “peluria” o il “rosèo” per riferirsi più semplicemente a “carnagione chiara”. E che dire di quando zia Angelina, la sorella maggiore di nostro padre, veniva a farci visita? Tutta impettita lo salutava tra un ossequiante “frate” e un naufragante “fratre mé nostra matre ci tiene la tossica”, a moltiplicare le nostre risate. Risate incontenibili quando si accingeva con tutti noi a recitare le preghiere, culminanti in una serie ininterrotta di rechiemeterna con surreale e ossimorica conclusione: rechie e scatt in pace, amén.

Credo che non occorrano altri esempi. Il dialetto, del resto, veniva proibito anche a scuola.

Persino il “prete scomodo”, Don Lorenzo Milani, come ben sappiamo, nella sua “Scuola di Barbiana” sentì l’urgenza di insegnare la lingua italiana ai suoi scolari per il sacrosanto principio di restituire una uguaglianza sociale a chi non aveva mai avuto voce. E, poi, anche altre lingue, mandandoli all’estero per dischiudere loro più ampi orizzonti di esperienze, di conoscenze e di possibilità di lavoro.

Illuminato precursore dei nostri giorni.

Solo da alcuni anni, purtroppo, abbiamo riscoperto il dialetto e la sua importanza nel definire le nostre radici, la nostra identità. E abbiamo ripreso la narrazione orale dei nostri nonni, che tramandavano valori ed emozioni nel tempo lento di più generazioni: ngèir e ngèir na volt (c’era e c’era una volta )… E la ripetizione rendeva magica l’attesa.

E c’erano i camini accesi sulla nostra voglia di ascoltare le storie antiche che ci facevano sognare la prima alba del mondo, i tramonti ancora da scoprire…

E i primi graffiti dei primi nostri antenati per consegnarsi alla storia e alla nostra memoria.

Esisteva, dunque, una sorta di consegna del “testimone” da una generazione all’altra che oggi non esiste più. Dobbiamo fare i conti, purtroppo, con un “gap” generazionale dovuto innanzitutto alla mancanza di tempo, notevolmente accorciato dal vertiginoso sviluppo scientifico e tecnologico che ha favorito nuovi mezzi e modi di comunicazione a livello planetario in tempo reale con conseguente “italiano impoverito”, fagocitato dalla lingua inglese che è alla base di questi mezzi e si è impadronita della nostra lingua, creando un nuovo e diverso analfabetismo, soprattutto delle emozioni e dei sentimenti, in un’apparente “agorà social” che è divisione e solitudine più che veicolo di socializzazione e di appartenenza a una comunità. Esempio lampante l’uso smodato del cellulare a tutte le ore del giorno e della notte, da parte di tutti, giovani e meno giovani che ignorano così la bellezza della natura; la prudenza soprattutto in macchina; l’importanza dei volti, di uno sguardo, del raccontarsi e ascoltarsi, come si faceva un tempo, seguendo il ritmo delle stagioni e del cuore. E c’era il nostro stupore. Il nostro incanto! L’azzurro del mare a confondersi con l’azzurro del cielo, le vele, il volo dei gabbiani...

Una breve parentesi: mi piace ricordare dello psicanalista e psichiatra francese del secolo scorso, Jacques Lacan, più volte citato al nostro psicanalista e saggista Massimo Recalcati, il termine “lalangue”, che indica la lingua profonda dell’inconscio - praticamente il nostro dialetto - che ci vive dentro e che emerge quando siamo più emozionati, più arrabbiati, più veri nelle nostre manifestazioni comportamentali. Essa è misteriosa, nasce con noi all’inizio della nostra vita ed è fatta essenzialmente di sentimenti forti e di forti emozioni e contrasti. È la nostra “lingua materna”, appresa attraverso il battito del cuore delle nostre mamme. Ritmo ancestrale e Amore.

E qui vorrei fare un applauso a tutti i miei interlocutori, seduti con me a queste sedie, per gli argomenti che, in tal senso, andranno a trattare. E concordo con iI lungimirante Ignazio Buttitta, sapientemente citato dal nostro Prof. Gianluca Simonetta nello straordinario titolo, in dialetto siciliano, che ha dato alla sua Relazione: “Quannu i paroli non figghianu paruli” (“Quando le parole non figliano più le parole”). Ma bisogna rifarsi a qualche verso precedente per comprendere meglio la portata valoriale e sociale della sua poesia: Quannu ci arrubbano a lingua aduttata dai patri: è persu pi sempri. Diventa poveru e servu quannu i paroli non figghianu paroli. In pratica, quando le parole non ripropongono le parole dei padri, si perde per sempre il popolo che diventa servo e più povero. Ma aspettiamo quanto ci dirà, con la sua enorme competenza e il suo sapiente ed effervescente modo di raccontare, il prof. Simonetta.

Personalmente, mi auguro che ci sia una possibile inversione di marcia proprio con la riscoperta e la valorizzazione dei nostri dialetti: eco della nostra anima più antica e profonda.

E vorrei concludere con questi pochi versi, dedicati a un signore d’altri tempi, NICOLA PIACENTE senior, noto ingegnere bitontino, a cui è dedicata questa serata. Un gentiluomo appassionato del suo lavoro e “visionario”, tanto da precorrere i tempi di là da venire nell’abbellire il suo paese, che amava tanto, con ardimentosi progetti di multipiani, e da inneggiarlo con i suoi sapidi poemetti “Re sopanomère”, nel ricordo affettuoso dei suoi concittadini. Ebbene, quel signore è ancora oggi presente tra noi con la sua famiglia e vedo che ci sta sorridendo, sornione e tenero.

Festeggio oggi con te, Nicola, il saluto/ quotidiano - pizzico di gioia e d’allegria -/ a fermare il mattino su un’intesa/ di versi da trattare con lieve ironia/ per ingannare il tempo/ del nostro invecchiare./ Ma il tempo è stato più veloce/ della tua voce,/ e non te ne ha dato il tempo.// Tua eredità le tante vite amate/ e ancora da amare,/ la tenera carezza della preghiera/ a tua MADRE, ai tuoi FIGLI e NIPOTI/ a renderti ancora VIVO e presente/ (nella nostalgia dei tuoi ricordi/ intrecciati alla famiglia/ tenacemente). Buon compleanno tra noi! Grazie.

(N.B. Desidero precisare che oltre ai nostri interventi - della Preside Giovanna Piacente, figlia dell’Ingegnere NICOLA PIACENTE, in rappresentanza di tutta la famiglia, il mio, quello del poeta dialettale e musicologo, bravissimo flautista, Vincenzo Mastropirro, della prof.ssa di Lettere classiche Carmela Minenna, e del docente universitario Gianluca Simonetta - ci sono stati gli interventi molto sentiti e profondi del Sindaco dott. Angelo Ricci, del prof. Nicola Pice e del Senatore Giovanni Procacci, magistralmente coordinati dal bravissimo Direttore del Quotidiano DaBitonto, prof. Mario Sicolo (alias Apulo Scriba). Molto gratificante per Peppino Piacente, vero e indefesso motore e promotore del Convegno e del Concorso nazionale della VI edizione della poesia dialettale, l’invito del Sindaco a programmare e realizzare di anno in anno le prossime edizioni di Convegni Culturali e Letterari, arricchenti la nostra Bitonto di nuova linfa vitale. Vorrei, inoltre, ricordare che sia le poesie dei dieci premiati con le motivazioni, sia i testi degli interventi faranno parte del Libro che verrà pubblicato con gli Atti del Convegno. Che dire? Solo GRAZIE! E grazie a tutti voi che avete la bontà di leggere il profluvio delle mie parole. Alla prossima. Angela/lina

                           

sabato 6 dicembre 2025

Sabato 6 dicembre 2025: La presentazione del saggio "I LUOGHI DEL CUORE..." alcuni giorni fa a PALAZZO FERRARA (Corato-Bari)...


… e tu ascolta le mie parole
sanno di storie segrete
sono musica grido preghiera.
Sanno il confine illimitato del cuore…

(a.d.l., versi inediti)

Carissimi, intanto auguri di cuore a quanti/quante festeggiano oggi il proprio onomastico e sono davvero tantissimi anche nella mia famiglia. Un nome per tutti: il mio amatissimo nipote Nicola Piacente. E, poi, nipoti e pronipoti al maschile e al femminile, tantissimi amici e tantissime amiche. Un particolare pensiero a chi è, da qualche anno, tra le stelle nel Cielo. Penso a Nico Mori e ai suoi meravigliosi figli Manuela con Alberto, e Alberto, tanto caro al suo cuore. Cara a me tutta la famiglia.

Ma, al di là di tutto questo, scrivo oggi perché desidero riportare qui i commenti di alcune amiche e alcuni amici presenti alla serata della presentazione del mio saggio I LUOGHI DEL CUORE - una sola musicapoesia o il contrario - (SECOP edizioni, Corato-Bari, 2025, pp.170. Euro 14,00).

Sono commenti che scaldano il cuore e, con questo freddo dicembrino e con i venti di guerra che sempre più soffiano nel nostro Pianeta, ritengo che sia davvero importante riscoprire le vie del cuore se vogliamo sperare di salvarci. Insieme è possibile:

<L'incontro di alcune sere fa per la presentazione del libro di Angela De Leo (SECOP edizioni) si è svolto in una cornice magnifica, ospitato da Filippo Ferrara in un ambiente che ha contribuito a rendere l'atmosfera intima e suggestiva. Tenutosi presso casa Ferrara a Corato, l'evento ha trasformato la tradizionale lectio in una profonda riflessione sulla Poesia e sul suo rapporto con il suono. L'autrice, che ho avuto modo di descrivere in passato come “l’etere tra l’immagine e l’occhio” per la sua capacità di rendere la poesia uno speciale conduttore tra percezione e realtà, ha delineato il senso profondo del titolo, offrendo la sua interpretazione dei “luoghi” non come spazi fisici, ma come rifugi e paesaggi interiori dell’anima. La serata è stata sapientemente condotta da Mariella Medea Sivo, la cui grande preparazione ha animato il dibattito ponendo una domanda fondamentale: “Essere poeti: si nasce o si diventa?”. Su questo punto, gli autori hanno risposto con molta umiltà. De Leo ha espresso la sua dedizione come qualcosa di “innato”, mentre Curci, pur partendo da un modesto “non so”, ha guidato gli ascoltatori attraverso le sue argomentazioni, portando infine alla conclusione implicita: si nasce poeti. Il vero catalizzatore della serata è stato Vittorino Curci, poeta, scrittore e noto sassofonista jazz. Ha sottolineato l’importanza dell’ascolto dell’autore come atto essenziale. Ha portato l’esempio di Leopardi, noto per essere stato un lettore pessimo, e il suo intervento è apparso in un primo momento paradossale. In realtà, proprio l’esempio contrario chiariva il senso profondo del suo discorso: anche quando l’autore legge male, l’attenzione si concentra su ciò che sta dicendo e non sulla bellezza della voce. È questa vicinanza alla fonte del testo che permette di coglierne la forza intrinseca e la parte interiore dell’autore, quella che spesso rimane nascosta. L’intervento di una ragazza giovane ci ha riportati tutti alla nostra giovinezza: l’età in cui si inizia a essere poeti, scrittori, pittori, musicisti, matematici ecc. Il saggio di Angela De Leo su Curci è una porta d’accesso a un mondo interiore. Besa Nuhi

Una serata indimenticabile. Prosa, poesie e musica hanno creato un'alchimia magica dalle sfumature eteree. Grazie alla tua insuperabile, instancabile, incantevole mamma e donna, vaso di una moltitudine di saperi e di una raffinatezza senza tempo. Nunzia Tarricone (ha scritto questo commento privatamente a mia figlia Raffaella).

È stata una serata bellissima! In termini assoluti. Sono strafelice di aver minimamente contribuito a questo evento imperdibile. Grata a te, a voi 😘 Mariella Medea Sivo.

La serata si è svolta in un diretto confronto tra i due autori: Angela e Vittorino, sul come la poesia possa essere intesa in modo diverso dalla psiche femminile e dalla psiche maschile. Per Angela la poesia è una creazione spontanea che scaturisce da una pulsione interna che sente l'urgenza di esprimersi, per Vittorino la poesia sa di ricerca, di analisi, di riflessioni. Sicché in Angela l'immediatezza intuitiva, creativa nasce nell'emisfero cerebrale destro, l'elaborazione poetica in Vittorino proviene dall'emisfero cerebrale sinistro. Essendo i due emisferi complementari fra loro, posso concludere che le diversità d'intesa di partenza alla fine si incontrano, si ampliano e si completano. Le dissonanze sono un arricchimento! Angela Lotito

Una squisita serata, sobria, schietta e insieme profonda, per contenuti artistici, legami personali, riflessioni collettive. Moderati da Mariella Medea Sivo, la "poetologa" Angela De Leo e il poliedrico Vittorino Curci si sono (ri)trovati ai margini di un tempo "tridimensionale" i cui assi confluiscono nel punto in cui l'arte diventa dono: il tempo trascorso fra le pagine di una storia che diventa un saggio critico letterario mantenendo un legame emozionale che fa ancora capolino alla parola 𝑐𝑢𝑜𝑟𝑒; quello presente fra 𝑝𝑎𝑟𝑜𝑙𝑒 che parlano della 𝑝𝑎𝑟𝑜𝑙𝑎 attorno alla sempre audace e irrinunciabile domanda "cos'è la poesia?" mentre le note, ora divertite ora virtuosistiche del sax passano per audaci “dissonanze” tutte tese ad accentrare ed esaltare “consonanze”; quello futuro nell’entusiasmo di domande sincere e appassionate soprattutto di giovani ai quali il dovere di una risposta non può esimersi dall’assunzione di responsabilità e dall’impegno costruttivo a una eredità migliore di quella ricevuta. Storie, generazioni, arti, parole, poesia che attraversano fogli, pagine, sedie e perfino silenzi soffiati nel becco d’un fiato che non diventa nota ma lascia aperto l’orizzonte della musica che può ancora diventare. Della pagina ancora da scrivere. Del mattone ancora da posare. Della nuvola ancora da scalare. Della terra in cui ancora sporcarsi le mani. Vito Davoli.

Come è facile notare, sono commenti molto incisivi e interessanti che meritano di essere letti e commentati in una sorta di tavola rotonda nel nostro blog.

Intanto, mi preme sottolineare che siamo stati accolti dal dott. Ferrara nel suo Palazzo, che ha sapore di Dimora, Famiglia, Cenacolo sacro di Cultura e Letteratura, respirata a pieni polmoni da quanti: poeti, scrittori, giornalisti, prima di noi si sono avvicendati a leggere le loro opere, grazie alla straordinaria offerta gratuita della propria casa da parte di Filippo Ferrara, novello, accogliente, colto, sorridente Mecenate dei nostri giorni. Figura più unica che rara in questo tempo di scarsi lettori, di persone indifferenti alla Cultura e all’Arte in tutte le sue nobili manifestazioni. Persone più propense ad una serata in pizzeria o a una partita di burraco negli pseudo circoli culturali del nostro paese. Pure, ci sono stati due interventi molto profondi, soprattutto per competenza musicale e letteraria che hanno fatto la differenza e che mi hanno dato la misura del loro valore. Peccato che mi sfuggano i nomi, ma spero di poterli recuperare grazie alla nostra eccezionale presentatrice, Mariella Medea Sivo, preziosa più che mai, insieme al sorriso rassicurante del suo partner Nicola Rizzi, di solito ottimo interlocutore e bravissimo fotografo sempre.

Desidero puntualizzare, però, che non amo le omologazioni e le semplici consonanze, come erroneamente sono stati interpretati alcuni miei esempi, effettivamente poco chiari, perché amo, al contrario, le contraddizioni e il contraddittorio, come ben sapete, miei cari lettoti, e le dissonanze che ci aiutano a riflettere sui vari punti di vista e a migliorarci, tenendo conto della validità o meno del punto di vista di ciascuno.

Il mattatore della serata, comunque, come è stato ben rilevato, è stato Vittorino, eclettico, geniale, irruente, tracimante come un fiume in piena con i suoi molteplici talenti. Straordinarie sono state le sue performance con il sassofono: stupendo scorrere delle acque e “suoni onomatopeici” di rara significatività. A pagina 130 del nostro libro ecco dei versi di Vittorino che traducono in parole quanto ci ha fatto ascoltare col suono del suo sax: … e la luce di ogni luogo, sulle/ palpebre di uno straniero che taglia l’acqua del fiume/ con le forbici di una vita semplice, ma non priva di/ mistero./ come spiegare l intensità di un verde? I libri sono ancora/ sugli scaffali l’aria e dolce e noi siamo assolti da ogni/ peccato./ quel poco che era possibile prevedere non ha tradito./ men che meno la buona solitudine

Ecco, il mistero si accompagna spesso con la poesia e la solitudine del poeta. Il mistero non va svelato, pena la perdita della poesia e la perdita della sacralità che accompagna la nostra vita. Dalla nascita alla morte.

Sarebbe stato molto interessante leggere le pagine seguenti, ma l’intervento estremamente intelligente quanto inatteso di una ragazzina, Morena Procacci, che sistematicamente è presente alle serate in casa Ferrara, ci ha riportato alla concretezza della realtà: la serata a lei è piaciuta molto perché non abbiamo letto i nostri interventi, ma siamo “andati a braccio” rendendo meno formale e più interessante, spontanea, immediata e coinvolgente la serata.

Grazie, carissima Morena, futura scrittrice oltre che accanita lettrice, perché hai scompaginato tutti gli schemi e soprattutto i nostri pre-giudizi sulla realtà di oggi. Finché ci sarà una ragazzina in gamba come te, abbiamo motivo di sperare ancora…

Grazie a tutti quelli che ci hanno fatto dono dei loro sentiti e profondi commenti. Serate così sono da ripetere, vero dott. Ferrara? Il primo a cui tutti noi dobbiamo gratitudine e riconoscenza.

Buona Immacolata e sereno Santo Natale a tutti. Tempo si rinnovate Speranze e di Ri-nascita all’insegna di tutti i luoghi che il nostro cuore abita. Angela/lina

venerdì 28 novembre 2025

Venerdì 28 novembre 2025: Il Progetto "Donne d'ogni genere" e il MANIFESTO di tanti STUDENTI...

… affacciati ai balconi della vita

perché non se ne perda il profumo

che la nostra Anima sprigiona ed esalta…

           (a.d.l. versi inediti)

Due sere fa, non potendo, purtroppo, essere presente alla magnifica serata conclusiva del Progetto “Donne d'ogni genere” organizzato dall'Associazione culturale FOS, presso l'Agorà del Liceo Oriani di Corato, ho pensato a lungo alle mie lunghe primavere e a quante "donne d'ogni genere", nel corso di queste, io abbia incontrato. Mi porto nel cuore una lunga lista di volti e di storie di Donne che hanno vissuto perlopiù all'ombra di un padre e di un marito padrone. Senza avere mai la possibilità di scelta. Erano gli anni Quaranta-Cinquanta del secolo scorso, e le loro esistenze documentano una realtà a ridosso del dopoguerra (seconda guerra mondiale) dura, amara, rigida. Patriarcale ad oltranza.

Io ero una ragazzina ribelle e scandalizzavo i benpensanti che mi volevano tutta casa-chiesa-scuola. Una triade che mi stava stretta per i miei vibranti quanto innocenti, ma perseveranti slanci di libertà in un mondo ottuso ad ogni cambiamento.

 Poi, il Sessantotto e le prime forme di ribellione da parte di noi giovani donne (io ero già madre della mia prima bambina, nata proprio a metà di quell'anno), con le gonne che si accorciarono vertiginosamente (vedi Mary Quant) e il mormorio della gente impreparata per ignoranza e per incapacità di accogliere il nuovo come una sfida salutare e non come una mancanza di rispetto verso la intoccabile tradizione (che era un “tramandare” ma anche un “tradire” e un “sentirsi traditi”. Mi ci vorrebbe un trattato per chiarire questo mio pensiero, ma... "intelligenti pauca").

Intanto, vorrei ricordare che il nostro passaggio su questa terra, breve o lungo che sia, è inevitabilmente fatto di esperienze esistenziali.

Le esperienze si traducono in incontri e ogni incontro necessita di parole per realizzare mediazione e socializzazione. E le parole si traducono in storie che vanno raccontate per ricordare il passato e guardare al futuro attraverso le istituzioni sociali più importanti: la famiglia, la scuola, la comunità. E, dunque, personalmente ritengo molto importanti ancora, oggi più che mai, gli incontri e gli ascolti attivi tra genitori e figli, tra alunni e docenti e tra docenti e genitori in un confronto aperto, e chiaro nei ruoli e nelle funzioni, per poter mettere a fuoco particolari realtà, non sempre positive ed educative, che vengono innanzitutto vissute in casa (luogo che dovrebbe essere sicuro rifugio protettivo e sereno, ma non sempre lo è. Spesso i mostri si annidano proprio nella famiglia con devastanti conseguenze, come ben sappiamo), ma, a volte, anche nella scuola tra insegnanti e alunni. Sappiamo le difficoltà che gli alunni e gli studenti incontrano nella scuola quando “incontrano” insegnanti incapaci di ascolto e di serena accoglienza. Occorre il coraggio di parlarne.

Solo dopo aver affrontato “in diretta” questi problemi, spesso irrisolti, ritengo che sia fondamentale la lettura. Tanta lettura per scoprire, studiare e conoscere altre realtà, diverse da quelle vissute in prima persona. Per la maturazione di un nuovo appagante senso di responsabilità personale... E di cambiamento. A volte salutare e salvifico. 

Oggi abbiamo la possibilità di leggere autrici che scrivono finalmente di sé con coraggio, determinazione e senza paura. Si raccontano senza falsi pudori e senza lo specchio deformante della scrittura maschile, che a lungo ha dominato in un prolungamento della società patriarcale dura a morire. Sarebbe salutare discuterne.

So che gli studenti coinvolti in questo Progetto hanno ascoltato alcune voci di queste autrici, le hanno cercate e proposte con entusiasmo.

So che si sono confrontati anche con l'Arte del fare Teatro, sentendosene catturati. La bellezza non solo viene sfiorata ma anche vissuta. E questo è impagabile.

Insomma avrei voluto tanto esserci e non solo nei panni di presidente della Associazione culturale promotrice, ma anche e soprattutto come spettatrice, ed ex insegnante attenta ad imparare anch'io. Non a caso Seneca sosteneva: “C’è un duplice vantaggio nell’insegnare, perché, mentre si insegna, si impara”.

Non vedo l'ora di leggere il Manifesto che gli studenti hanno redatto tutti insieme, con grande entusiasmo. Ci renderà migliori? Io ritengo di sì. E renderà più vivibile questo vecchio mondo? Ce lo auguriamo. Nella riscoperta delle passioni della mente e del cuore! Della intelligenza dell’anima.

Sempre grata a quanti amano leggere queste pagine, scritte appunto con il cuore e con l’anima. A presto. Angela/lina

mercoledì 26 novembre 2025

Martedì 25 novembre 2025: Giornata Mondiale contro il FEMMINICIDIO...

… Se qualcuno l’incontra disarmato,
Presto, gli grido, fuggi!
Quelle sue munizioni arrugginite
Possono ancora uccidere!
(Emily Dickinson)

Oggi è giorno di riflessione su alcuni fatti che la cronaca ci ripropone di anno in anno sulla violenza riservata alle donne fino a diventare FEMMINICIDIO. Efferato fatto di sangue e di violenza estrema, perlopiù perpetrato tra le quattro mura domestiche. Ma oggi viviamo in una società oltremodo violenta e, nello stesso tempo, oltremodo indifferente all’altro. Ai casi della vita.

Ho dovuto attraversare il silenzio di circa una settimana per ritrovare il senso delle parole e dare voce ad uno sgomento senza fine per quanto è accaduto e accade in questa nostra società dai mille volti e forse neppure uno. Per esempio, nel 2020, alle ore 13, a Ombrano, nelle vicinanze di Crema, una donna decise di protestare contro un mondo che molto probabilmente non riusciva più ad accettare, dandosi fuoco in un parco appena fuori città. Circa venti passanti si fermarono per assistere alla sua disperata protesta senza muovere un dito, anzi filmando col telefonino la “scena” quasi fosse un film e non una tragica realtà. Solo un signore scese dalla sua macchina per prestarle soccorso, aiutato da un paio di ragazzi che accorsero con un estintore. Invano. Non ci fu modo di salvarla. Vano anche l’intervento del 118 che, chiamato d’urgenza dal pietoso soccorritore, non ritenne opportuno neppure portarla in ospedale, avendone constatata la morte.

Ma la stessa sindaca di Crema rimase sconcertata e fortemente provata dalla terribile vicenda, non solo per l’indifferenza dei suoi concittadini, quanto e soprattutto per la loro assoluta mancanza di umanità.

Uno su venti l’assurda statistica che la mente registra ancora oggi, dopo giorni e anni di muto rifiuto di pensare, per una sopravvivenza istintiva alla penetrazione profonda e dolorosa di questa sconcertante verità. Sono tragedie che accadevano anche nel mio tempo vissuto tantissimi anni fa. Tra gli anni Cinquanta-Sessanta del mio paese antico: Bitonto, in provincia di Bari, in Puglia. Ricordo ancora la storia terribile dei bambini gettati nel pozzo nella città vecchia, da cui eravamo scappati a gambe levate perché non più serena e tranquilla come i miei nonni l’avevano vissuta una cinquantina d’anni prima. Quella dolorosa vicenda si coprì di mistero e di sentito dire, ma non ebbe certamente la risonanza che avrebbe avuto oggi dalle televisioni di tutto il mondo e dai diversi social dei nostri giorni, che hanno sdoganato tutto, soprattutto le brutture e la violenza.

Quel giorno ne avvertii la fiamma ustionante nelle viscere che si ribellavano a tanto strazio. Fu una realtà talmente inaccettabile da farmi urlare al cielo lo sdegno e la paura: sdegno per la nostra società alla deriva, dominata ormai da un linguaggio che non appartiene più agli uomini, ma alla tecnologia digitale che ci ha resi sempre più schiavi della comunicazione virtuale a discapito di quella reale; paura perché, attraverso la dipendenza patologica da smartphone e tablet con l’iper-connessione continua, sempre più si sta producendo tra gli adolescenti, ma anche tra adulti e anziani, un progressivo “isolamento sociale” e “distacco dalla realtà”. Con conseguenze davvero pericolose per la nostra stessa salute fisica e mentale. E addirittura tragiche. Macchine tra le macchine siamo diventati purtroppo.

- E l’acutezza della mente non disgiunta dalla sensibilità del cuore? - mi chiedo.

- Appiattite se non del tutto azzerate, come tanti comportamenti ormai evidenziano e dimostrano - e non sembra più il caso di liquidare il fenomeno con qualche vignetta o battuta per evitare di sottolineare gli aspetti negativi di questo nostro tempo alla deriva. Certo, ci sono innegabili aspetti positivi, di cui bisogna tener necessariamente conto nell’utilizzo, ai nostri giorni, di questi nuovi mezzi di comunicazione. Diventa, comunque, sempre più urgente qualche amara o drammatica riflessione: come salvarci dallo scempio della nostra anima cristallizzata in una sorta di glaciazione dell’anelito spirituale nella totale desertificazione del cuore? E lo chiedo anche a tutti noi. Mi riferisco ai tanti femminicidi, che oggi accadono di continuo, a volte sotto i nostri occhi, il più delle volte ne abbiamo contezza attraverso i telegiornali. E qui scatta la “notizia”: tutti ne parlano, tutti hanno una loro opinione e si allarga a dismisura il “siparietto” di chi narcisisticamente ama la vetrina con foto della vittima di turno, persino canzoni orribili e terribili, tik tok osceni. Sarebbe meglio il silenzio per lasciare che le vittime “riposino in pace”. Ma molto spesso era ed è proprio in famiglia che avvengono tali devastanti misfatti. Io vorrei essere lontana mille secoli da queste brutture che sembrano appartenere solo a questo nostro tempo, anche se non è così. La storia dell’uomo si ripete all’infinito, in epoche diverse e con scenari diversi.

Ma voglio spezzare una lancia in favore di chi ha scritto una poesia, ha fatto un disegno, proposto una prosa sofferta, nei riguardi della vittima di turno, con assoluto candore e sincera commozione, postandola su FB, nuova Agorà di ogni sentimento e risentimento, che sfiora, sempre più via web, la sacralità della gioia e del dolore. L’episodio terribile di Crema non è isolato né riguarda una sola città. Basta osservare la realtà che ci circonda o leggere, guardare, ascoltare gli avvenimenti della cronaca quotidiana per inorridire, ma penso che sia più giusto avere mente e mani e cuori protesi a cambiare in meglio il mondo. Con l’unica risorsa possibile: l’AMORE. I miei nonni a me lo hanno insegnato quotidianamente con amore. Dicevano: Un bambino atteso, amato e allevato con cura non potrà mai diventare un ragazzo violento o un uomo senza scrupoli.

Certo, è vero, ma non posso oggi sottovalutare le influenze ambientali e sociali e il cattivo esempio che ne deriva. Ma niente, a mio parere, è più forte dell’AMORE, quello autentico che non lascia spazio alla mistificazione e, nelle personalità più fragili, alla penetrazione di comportamenti alienanti e fuorvianti.

La donna di Crema fu identificata. Per la polizia, che stava facendo indagini sulla sua dolorosa vicenda, ebbe un nome e un’età. Ma per tutti noi è rimasta senza volto e senza storia. Molto giovane, anche se non più giovanissima, ha reso visibili, col suo gesto disperato, sicuramente un dolore nascosto, ma forse anche una mancanza, un’assenza, una delusione, un tradimento, una difficoltà economica divorante, una solitudine subìta e non accettata, di cui non sapremo mai. La sua coscienza obnubilata da un peso troppo grande sul cuore per impedire persino alla sua anima di volare oltre ogni miseria umana? Non lo sapremo mai, miei carissimi interlocutori. Almeno noi non lo sapremo mai. Ma è la nostra coscienza che dovrebbe risvegliarsi, e ribellarsi fortemente alla narcosi della realtà virtuale e farsi lucida e attenta custode della nostra realtà “reale” e della nostra umanità. Quella autentica, vera, legata ai valori di sempre, per rinascere infinite volte e magari permettere nuovi tenerissimi voli alle anime deboli o spezzate e distrutte. Abbiamo tutti bisogno di tenerezza, che lo si voglia ammettere o meno. “Nessuno si salva da solo”, ha scritto Margaret Mazzantini, una scrittrice che ammiro molto. Frase riproposta da Papa Francesco nelle sue straordinarie omelie in Santa Marta. Un Papa meraviglioso che mi ha riportato sempre più sulla “retta via”. Se uno su venti, infatti, sente ancora il senso della sacralità della vita, c’è ancora speranza che il rigagnolo si faccia fiume, mare, oceano. Non può essere troppo tardi. Sono le gocce, una ad una, a formare le distese delle azzurre acque e a sollecitare il nostro stupore, che ci permette di ritrovare il miracolo del sentiero fiorito della nostra spiritualità tra il bianco spumeggiare improvviso delle onde e farsi nuova sorgente di Innocenza e di Vita. Forse, Preghiera. Dovremmo, però, vincere le innumerevoli contraddizioni che stanno alla base della nostra stessa esistenza. Estremi che ci affascinano e ci spaventano nella stessa natura. Sono realtà così composite e complesse, a sempre più vasto raggio, che non vanno ignorate o criticate, ma lette, studiate, accolte o rigettate senza clamori, proclami, fanfare e suoni di tamburi. Con oculatezza, serenità di giudizio, umana pietà, ma anche umana giustizia. Tanta umiltà. L’arroganza dei nostri giorni è un’altra piaga dei nostri giorni. Ritengo che in passato fosse meno praticata. Ma potrei sbagliarmi. Occorre confidare nel cambiamento. Ogni trasformazione è inevitabile e necessaria. Sperando sempre di riscoprire le vie del CUORE.



Grazie. A presto. Angela/lina

giovedì 20 novembre 2025

Giovedì 20 novembre 2025: Giornata Mondiale dei Diritti dell'Infanzia e dell'Adolescenza (con poesia)...

Sradicati pensieri al vento
che trascina nuvole il buio

della notte il germoglio della luna
- mandorlo fiorito nel cielo -
Cadono petali da quel fiore
di madreperla che si disfa piano
E la pagina del mio diario segreto
    (a.d.l. poesia inedita)

Il 20 novembre del 1989 venne istituita la Giornata Mondiale dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, ma a tutt’oggi assistiamo allo scempio di quanto affermato dalla Convenzione ONU. “L’infanzia è negata. Questa è la realtà. I bambini sfruttati dal mondo del lavoro, l’infanzia violentata e uccisa dagli adulti, dalle madri, dai padri, dall’indifferenza, dalle leggi male interpretate, dalla società, dalla guerra…” (Florisa Sciannamea)  

È, dunque, davvero una giornata molto importante, oggi più che mai, e tutti sappiamo il perché. Non riusciamo più a contarli i bambini e i ragazzi trucidati selvaggiamente, ma, oltre a condividere le parole di Florisa, io penso anche allo strazio senza più lacrime di tantissime madri in croce con negli occhi la disperazione e la propria morte. Sul dolore, però, per nostra fortuna, fiorisce, come sempre, la parola che salva e consola, e sboccia il mistero della Poesia…

Ma… Prima di parlare di poesia, mi sembra opportuno ricordare una grande scrittrice e pedagogista svedese Ellen Key che ai primi del Novecento (1906) pubblicò un saggio Il secolo del bambino (ripubblicato di recente in Italia), in cui era proprio il Novecento alla base della “scoperta del bambino” come protagonista della sua crescita e della sua storia. Ispirando persino una pedagogista come Maria Montessori, che con il suo metodo mise al centro dell’educazione il bambino stesso in termini di “autoeducazione” in un ambiente preparato a “sua misura” per favorire un “apprendimento autonomo”, facendo tesoro anche della sua “mente assorbente”…. Purtroppo, però, a distanza di oltre un secolo sappiamo che tutti i buoni auspici naufragarono ben presto a causa di ben due devastanti guerre mondiali, che videro proprio i bambini vittime di un terribile massacro, che si sta nuovamente verificando ai nostri giorni. E sembra che nel nostro cuore si ripeta quanto ebbe a scrivere il filosofo e sociologo Theodor W. Adorno e, cioè, che dopo la Shoah nessuno avrebbe più avuto il coraggio e la forza di scrivere una sola poesia. E, invece, si continuò a farlo. E anche oggi la poesia vince il silenzio e l’orrore. Ecco perché anch’io continuo a scrivere poesie. Eccone alcune, tratte dalla mia silloge inedita Tra canto e incanto le voci e il firmamento, perché tutte le stagioni della mia vita le ho vissute e continuo a viverle scrivendo versi che mi connotano e mi danno la forza di non arrendermi, nonostante la disperante società planetaria in cui viviamo, pronta a spegnere sogni, illusioni e voli… ma tantissimi anni fa venne l’infanzia a cercarmi per tingere ogni giorno il mio mondo di sorrisi, aquiloni, allegria… E parto:

Da tutto ciò che sono e non sono

uno schizzo di risata

per farne un quadro di me, appena nata

alla vita in un mondo da scoprire

non ancora certa di sopravvivere alla luna

che sovrastava nuvole e silenzi,

e pacificava la sera priva di stelle.

Insieme sognavamo una luna

sempre più alta, bianca, distante

per ricavarci un cuore di panna

e zucchero filato

come da bambina volevo

per i miei bimbi che dovevano ancora

                           vibrarmi nell’anima…

… così venne il giorno nuovo

         delle infinite attese

         tra un silenzio di luce

         e un silenzio di nuove albe

              (occhi solari

                   di bambina appena nata    

                       respiravano cielo)

E c’era il silenzio del nuovo giorno

 Era il silenzio nuovo del nuovo giorno.

Penombra di canto e silenzio di sorrisi

lasciavano parlare il cuore dei bambini

che coltivavano un amore grande che sapeva

di luce anche quando la sera ci sfiorava

la carezza della vita appena nata.

Prodigio del sogno accarezzato e preghiera

sussurro del giorno che cominciava

a raccontarci il mistero della nascita

al canto della natura che non teme la solitudine

dei balconi e tanti bimbi ad imbrigliare il cielo.

Allora fui bambina anch’io di riccioli e di baci

all’ombra di un’altra bimba e gli occhi tristi

di mia madre perduti dietro sirene e notturni rifugi

di guerra e rombo degli aerei a rendere viva

l’assenza di mio padre prigioniero e lontano

per quattro anni e un solo amore.

Ero allegria di bianchi spruzzi nel silenzio del mare,

ero mare vela gabbiano tutto e niente

nella fragilità dei miei fragili anni in fiore…

                (canto di maggio vibrante di luce e di mistero)

I miei cieli d’infanzia

Si frantuma in zolle di quasi primavera

l’esile filo d’erba della bambina con le trecce

che fece nido in un germoglio di mandorlo

rosa come il vestito di foglie e di grano

nella casa dei gatti e delle tortorelle.

Gabbia d’usignoli e mani di nonno e pianto

di bambina al primo volo sull’albero rosso

che di rosso tinse piedini e lacrime.

Scarpe di seta con ricami di farfalle

e roselline di prato a innamorare il cortile

e primi sogni d’allodola all’alba.

E fanfare in festa con gelato a cono tra le dita.

La cassa armonica suonava con la banda e i violini

e luminarie ad accendere occhi di mille colori.

Verdi, Puccini Donizetti, voci del cuore

che ignoravo e i fuochi d’artificio a illuminare

il cielo di mezzanotte e la carrozza di cristallo.

Principessa senza principe e un cavallo alato

- Pegaso di bianco vestito e profumo di mare

prima che di alghe s’impregnasse il cuore -

Ebbi canto nelle braccia di mia madre

Nacquero papaveri e gelsomini nel giardino d’ogni incanto

con i laghetti che ridevano di secchi colmi d’acqua

in cui si specchiava il cielo fiorito di primavera e stelle mattutine.

Io ebbi rifugio nelle braccia di mia madre prima che il tramonto

incendiasse la sera e l’usignolo avesse voce di violino

in gara con i grilli sul balcone.

Il nonno piantò un ramo di rose, di preghiera la nonna riempì

le ombre della sua malinconia.

Nelle loro mani la mia prima alba in fuga verso la chiesa

e campane a festa ad accogliere il mio vagito al fonte battesimale...

(grandi i miei occhi negli occhi grandi

  di mia madre, ma tenera carezza dei nonni

             mi penetrò nel cuore             

   fino al canto che ancora oggi mi sorride

                        ad ogni nuovo giorno)

Poi gli anni in volo mi portarono l’adolescenza e i primi amori in un batticuore che mi sorprende ancora…… esplosione solare il boato del cuore, che accende colori, significati e storie di un’adolescente ribelle che ama la luna e le sue magie, le sue follie, una tenerezza di prato, angolo di cielo che si confonde con il mare nello splendore dei primi amori… con passi danzanti di poesia…

Canto d’erba

canto d’erba la mia voce

incontro al giorno sognato

e mai vissuto.

Avevo trecce di spighe dorate

e occhi grandi e languidi

che si specchiavano nei tuoi

- rinnegarci e cercarci la nostra storia

  di quasi primavera

   quando un refolo di vento scompiglia i capelli

              e la paura di volare -

Ebbre sere

ebbre risate colme di noi

alle sere dei calici levati

in un incontro di lune

(indomita adolescenza

           Eterna

 tra i nostri pensieri

 annodati di progetti e di stelle)

d’uva e di miele di canti e di parole

e… granelli di mare…

sogni di rose e di spine

sul margine insalutato del giorno.

Lungo la nostra primavera

Solare il mio sorriso dietro i vetri

di primavera

dove uccellini innamorati

si raccontavano la nostra storia

prima di nascondere il capino sotto l’ala

(ali di corallo avevamo noi due

 prima delle ombre della sera

 sul nostro amore innocente

          come sorgente di fiume…)

I miei occhi nei tuoi occhi

ho amato i tuoi occhi fino all’ultimo sogno

di adolescente al primo ballo

nella coppa delle mani

il nostro amore

ancora intatto trasparente leggero

 guerriero indomito su cavallo alato

  Pegaso e il suo incanto bianco

  tra trine di mare alla battigia…

Voglio danzar con te

Stringerti forte a me

Voglio parlar d’amor

Come mi detta il cuor

Cosa dirò non so

Cosa farò chissà

Inebriata innamorata

Voglio danzar con te -

Era il mio canto irrequieto

come le nuvole a creare rami

di foglie e mandorli in fiore

per i miei passi di cielo

a disfarsi di petali in caduta libera

senza mai più riconoscerti.

Dietro i vetri il treno corre

Dietro i vetri il treno corre - meraviglia di occhi

adolescenti e rose tra le mani e fiori gialli

baciati dal sole - fuga e libertà irrompono

sui sentieri d’erba a gettarsi nel mare

- cavalli di bianca spuma - sono nel fischio

del treno, entro nelle onde compagne di viaggio

di trasognata allegria (e la danza del cuore a tenermi compagnia).

  Butterfly

Foglia vibrante di ali e storie di farfalle

Incendi del primo amore in trame

Luminose di seta e d’incanti

Ridono sogni da vivere nell’arcobaleno

Di tenere fanciulle in fiore

(canto della bellezza inno al Creato)

Butterfly (2)

Notturni cieli adamantini e cristalli di prati fioriti.

Incendi d’amore tra le prime stelle.

E sfogliare voli nei giorni dell’attesa.

Lapislazzuli e fiumi d’oro nella trama dei giorni

che esondano di sogni incantati (nella fragorosa risata della vita)

E per oggi va bene così. Con versi un po’ bizzarri come sono i giorni della scoperta del piccolissimo mondo della nostra casa e dei primi amori che fioriscono appena mettiamo i primi passi fuori. Spero che abbiate con me vissuto l’incanto dell’Infanzia e dell’Adolescenza, in compagnia dei ricordi, che ci trasportano in tempi non proprio semplici, ma, nella mia antica casa, a portata di cuore. L’unico che può salvarci… Angela/lina