È tempo di parlarvi di come ho vissuto per anni il Santo Natale e come lo vivo oggi… Il Natale dei miei verdi anni nella “casa del gelso e delle rose” è ormai solo un tenerissimo ricordo…
<Il Natale con te e la nonna e mamma e Lizia e gli altri parenti era troppo bello per non rimpiangerlo e non ricordarlo. Mi rimaneva nel cuore senza passare mai. Non tutto passa? Chissà.
Anche il Natale è un “eterno ritorno”
Costruivi ogni anno un presepe grande di carta spessa per le montagne e le vallate, che venivano sovrastate da rami di mandarini con i loro solari frutti. Un profumo inebriante si spandeva per la casa. Tappezzavi, poi, di muschio fresco e odoroso lo spiazzo davanti alla grotta e le stradine che s'inerpicavano fino alle stelle, dipinte su una lunga e larga stoffa di satin blu. E i pastori giganti di terracotta e di cartapesta. E le pecorelle e i cani. E la stella cometa e gli angeli. E un brulichio di luci a rendere magica l'atmosfera dell'Attesa. Il presepe portava in casa prati e montagne. E un senso antico di silenzio e di preghiera. Durante l'anno, mettevi da parte quelle carte spesse e ruvide, di un colore marroncinoverdemarcio, con cui i negozianti di generi alimentari incartavano i maccheroni, che venivano venduti a peso, sfusi e senza involucro e non a pacchetti da mezzo chilo o da un chilo che, oggi, hanno tanto di etichetta sulla scadenza, che poi magari scopri contraffatta o sostituita per ringiovanire un prodotto scaduto da vari mesi o anni, ma dicono più sicuri (?) dal punto di vista igienico, più belli esteticamente. Era un presepe che occupava una intera parete della stanza da pranzo e che completavi, improrogabilmente, entro l'8 dicembre per la festa dell'Immacolata, con lunghi rami di pino ai quali appendevi quei piccoli soli, disseminati tra i verdi aghetti. Quel vellutato tappeto di muschio, dal profumo di terra bagnata, avrebbe agevolato poi il cammino di pastori e re magi verso la grotta. Lucette colorate e la stella cometa, sospesa al filo di nylon invisibile, che andava da una parete all'altra della stanza. Il laghetto con le paperelle. La cascata di carta stagnola tagliata a striscioline. Le pecorelle sparse qua e là tra ciuffi d'erba vera e fiocchi di neve finti, di soffice ovatta. E il bue e l'asinello inginocchiati davanti alla mangiatoia con Giuseppe e Maria “də gràstə” (di terracotta) in atto di preghiera. E, in fondo alla grotta, il giaciglio dorato, vuoto, in attesa di Gesù Bambino. Quanto stupore! Quanta soffusa bellezza! Quanto fiduciosa e vibrante quell’Attesa!
In tutta la casa un profumo mai dimenticato e mai più ritrovato di dolcetti natalizi: le cartellate (brune rose di vincotto), i calzoncelli o cuscinetti di Gesù Bambino con pasta di mandorle e cannella, i taralli “inginocchiati” e i tarallini col gileppo, “rə piciuatìddə” (ciottolini di pasta a ricordarmi d'inverno il mare e il gioco delle cinque pietre sulla spiaggia), “rə mastazzùlə” (i mostaccioli con mandorle, cacao e vincotto, altra delizia di marmorea grazia!). Quel profumo impregnava le stanze e le chiacchiere delle donne che abitavano nel quartiere e venivano ad aiutare mamma e la nonna: Sabellina, Marietta, Angelina. Non si stancavano mai di raccontare fatti e misfatti del vicinato. Ma il Natale con te era anche bello da vivere perché occupava di sé tutto il mese di dicembre. Il presepe da far fiorire come un libro dell’Arte Pop-up nei primi otto giorni del mese e, poi, l’Immacolata, Patrona del nostro paese, e il digiuno interrotto la sera della Vigilia “chə rə fəcazzéddə də la Madónnə” (con le focaccine della Madonna), formate da pani schiacciati e tagliuzzati in superficie in tanti quadratini e con dentro i semi di anice o di finocchio; ed ecco Santa Lucia (eh sànda ləcìa bənədèttə tìnə dd’ócchiərə quàntə a ‘na chiesjə e nàn vétə mànghə la sagrəstè!...) (eh Santa Lucia benedetta hai gli occhi grandi quanto una chiesa e non vedi neppure la sacrestia!...), la voce della nonna sorpresa e indispettita quando si accorgeva che io, un po’ più grandicella, avevo problemi a leggere da lontano: le sembrava “‘nu scəcàffə a Crìstə”, (uno schiaffo al buon Dio), visto che lei non poteva leggere perché non sapeva leggere… Santa Lucia, molto amata e venerata per la sua incrollabile fede (che porta luce a chi fede non ha).
Dal 16 dicembre, infine, la novena che precedeva il Santo Natale: Tempo di Attesa e di Preghiera. Tempo di rinnovata Speranza. Prima della mezzanotte andavamo in chiesa per vedere nascere Gesù Bambino tra preghiere, canti, incenso. Nella nostra casa nasceva sempre fuori orario: o molto prima o molto dopo. In chiesa cantavamo, insieme con quelle che tu chiamavi “rə bəzzòuchə” e “rə viatéddə” (bigotte e le signorine della parrocchia), accompagnate solennemente da un pianista che suonava il maestoso organo, “Tu scendi dalle stelle” e altri canti natalizi e una ninnananna che faceva più o meno così:
La ninna dei pastori fa ah ah ah!
La ninna dei pastori fa ah ah ah!
Dormi, dormi, bambino
ché qui ti veglia il mio
cuor.
Dormi, mio Re divino,
la ninna dell'amor!
La ninna della mamma fa oh oh oh!
La ninna della mamma fa oh oh oh!
Dormi, dormi bambino,
ché mamma veglia per Te.
Dormi, mio Re divino,
la Croce ancora non c'è!
La ninna degli angioletti fa uh uh uh!
La ninna degli angioletti fa uh uh uh!
Dormi, dormi, bambino,
ché Qualcuno veglia lassù.
Dormi, mio fanciullino,
la ninna, del mio bel Gesù!
(Non c'erano allora i canti natalizi d’importazione americana, “Silent Night”, “White Christmas”, “Jingle Bells” che allietano il nostro Natale nei disincantati giorni dell’attesa. Né c'era l'albero pieno di luci, di festoni scintillanti con fiocchi argentati, rossi, dorati... Né panettoni in eserciti composti e colorati sugli scaffali dei supermercati. Non c’erano neppure supermercati, ma negozietti alla buona, gestiti alla buona con tanta gente che andava alla buona “chə la ləbbréttə” - “con un quadernino”, antesignano dell’attuale taccuino -, su cui l’esercente scriveva la somma da pagare appena possibile, nonostante il cartello in bella vista “quì non si fà credensa”). Quando vivevamo insieme il Santo Natale, spesso mi chiedevo, in chiesa, il senso di quegli angioletti che facevano uh! uh! uh!, quasi fossero lupi e volessero spaventare noi bambini. Oggi so che lupi molto più feroci di quelli veri si nascondono sotto luminose vesti d’angeli e spesso si annidano proprio nelle chiese e colpiscono proprio i bambini. O nelle case. Allora, i lupi erano lupi, gli agnelli erano agnelli e gli angeli erano angeli. Almeno era questa la percezione della realtà umana e sociale che si aveva nella nostra casa e nella nostra comunità contadina di paese di provincia, dove si ignorava persino il fumo di sei milioni di ebrei, saliti al cielo attraverso tristi ciminiere, e dove anche i reduci sciancati venivano guardati con occhi di cristiana partecipazione, che si rifletteva consolatoria nei loro occhi rassegnati. E c’era una canzoncina che cantavamo con mamma e con i bambini che venivano a giocare con noi: “Andiamo andiamo a spasso,/ la notte non è vero/ che quando il lupo dorme/andiamo a divertirci:/ ‘lupo, che fai?’/ ‘mi sto svegliando!’/ ‘uh, mamma mia, mamma mia!’// Andiamo andiamo a spasso,/ la notte non è vero/ che quando il lupo dorme/ andiamo a divertirci:/ ‘lupo, che fai?’/ ‘mi sto mettendo i pantaloni!’/ ‘uh, mamma mia, mamma mia!’”… e così, di volta in volta, il lupo indossava tutti gli indumenti fino a quando usciva fuori per rincorrerci, afferrarci e mangiarci. Ed era un fuggi fuggi di noi agnelli sempre più impauriti in cerca di riparo. Chi veniva scoperto diventava lupo. Io venivo sempre scoperta, ma non mi veniva mai bene vestire i panni del lupo perché non facevo mai spaventare nessuno… C'era poi un gioco, che facevamo all'asilo (non si chiamava ancora Scuola Materna o Scuola dell'Infanzia allora, ma asilo e basta!), che si chiamava “Il lupo e gli agnelli”, dove il lupo faceva proprio uh uh uh, per spaventare gli agnellini e farli sparpagliare fino a che uno, di volta in volta, rimaneva fermo senza sapersi più orientare per tornare a casa e perdeva il posto assegnatogli nel gioco. Vinceva chi era bravo a trovare sempre la via del ritorno, la propria casa, e a conservare il posto fino alla fine. Anche qui io perdevo sempre. Non ho mai trovato facile la strada del ritorno con dentro sempre la voglia di andare via. Ma questa è un'altra storia che più tardi forse ci racconteremo (domani forse ti narrerò del vento che sfoglia libri e rimescola la storia e stringe eternità di tempo domani forse…)
Ora, però, è ancora tempo di ricordare con te i tanti nostri Natali che son passati. È vero, sono passati (come sono passati gli inverni e i carnevali, l'adolescenza e i primi amori, le primavere e i ciliegi, il mare e i granchi da prendere tra gli scogli di sera e una lanterna per far luce. Come sono passati gli autunni e le foglie tra il vento e le stelle. Le notti insonni e le albe attese. I veli e le malinconie. Le risate al sole e le corse sulla sabbia. Sono passati i giorni della festa e quelli del dolore, i giorni dei progetti e quelli dei rimpianti). La pioggia e il rumore contro i vetri. (t t t ttttttdling dling dlingtttttttttictictictttttt dling tac tac dlingttttttt tic t…). Tutto passa (e si trascina il tempo che non passa se non sul nostro corpo, arandolo, e tra i capelli, seminando bianchi cespugli invasivi, e sui sentimenti, inaridendoli per troppa siccità e troppa arsura. Il tempo, una misura relativa, per ciascuno di noi, nel tempo infinito che tutti ci comprende). Ma il nostro Natale è per me un tempo senza tempo che io mi porto nel cuore (mò vèinə natàlə nàn ténghə dənàrə mə pìgghjəchə la pìppə e mə mèttəchə à fəmà… nel nostro dialetto una canzone napoletana cantata da Renato Carosone…)
Il ramo di pino con arance e mandarini è ancora oggi un dono di frutti da sbucciare per sentire l'odore intenso delle bucce bruciate nel camino. Un profumo particolare che mi è rimasto dentro. Dentro anche il profumo avvolgente di tutte le pietanze natalizie, mandate al forno in pietra, situato vicino alla nostra chiesa di San Giovanni (“u fùrnə də San Giuànnə”). Esiste ancora oggi e ancora oggi sforna ottime focacce e squisiti taralli. Allora, il garzone veniva a prendere “rə spasaròulə” (i grandi tegami rettangolari di non so quale metallo smaltato di nero), con ben allineate lunghe file di rose zuccherine, le cartellate, o i tegami rotondi di terracotta con dentro la pasta col ragù o l’agnello con le patate e li metteva su un'asse di legno scuro; poggiava un “tarallo” di stoffa, che aveva colore di sporco e di fumo, sulla testa e l'asse in bilico sul tarallo e montava in bicicletta esibendosi in larghe piroette di qua e di là, mantenendo miracolosamente la lunga tavola nera in equilibrio perfetto sul capo fino al forno e fischiettando o cantando allegri motivetti. Più una esibizione che una vera necessità: il forno era a due passi. Ma quando passava, noi bambini facevamo “oh!” e lui ci sorrideva, ammiccando felice (quànta vùməchə ca vè facénnə ca cə càtə pòuə na ma vədè rə fàccə nóstə…) (quante storie deve fare se poi cade allora staremo a vedere quali guai combinerà…). Quanto poco costava un tarallo di felicità!
Ogni volta, però, appena lui svoltava l'angolo e si perdeva alla mia vista, io cominciavo a preoccuparmi per la sorte di quelle delizie che, per fortuna, tornavano sempre a casa, spandendo per le strade un dolcissimo e intensissimo profumo di zucchero filato, vincotto, cannella e chiodi di garofano o di pomodori abbrustoliti. Anche quel profumo mai più dimenticato, mai più ritrovato (l’ho già scritto? Non importa, è giusto ripeterlo ancora e ancora. Per riportarlo almeno virtualmente qui nella mia casa. Accenderlo nella memoria… “Basta che un rumore, un odore, già uditi o respirati un tempo, lo siano di nuovo, nel passato e insieme nel presente, reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, perché subito l’essenza permanente e solitamente nascosta delle cose sia liberata e il nostro vero io si svegli”, scriveva Marcel Proust).
Ero piuttosto tranquilla per le cartellate, quelle fritte che non bisognava mandare al forno. La nonna le friggeva “jndə a la frəssòulə” (in una grossa padella nera), piena di olio bollente e le conservava per sbollentarle, poi, all'occorrenza, nel dolce vincotto che lei e le sue sante donne preparavano durante l'estate con i fichi che mettevano al sole sulle larghe e lunghe canne intrecciate dei graticci, perché diventassero secchi, mentre quotidianamente li “lavoravano” con le dita perché rimanessero morbidi. Spesso tu mi sollecitavi a raggiungere sul terrazzo nonna Angelina per aiutarla in quella operazione che rendeva le mie mani appiccicose e dolci. Appena pronti, i fichisecchi venivano in parte mandati al forno con pezzi di cioccolato e noccioli di mandorle e una foglia d’alloro oppure lasciati al naturale. O sbollentati per farne vincotto: dopo la cottura, venivano versati dal tegame in un sacchetto di tela, da cui, pressandolo con la forza delle mani, si vedeva colare quel liquore dolcissimo ma anche forte e un tantino acre, che era magico ingrediente di tanti dolci natalizi e pasquali, ma anche di bicchieri pieni di neve.Pure i cuscinetti di Gesù Bambino, “rə calzənggéddərə”, venivano per metà mandati al forno e per metà fritti: i primi venivano poi decorati con glassa bianca; i secondi, ricoperti di zucchero (non ho visto mai un Gesù Bambino, che di anno in anno nasceva, appoggiarvi la testa: li mangiavamo prima che Lui venisse al mondo oppure erano talmente ben conservati che erano, per noi bambini, introvabili prima di Natale). Tu, in tutto quel brulicare di preparativi di dolci prelibatezze non intervenivi, lasciavi che fossero mamma e la nonna con le altre donne a sbrigarsela, ma poi per almeno un mesetto facevi colazione con cartellate e calzoncelli, conservati con cura da nonna “jndə a rə candàréddərə” (in ampi vasi di creta o di ceramica… “u càndarìddə” al singolare) e riposti nel fuoco alla monachina della cucina.
Ma il ricordo più bello di quegli anni bambini, protrattosi fino alla mia adolescenza, riguarda il Santo Natale vissuto dopo mezzanotte: dopo la nascita e la messa, a piedi (le automobili erano molto rare e anche le biciclette non erano poi tante) eravamo soliti sfidare il gelo e le stelle chiare del sereno invernale per andare a casa di zia Maria e zio Michele, il fratello di nonna Angelina, per festeggiare insieme la “loro” nascita di Gesù. Ci aspettavano ogni anno con tanti altri parenti, amici e conoscenti nella loro sala da pranzo, dove c'era un presepe più grande del nostro. C'era tanta gente da zia Maria, che era sempre sorridente e festaiola. Zio Michele, tu lo sai, era molto generoso e ospitale: un comunista ostinato e forte, che litigava sempre affettuosamente con la nonna che era, secondo lui, democristiana e bigotta. La nonna si faceva il segno della croce e gli diceva che lui, invece, era il diavolo perché comunista e miscredente, e che, da morto, sarebbe andato all'inferno “a scàrnəvəscià fùchə” (“a rimestare fuoco”). Zio Michele rideva come un matto e andava ad abbracciare forte l'unica sua sorella: erano solo loro due e si volevano un bene dell'anima. “So-sourə” (“so-sorella”), diceva commosso, “mi basteranno le tue preghiere per evitare l'inferno”. E quel modo di chiamarla era un doppio nodo d'amore, quasi a dire due volte sorella. Ed era un appellativo tenerissimo che solo lui usava. Per lei>. (Le piogge e i ciliegi, vol. 1°, SECOP edizioni, Corato-Bari, 2017)
E per oggi mi fermo qui. Riprenderò presto con questo racconto magico
e realistico che non ha età e in cui quelli che hanno più o meno i miei anni
possono ritrovarsi… Angela/lina