Non va meglio per me dopo la caduta. Da due giorni riesco a puntare meglio i piedi sul pavimento e a mettere giusto tre passi per farmi sistemare sulla sedia a rotelle e provo una pena grande perché non posso dedicarmi a te, Anna Maria mia, come vorrei. Troppo dolorante per essere serena, e con un enorme ferita dentro in cui annego il dolore per non piangere. Lacrime sempre in agguato. Ma intanto mi corrono incontro altri ricordi di quel periodo insieme sui monti di Casalnuovo Monterotaro. E te li racconto perché riguardano anche te, piccolissima e adorabile.
Per fortuna, in quel
paesino, avevo scoperto, andando un giorno con mamma e babbo in paese, il
fotografo Nasillo che ci aveva portato nella camera oscura dove avevo visto
fiorire nell’acqua su cartoncini bianchi, lentamente, volti e case e alberi e
profili di monti e sagome d’animali. E quel prodigio diventava esaltante quando
quelle foto venivano appese con le mollette a fili di zinco come fazzolettini
che sventolavano da un treno lungo lungo per un addio o un arrivederci. Oppure,
come me, erano colombe in cerca di libertà e di sole, ma trattenute da quelle
mollette a tarparne il volo, in quella penombra semibuia rischiarata da caldi
fari per agevolarne l’asciugatura.
Per me, Nasillo era un
vero e proprio mago in carne ed ossa (altro che il mago di Oz!), tanto da far
affiorare dal nulla quelle meravigliose immagini, prima riprese, con un semplice
scatto, dalla macchina fotografica. Questa era una grande scatola nera a
fisarmonica, poggiata su un trepiedi pure nero in una saletta semibuia. Dietro
la scatola c’era un panno nero dove spariva la testa del fotografo e una
peretta che lui stringeva con la mano ogni volta che un lampo attraversava
l’enorme occhio aperto sulle cose e le persone, che sembrava venissero mangiate
come se quell’occhio, che si apriva e si chiudeva, diventasse una enorme bocca
vorace. Improvvisamente quelle cose o persone, mangiate da quell’occhio-bocca,
ricomparivano sui fazzoletti bianchi messi nell’acqua e stesi ad sciugare
davanti alla lampada accesa. Un prodigio, che mi piaceva osservare ogni volta
che ci capitava di passare dal suo studio fotografico. Il fotografo Nasillo era
un prestigiatore-illusionista
da ammirare
incondizionatamente.
Fu allora forse che
cominciai a non avere più paura del buio? Forse sì. O, quantomeno, cominciai a
scoprire che era nel buio che avvenivano i prodigi, si compiva il
mistero delle cose, si dischiudevano i sogni, germogliavano i bambini… Quante
foto bellissime venivano scattate anche a te con i tuoi favolosi cappellini,
con i tuoi riccioli bruni che incorniciavano il tuo visetto sorridente o
corrucciato per qualche capriccio che mamma e babbo non potevano esaudire in
quel momento: cioccolatini, caramelle e gelati di cui eri particolarmente
ghiotta. E ne ero ghiotta pure io. Altra caratteristica che ci ha sempre viste
complici fino a tarda età.
Per fortuna, poi, c’erano
anche il cinema e le lucciole. E anche questi erano miracoli che si accendevano
nel buio: lo schermo e le storie nel buio del cinema; le lucine vibranti nel
buio della sera. Spesso con mamma e con le mogli e i figli degli altri militari
andavamo al cinema. Per raggiungerlo dovevamo attraversare alcuni campi della
periferia che brulicavano di lucciole (noi siam come le lucciole/ brilliamo
nelle tenebre… ma era un’altra storia che mi sfuggiva). Io mi perdevo in
quelle stelline affioranti sul prato. Nel cinema, mamma era sempre attenta a
coprirci con le mani gli occhi per non farci vedere alcune innocenti scene d’amore
che lei riteneva non adatte a noi piccoli. Questa precauzione è durata fino
alla nostra adolescenza con grandi proteste da parte mia e delle mie compagne
di innocue prime scoperte del mondo e della vita. Non c’era bacio che non
dovessimo spiare attraverso la grata delle sue mani che sembravano
moltiplicarsi, centuplicando dita e ansie e timori e perplessità. E in quella
complicata operazione anche lei si perdeva l’emozione di quel bacio tanto
atteso e inevitabilmente perduto… Ma all’uscita dal cinema io dimenticavo tutto
per dare la caccia alle lucciole. Ne raccoglievo a manciate che conservavo nel
fazzoletto per metterle nel bicchiere appena tornata a casa. Qui la delusione
in agguato: quelle splendide lucine intermittenti, a riportarmi il cielo e il
brulichio delle infinite sue stelle tra le mie piccole mani, erano soltanto dei
minuscoli insetti privi di ogni splendore. (IL SOGNO, la realtà). Ma, pur
registrando ogni volta la delusione di quella via lattea sfavillante nella mia
tasca, ricondotta a un misero bottino di alucce spente, non riuscivo a vincere
la tentazione di riprovare ad afferrarle e a conservarle, sperando nel prodigio
di ritrovarle a casa sfolgoranti di luce. (Più tardi, mi avrebbero dato
l’opportunità di riflettere sulla nostra irriducibile necessità di credere nel
sogno e di rifiutare persistentemente le reiterate delusioni che la realtà ci
riserva, perché ognuno forse, a modo suo, si costruisce nicchie di
sopravvivenza e tenaci illusioni, magari senza averne piena consapevolezza
o, proprio perché tali, con foscoliana insistenza. Molto molto più tardi ho
ritrovato, sempre con te, quelle meravigliose stelle ammiccanti nelle nostre
vacanze alle Terme di Chianciano, lungo la lunga strada della nostra
passeggiata nel bosco che congiungeva il nostro albergo al centro del paese. Oppure,
ma senza di te, nella vallata della Valle del Sole, dove io e Primo avevamo una
multiproprietà. Un appartamentino delizioso su cui si affacciava la nostra casa
delle vacanze in Abruzzo. E, mentre all’alba le nuvole di morbida panna
lievitavano verso l’alto facendoci sentire in sospensione tra terra e cielo, di
sera da quel fondo valle salivano fino al nostro balcone le lucciole luminose e
grandi a farci riscoprire un mondo che credevamo perduto per sempre nei nostri
paesi e nelle nostre città sempre più inquinati... Ma, come ho già detto, noi
due con Gianni e le nostre sorelle, le ritrovavamo in Toscana dove ci
accoglieva il benessere delle terme e il lungo viale d’alberi e di siepi tra
cui scintillavano in minor numero ma salutate dal nostra rinnovata meraviglia).
Ma in quel paesino sui
monti della Daunia erano il mio sogno e la mia delusione d’ogni sera e di ogni
nuovo giorno. Meno pericoloso nel sollecitare illusioni e inevitabili
conseguenti delusioni era, invece, il tuo dentino caduto che ero solita mettere
sotto il solito bicchiere per farti trovare il giorno dopo, al suo posto, il
solito soldino: lì non c’era inganno. Bisognava solo dire la formula magica che
i nonni mi avevano insegnato dopo ogni dentino caduto perché quella perdita
momentanea non ci dispiacesse più di tanto: tìttə
e tìttə,
sandə
Bənədìttə, jè tu ammènəghə stùrtə e tu mu ammìnə drìttə… tetto e tetto ‘?’, san Benedetto, io te lo
do storto e tu me lo fai rinascere dritto… (commutato alcuni anni dopo
da mamma per l’ultima nata nel canto dello Zecchino d’oro: “fammi crescere i
denti davanti/ te ne prego Bambino Gesù/ sono due ma mi sembrano tanti/ son
caduti e non crescono più…”). Ma tutti noi nati nella prima metà del secolo ci assicuravamo,
con quel mantra antico, il soldino e il nuovo dentino bello e dritto per sorridere
meglio!
Per fortuna, poi, in quel
paesino che si arrampicava fino al cielo, cadeva anche la neve. Tanta. A
novembre quelle case da presepe, ed esposte a mille venti e all’incessante
precipitare delle pietre lungo le scarpate, si vestivano di bianco e di
silenzio. E del nostro stupore. Noi, appollaiati dietro i vetri al tepore di
maglioni indossati l’uno sull’altro e dei bracieri accesi nelle diverse stanze…
Magia di un silenzio come di bianca preghiera, di sposa all’altare, di bianche
lucciole fluttuanti a mezz’aria senza più mani ad interrompere il loro lieve e
incantato volo… E quelle vie sembravano inerpicarsi davvero fino al cielo,
nell’imbroglio della tormenta che lo rendeva più sfumato e vicino, e con
piccole sporgenze sul lastricato dove noi, se costretti ad uscire per andare in
chiesa sulla cima più alta di quel nido di case, piantellavamo i piedi per
avere maggior forza nell’attraversarle incolumi senza scivolare sul ghiaccio… e
tu battevi le mani, ben riparata nella carrozzina con cuffiette, guantini e
copertine, per quella meraviglia che t’incantava. E, meraviglia delle
meraviglie!, la bianca neve nei bicchieri di vincotto che i nonni ci mandavano.
Dolce delizia di rosso corallo... e non era più neve. Era carezza amore ricordo
nostalgia… Nell’aria trasognata/ intrisa di silenzi/ tra case
di cristallo addormentate/ bianche farfalle di neve/ su vesti
nere/ in fila lungo la scia di campane/ passere scure a
punteggiare/una fiaba di magico candore/ (la mia infanzia): (“La mia
infanzia”, da l.d.l. il gelso e le rose).
E, poi, per fortuna, ci
raggiunse Lina, la figlia di zia Angelina, sorella maggiore di babbo. Lina
aveva sedici anni. Venne per stare un po’ con noi e per aiutare mamma
nell’accudire i più piccoli. Con lei qualche volta, di pomeriggio, andavo giù
dove c’era un porticato, che comprendeva la Caserma e il Comune, per giocare a
palla o con la corda, ma subito Lina risaliva perché si sentiva troppo grande
per quei giochi infantili. In casa giocavo un po’ con te “alla mamma e alla
figlia”, mentre il piccolino, Pino, era intoccabile. Era l’erede al trono, il
tanto atteso figlio maschio.
Lina era molto bella,
paffutella, piccoletta. Con due occhioni neri e riccioli bruni. Sempre
sorridente, allegra, chiacchierina. Amava cantare e ben presto fu l’allegria
della nostra casa, ma ebbe la sfortuna d’innamorarsi, ricambiata, di un
carabiniere. Il più alto, il più bello, il più divertente. Era napoletano.
“Ciarlatano”, convertiva babbo. “Simpatico e educato”, ribadiva mamma. “Peppino
miooo, amore miooo…”, Lina cantilenava a più non posso. E sognava e scriveva
lunghissime romantiche lettere, che mandava al suo amore con una tortorella
viaggiatrice che ero io. E io accettavo volentieri di volare da un cuore
all’altro perché quella “missione impossibile” mi faceva sentire importante,
degna di confidenze e di grandi segreti.
Sia Pina che Lina si
confidavano con me e spesso l’una mi pregava di lasciare perdere l’altra o di
tacere con l’altra ed io mi sentivo meravigliosamente contesa. Ricevevo coccole
e sorrisi da entrambe. E occhiate maliziose e complici. Nel buio di quei giorni
più o meno bui, squarci luminosi di breve felicità! Lina, con l’aiuto e la
complicità di mamma, Nina, Lucia e Pina, inventava o proponeva giochi di
società per le tante feste che rendevano allegra la nostra casa. La vittima
designata era quasi sempre il povero Giovanni, il domestico della caserma. Giovanni
era felice di partecipare e di essere al centro dell’attenzione. C’era il
grammofono a tromba e c’erano i 78 giri in vinile di musica leggera, che babbo
collezionava. In
quegli anni alle canzoni di guerra di un realismo tragico e lacrimevole
subentrarono romantiche, appassionate, nostalgiche canzoni d’amore.
A
“Faccetta nera, bella abissina,/ aspetta e spera che già l'ora
s'avvicina...”... “Come ogni sera, sotto quel fanal,/ dietro la stazione mi
stavi ad aspettar/ (…) Addio, piccina, dolce amor,/ ti porterò qui sul mio
cuor,/ con te Lilì Marlen, con te Lilì Marlen...”... “Addio, mia bella addio,/
l'armata se ne va,/ e se non partissi anch'io/ sarebbe una viltà./ Non pianger,
mio tesooro, sai che ritornerò,/ ma se in battaglia io mooro/ in ciel ti
rivedrò...” si sostituirono “Vieni,
c'è una strada nel bosco,/ il suo nome conosco,/ vuoi conoscerlo tu?/ Vieni c'è
una strada nel cuore/ dove nasce l'amore/ che non muore mai più...”... “Vorrei
baciar i tuoi capelli neri,/ le labbra tue, gli occhioni tuoi sinceri...”... “Suona
solo per me/ o violino tzigano/ forse pensi anche tu/ a un amore laggiù/ sotto
il cielo lontan…/ Se un segreto dolor/ fa tremar la tua mano”… E poi c’erano le musiche da ballo: la
Cumparsita, Adios Muchachos, La violetera, il Bolero di Ravel. La mazurka, i
valzer di Strauss, la polka, il fox-trot.
A
babbo piacevano soprattutto le colonne sonore dei grandi film e la musica
classica. A mamma,
però, dedicava sempre “Il tango della gelosia” (no, non è la
gelosia,/ ma è la passione mia,/ quando ti guardano gli altri/ io fremo perché/
io il tuo amore lo voglio/ soltanto per me…). Ogni volta lo ballavano
insieme e mamma era davvero bellissima, attrice principessa fata ballerina.
Maliosa superba
affascinante nei suoi abiti longuette
molto eleganti e raffinati. L’adoravo. Mi ripetevo ogni volta che da grande
sarei diventata come lei. (E per molti anni lei fu l’insuperato irraggiungibile
modello anche per te)…
E mi fermo qui. Alla
prossima e forse ultima puntata di una storia senza fine. Almeno nel mio cuore
e in quanti (tantissimissimissimi!!!) ti vogliono bene, Anna Maria mia… lina
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