martedì 9 luglio 2024

Martedì 9 luglio 2024: ANNA MARIA... (3)

Martedì 9 luglio 2024: ANNA MARIA… (3)

E ancora proteggi

la grazia del mio cuore

adesso e per quando

tornerà l'incanto

l'incanto di te,

di te vicino a me

(Vinicio Capossela, “Ovunque proteggi”)

Riprendo. Molto a fatica riprendo. Tu sai benissimo che uno scoramento continuo mi prende perché non riesco ancora a riprendermi dalle brutte conseguenze della bruttissima caduta di circa dieci giorni fa e mi stanco molto a stare seduta davanti al computer per parlare di te. Per scrivere di te. Anche gli occhi mi bruciano e si velano continuamente di lacrime. Ma voglio raccontare ancora e tanto. Per renderti VIVA anche al cuore degli altri. A quelli che sanno di te e a quelli che stanno imparando a conoscerti ora, sino dai lontani giorni della tua infanzia. Perché nulla di te venga ignorato. Nulla di quanto io stessa possa ricordare… A partire dalla casa del gelso e delle rose e dai mille frutti di stagione che il nonno portava a casa dai suoi campi e dalla “cocevola”, che noi chiamavamo il “giardino”. Dopo ogni primizia di stagione, dovevamo recitare l'avemaria di ringraziamento alla Vergine che ci aveva concesso di gustare quei frutti, ancora, nel nuovo anno. E il nonno ci guardava mangiare, felice della nostra golosa felicità. I frutti più grossi e maturi erano destinati a noi piccoline. Alla nonna. Agli occasionali o quotidiani ospiti alla nostra mensa. Avevo forse tre o quattro anni compiuti allora, e tu non eri ancora nata, ma i ricordi di quella età mi ritornano alla mente come nitide istantanee che hanno eternato, di volta in volta, quella bimba ribelle e ciarliera che solo il nonno riusciva a domare e a far tacere con le tue tenerezze, le mille strategie di sopravvivenza, i prodigi che fiorivano dalle sue mani per la sua quiete e quella delle altre donne di casa. Era tempo di molte donne e pochi uomini nelle case. Era tempo di guerra. E babbo era in guerra. Il nonno ci faceva da padre, colmando per intero quel vuoto di nostro padre fino a chiamarlo “papà” (ed era già una novità in quegli anni in cui i figli chiamavano il padre ancora “tatà”), e abbiamo continuato a farlo anche dopo il ritorno di babbo dalla guerra. Per l’intero arco della sua e della nostra vita. Ancora oggi, parlando di lui, diciamo “papà”. C’è una paternità non ascritta che si conquista con il cuore. Papà aveva sempre per tutti una parola di comprensione, di difesa delle umane debolezze, di tenero rammarico di tutto ciò che si sarebbe potuto fare per evitare amarezze e delusioni, ripicche e litigi, piccole e grandi disperazioni. Sembrava che avesse un acciarino magico per ogni contrarietà. Col tempo avrei paragonato sempre più la sua luce alla generosità della lucciola che porta il suo lumicino alle spalle per illuminare la strada agli altri e mai a sé stessa. In questo tu gli somigliavi molto. Mamma e babbo si sposarono a gennaio del 1940. Un anno dopo nacque Lizia e ben presto mi annunciai io, ma babbo non mi vide nascere. Attese fino a maggio, poi fu chiamato per “servire la patria” e mi ritrovò esattamente quattro anni dopo, tornando a nuoto dalla Grecia, dove era stato prigioniero. E nel 1947 nascesti tu, come ho già raccontato. E tu eri un incanto. Ricordi che ti ho parlato di zio Padre Leonardo, venuto dall’America e del desiderio di mamma di far ricevere a me e a Lizia la Prima Comunione dalle sue mani? Ebbene in quella circostanza venne pure zio Fra’ Francesco, fratello maggiore di zio Padre Leonardo e del nonno. Zio Fra’ Francesco, con le sue massime sagge e i suoi aneddoti divertenti e il suo sandalo con una zeppa molto alta per sopperire alla mancanza di parecchi centimetri alla gamba sinistra (dislivello dovuto ad una ferita di guerra e ad un immediato intervento, persino senza anestesia, da parte del chirurgo cappellano, che così gli evitò l’amputazione dell’intero arto e ulteriori immani sofferenze, come lui ci raccontava) e Fra’ Felice, il sempre arguto e sorridente cugino di mamma, fratello di Peppino e Pasquale, figli di un altro fratello del nonno. Michelino.

Io ero bianca nuvola di bianco sogno e mi sentivo fiera di me e ancora di me.

E tanto fiera di zio Padre Leonardo, e di tutti gli altri. E tutti ci fecero mille complimenti (altro che Cenerentola apprezzata solo dal Principe!), incantandosi però a guardare i tuoi occhioni, Anna Maria, che eri uno splendore di bimba. Zio Fra’ Francesco stette tutto il giorno ad ammirarti e a parlarti, come ti abbiamo più volte raccontato in passato: “bella bella bella… buooona!!!”. E tu  ridevi felice. (Anche zio Fra’ Francesco ci affascinava con le sue storie e le sue arguzie per farci scoprire il mondo giocando. Insomma, il nonno, zio Padre Leonardo e zio Fra’ Francesco erano tre fratelli meravigliosi. Il più taciturno e solitario era zio Michelino).

Alcuni giorni dopo, zio Padre Leonardo andò via e fu come se si spegnesse un faro nella nostra casa. Poi, la notizia che saremmo ripartiti tutti insieme, comprese me e Lizia, perché babbo non poteva più tollerare che io non andassi a scuola, ci sorprese dolorosamente. Avevo ormai quasi sei anni e mezzo ed ero in ritardo. Aveva fatto l'iscrizione per me in prima elementare e per Lizia in terza perché anticipataria. La scuola, molto grande e circondata da alberi e siepi, era a pochi passi dalla piazza della caserma, dove noi abitavamo in un “alloggio” che aveva ampie stanze e lunghi corridoi e ballatoi luminosi, con finestre e balconi sulla strada principale che portava al corso giù in paese. Ma c'era un'alta e ampia finestra, quella della camera da letto di mamma e babbo, che si affacciava sul cortile dell'enorme casa di zi' Donato, il nostro dirimpettaio.

Dopo i primi tempi di adattamento, mamma fece amicizia con le tre figlie di zi’ Donato, Nina la maggiore, tracagnotta, bruna, con una lieve peluria selle labbra e bellissimi occhi grigi, con modi spicci e pratici, senza fronzoli; Lucia alta, esile, bionda con lunghi capelli ondulati, bellissima e con occhi sognanti, era sempre molto elegante, anche con i vestiti di casa; Pina, la più giovane, era alta, robusta, una ragazzona solida e bella, con due lunghe trecce e labbra prorompenti di allegria. Era amica dei tanti animali che vivevano nella loro enorme casa. E così, spesso, vedevo mamma fare con loro la lotta dei cuscini che volavano da una finestra all'altra e attraversavano il cielo tra le due costruzioni come enormi buffe tortore impazzite, tanto la distanza era breve tra la caserma e la loro casa. Io temevo sempre per te e per Pino che mamma lasciava incautamente incustoditi sul letto per giocare come una pazzerella con le sue amiche. Io mi mettevo accanto al letto per tenevi sotto controllo. In realtà anche mamma vi controllava, ma io temevo ugualmente. E, del resto, lì mamma si stava riprendendo quella giovinezza che la guerra le aveva negato. Che il matrimonio e la nascita immediata delle prime due figlie le avevano negato. Poi, la tua nascita subito dopo la guerra. E quella di Pino. Era finalmente tornata a sorridere e sapeva giocare come una bambina, nonostante i quattro pargoli da accudire. Una gioia lunga quanto le mattine chiacchierine, i pomeriggi assolati, le sere stanche, ancora vivaci di un fervore strano a dirsi, e inconsueto a viversi in un paesino di poche anime, arrampicato sui fianchi della montagna fino al suo cocuzzolo e una croce. Pochi svaghi e tanta solitudine. Mamma si riscoprì, in quegli anni, allegra, incosciente, e un tantino viziata come una principessina, a cui non era mancato mai nulla, nonostante avesse vissuto con i nonni e noi bambine la paura della guerra e l'ansia dell'attesa che babbo finalmente tornasse.

Zi' Donato era un ricco possidente di più masserie ed aveva una casa enorme, che condivideva allegramente con zi’ Rosina, sua moglie, taciturna, amorfa, senza lode né infamia, e con le suddette tre figlie, una diversa dall'altra.

Pina aveva sedici anni ed era la mia compagna preferita. Poi, anche la tua nel senso che, benché tu fossi piccolissima, Pina ti prendeva in braccio e insieme andavamo in esplorazione nelle soffitte della sua immensa casa: grandi stanzoni sotto il tetto, dove c'erano colombi, tortorelle, uccellini, conigli. Conserve di pomodori, melanzane, zucchine, funghi e salsa e barattoli d’ogni genere e rosari giganteschi di salami e salsicce che pendevano dal soffitto e panciute chitarre di prosciutti stagionati. Su alti scaffali di zinco, lune oleose di formaggi. Addossati alle pareti, recipienti enormi e lucidi di olio, e damigiane di vino e tanto tanto altro ancora, suddiviso per stanza. Il regno delle meraviglie, animato e inanimato!

Un forte odore indistinto di tutto quel ben di Dio penetrava nelle narici. Tu facevi smorfie e sgranavi gli occhioni carichi di meraviglia. Mi chiedevo perché anche tortorelle e conigli e uccellini stessero lì e non nel vasto cortile, ma non osavo chiederlo a lei perché mi sembrava che una ragione dovesse pur esserci e non volevo fare la figura di essere tanto piccola da non capire. Lei mi aveva scelto come amica e questo mi riempiva di orgoglio. E lei, infatti, mi raccontava storie di fattucchiere e di magie. Diverse da quelle che ci raccontava il nonno. Mi parlava di spilloni conficcati nelle foto di persone che dovevano patire qualche guaio, commissionato alla “mascjàra” (strega che faceva magie e sortilegi) da chi riteneva di aver subito qualche torto. Di gocce di sangue del “mese” (mestruo) delle ragazze innamorate che le mescolavano al caffè in una tazzina da far bere al ragazzo prescelto per legarlo a loro con eterno amore. Di ciuffi di peli del pube per altre diavolerie che mi lasciavano senza fiato. Erano storie, di cui capivo molto poco, che m’incuriosivano e mi spaventavano, mi stupivano e mi inquietavano... Quando le chiedevo spiegazioni, Pina mi diceva che ero troppo piccola per capire e che avrei capito al tempo giusto. Poi, mi parlava anche delle sue prime cotte e della voglia del primo bacio. Si confidava con me che ero piccolina perché delle sue coetanee non si fidava. Diceva che erano tutte pettegole e invidiose e pronte a baciare il primo che capitava pur di togliere l'innamorato a qualche amica.

Anche zi' Donato, non molto alto, tarchiato, capelli bianchi rovistati dal vento, faccia quadrata benevola sorridente, amava raccontare storie curiose e cantare tante filastrocche. Ma io, dopo i primi approcci simpatici, ne avevo un po’ paura perché, prima di Natale, incuriosita dalle grida di uomini e animali, mi ero affacciata alla porta di un enorme stanzone mai esplorato prima e, senza che nessuno badasse alla mia presenza tanto erano tutti indaffarati nei loro mestieri, avevo intravisto quegli uomini ammazzare due maiali, che in quei due mesi avevano allevato nella masseria con tanta cura. Avevo sentito il loro urlo sgozzato le voci concitate. Avevo visto il sangue schizzare tra l’innocenza rosea di quei corpi frementi di paura e le veloci mani, e mi era arrivato violento il suo odore acre e disgustoso e, poi, con quella carne, umiliata e spenta, in tutta fretta altre mani di uomini e donne avevano ricavato chitarre e rosari di carne e, poi, grasso e lardo e sangue fritto e sanguinaccio. Ne ebbi orrore e terrore. A lungo mi tenni lontana da lui e dalla sua casa.

Ma, poi, dimenticai tutto perché zi’ Donato era affettuoso, allegro, sempre sorridente, soprattutto con te che suscitavi in lui infinita tenerezza. Spesso amava cantare proprio per noi bambine: Son tre notti che non dormo la là/ ho perduto il mio galletto la là/ poveretto la là/ poveretto la là/ non lo posso più trovar./ Ho girato il mondo intero la là/ e poi tutta l’Alemagna la là/ e la Spagna la là/ e la Francia la là/ fino in cima al Perù.// A voi donne ve lo dico la là/ se per caso lo trovate la là/ per piacere la là/ me lo date la là/ perché non posso più aspettar… Oppure La campana fa din don dan/ il galletto chicchirichì/ la madonnina qualche grazia fa.// Mamma mamma però però/ torno a casa a mezzodì/ fammi la grazia di pregare un po’.// Madonnina, la campana suona giàaa/ din don din don din dan/ la grazia mi faràa./ Madonnina, ah se volessi Tu/ la mia Nina non dormirebbe più.

E ancora E tutti i gatti miao e miao miao miao/ e tutti i gatti miao miao miao miao  ffrrr… (e faceva con la bocca e con le mani i movimenti del gatto in procinto di graffiare). Tu ridevi a crepapelle ed io ero felice per quelle tue risate tra dentini bianchi e piccoli come chicchi di riso. Zi’ Donato continuava Il primo gatto poi è quello da cucina/ che con voce sopraffina/ incomincia a miagolar:/ e tutti i gatti miao e miao miao miao/ e tutti i gatti miao miao miao miao ffrrr…// Il secondo gatto poi è quello da cantina/ che con voce sbarazzina/ incomincia a miagolar:/ e tutti i gatti miao…// Il terzo gatto poi è quello da salotto/ che con voce da bassotto/ incomincia a miagolar… e così via (tutte le canzoncine sono voci del ricordo. E ogni parola è quella, ma può essere un’altra…). A me piaceva molto quella canzoncina per il graffio conclusivo di ogni strofa che tanto ti faceva ridere. Già mi sentivo tua complice.

Zi’ Donato era per me fonte di timori e di risate, di ansie e d’allegria, di scoperte di nuovi mondi e di canzoncine per rendere più divertente il giorno. Anche mamma era in quel periodo quasi sempre allegra e canterina. Anche lei ci cantava canzoncine divertenti o tristi che finivamo per cantare insieme. Alcune per bambini, altre no:  C’era un grillo in un campo di lino,/ la formicuzza gliene chiese un pochettino,/ Lariciumbalalirollero lariciumbalalirollà…// Il grillo disse: che cosa ne vuoi fare?/ La formicuzza: mi devo maritare…/ Lariciumbalalirollero lariciumbalarilillà… // Il grillo disse: lo sposo sono io!/ La formicuzza: e son contenta anch’io!/ Lariciumbalalirollero lariciumbalarilollà…// Giunse il tempo di scambiarsi l’anello,/ il grillo cadde e si ruppe il cervello…/ Lariciumbalarilollero lariciumbalarilollà…// La formicuzza dal grande dolore,/ con la zampuzza si trafisse il cuore…/ Lariciumbalarilollero lariciumbalarilollà… Non era una storia a lieto fine, ma aveva un ritmo brioso e a me piaceva cantarla, soprattutto quando la cantavamo insieme. Io e mamma. Era bello stare con lei. Era bello stare con tutti noi. Tenerezza. Leggerezza. Allegria. A me piaceva sussurrare Nel 1919/ vestita di voile e di chiffon… e la dedicavo a mamma, quasi la canzone parlasse di lei, nata appunto, nel 1919, e ci scambiavamo occhiate d’amore. Anche mamma amava cantare “Il tango delle capinere” con la sua “ronda del piacere”; “Eulalia Torricelli da Forlì”, che aveva tre castelli e gli occhi belli; “Lilì Marlen”, col suo innamorato che ogni sera l’aspettava “sotto quel fanal”; “Signorinella pallida” e il suo disincantato ma pur sempre nostalgico notaio; “Come pioveva” ed entrambe ci sentivamo commosse da quel “c’eravamo tanto amati per un anno o forse più…”, e… “Signorina Maccabei,/ venga fuori dica lei/dove sono i Pirenei?”/ “Professore,/ io non lo so,/ lo dica lei”, e mi sembrava una impossibile ribellione all’indiscussa autorità degli insegnanti…

Spesso univamo insieme le nostre voci, diverse ma abbastanza intonate

(tə sì fàttə ‘na vèsta scəcullàtə/ cu cappiéllə ch’e frònnə e cò e rósə/ stìvə ‘mièzzo a tre quàttə sciantó sə/ e parlàvə o francése accussì/ fùjə l’atriérə ca t’àggə ‘ncuntràtə/ fùjə l’atriérə a tòlédo gnorsì…// àggə vəlùtə bbéne a té tu è vəlùtə bbéne a mé/ mò nun c’amàmmə chiù/ ma e vótə tu/ distrattamèntə piènzə a mmé…// réginè quànnə stìvə cu mmìchə/ nui magnàvəmə pànə e cəràsə

e quella reginella, che mangiava pane e ciliegie, mi cantava languidamente nel cuore).

Più tardi le avrei cantate anche in pubblico, con alterne vicende: c’erano canzonette che mi riuscivano molto bene e la gente applaudiva, ma alcune volte improvvidamente mi cimentavo con l’Ave Maria di Schubert o di Gounod e mi avventuravo in alcune arie della Traviata o della Norma o dell’Elisir d’amore e allora erano guai: gli acuti erano rochi ululati che si confondevano con il mormorio di disapprovazione dell’improvvisato uditorio.

Capii che non sarei mai diventata una cantante quando tu, mia amatissima Anna Maria, cominciasti a gridare a tutta voce i canti popolari del Salento, terra di passioni infuocate che il vento sparpagliava tra gli ulivi e portava a morire sul mare. E urlavi divinamente (uè nannaunannìinannéra uè nannaunannìinànnaà…). E più tardi cominciasti a scrivere e a cantare le tue canzoni, vere e proprie poesie appassionate, con una voce graffiante, bellissima.

Ma già è un altro luogo, un’altra storia ed io ho ancora tanto da raccontare sul paesino dauno in cima al cocuzzolo della montagna, dove ben presto io e te bambine stringemmo un patto di alleanza che è durato per tutta la vita. A presto. Lina

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