martedì 30 luglio 2024

Martedì 30 luglio 2024: SESSANT'ANNI da ricordare...

Verrà il tempo/ in cui, con gioia,/ ti saluterai arrivando/ alla tua porta, e nello specchio/ ognuno sorriderà alla presenza dell’altro.// E dirai, siediti qui. Mangia./ Amerai di nuovo lo straniero che eri./ Offrigli vino. Offrigli pane. Riconsegna il tuo cuore/ a te stesso, allo straniero che ti ha amato/ per tutta la tua vita, che hai ignorato/ per un altro, colui che ti conosce profonfamente.// (…). Siediti. Celebra la tua vita. (Derek Walcott, Premio Nobel 1992)

La notte tra il 27 e il 28 luglio, presso una location molto suggestiva e accogliente, siamo stati in SESSANTA (tra parenti, amici, cantanti, disc jockey, responsabili della bellissima struttura, e del ricco e invitante catering) a festeggiare i SESSANT’ANNI di PEPPINO PIACENTE, Editore della SECOP edizioni e Direttore responsabile dell’Associazione culturale FOS insieme con Nicola Piacente, Graphic Designer delle stesse, impaginatore e autore delle splendide copertine delle pubblicazioni dei nostri Libri e Riviste cartacee: NEDA e CORRELAZIONI UNIVERSALI.

La festa è stata voluta e minuziosamente organizzata dai figli di Peppino: Nicola e Anna Paola, con la consulenza silenziosa e costante di Raffaella Leone, sua moglie da oltre trent’anni. Ne è venuta fuori una notte simpatica, divertente, allegra, ricca di particolari soliti, insoliti, creativi, come la maglietta di cotone su cui sono state scritte per Peppino dagli ospiti, col pennarello, tante parole ed espressioni connotanti il festeggiato nelle sue caratteristiche più salienti. Ne è venuto fuori un vivacissimo, veritiero, megagalattico ritratto che i ragazzi hanno portato a casa come “sacra reliquia” da appendere al muro a imperitura memoria.

Si è ballato instancabilmente come foto e video testimoniano. Persino io sono stata portata in pista da Nicola e Anna Paola per farmi vorticare come una perfetta ballerina “disabile”, ma con le ali negli occhi e nel cuore.

A fine serata, dopo la squisita torta, ancora interventi per rendere omaggio a Peppino con rinnovati auguri, battute affettuose e divertenti, nuove parole per meglio definirlo. Personalmente, con tanta commozione sono riuscita a pronunciare solo tre parole: “pragmatico”, “romantico”, “altruista”, riservandomi di chiarirle meglio scrivendo di lui nel blog, come sto facendo: “pragmatico”, perché Peppino è uomo pratico, concreto, organizzatore nato e determinato di eventi di ogni genere, anche difficili e problematici da risolvere perlopiù da solo con il suo innato “modus operandi” costi quel che costi; “romantico” potrebbe sembrare in netta contraddizione con il primo termine, in realtà, incredibile a dirsi, Peppino è un sentimentale “senza se e senza ma” (si commuove davanti alle storie d’amore, ai film romantici, alle travagliate situazioni familiari di difficile soluzione). Basti pensare che quando si sposò, mentre Raffaella, padrona delle sue emozioni, recitò tranquilla la formula di rito “io prendo te come mio sposo…”, lui scoppiò in lacrime e ci volle del bello e del buono perché riuscisse a completare la frase, facendoci commuovere fino alle lacrime; “altruista” è una connotazione fondamentale della sua personalità. Peppino in famiglia, ma anche con tutti gli altri che conosce, si prodiga in maniera totale. Vengono sempre prima gli altri. A tavola deve servire prima me, poi Raffaella, Anna Paola e Nicola. Poi prepara il suo piatto, preoccupandosi di dare agli altri commensali tutto quello, a portata di mano, che desiderano. Lo stesso avviene con i parenti e gli amici.

Ma Peppino è molto di più di queste tre parole. Ne sanno qualcosa in Italia e all’estero, dove per anni è stato il mio accompagnatore ufficiale nei vari Congressi e Convegni culturali a cui abbiamo partecipato. Mi ha sempre accompagnato, anche con le stampelle o in carrozzella, con devozione di figlio più che di genero. Ed io non l’ho mai considerato mio genero, ma sempre figlio da quando l’ho conosciuto tanti anni fa. Né per lui io sono sua suocera. Nelle varie strutture ospedaliere in cui ho spesso, purtroppo, “soggiornato”, in Italia e all’estero, tutti pensavano fosse mio figlio perché era quotidianamente al mio fianco. Non a caso, proprio per il compleanno dello scorso 28 luglio gli dedicai la seguente poesia: Dove la luna ha incontrato il mare,/ ha incontrato il cielo,/ ha incontrato mille nuvole nere/ che d’azzurro continuo/ ad inchiostrare perché nuovi voli/ negli occhi possa tentare,/ la tua premura di figlio/ ho incontrato/ in quotidiana ansia/ d’allevare i miei affanni/ più veloci del vento veloce/ degli anni pesanti da portare./ Silenziosa cura che il ricordo assorda/ del rosso fragore/ il tonfo delle ossa frantumate/ il pianto muto/ che seppe il prodigio/ di lacrime non versate./ E la preghiera fu promessa/ di ritrovati legami e rinnovate intese/ ad acquietarmi il cuore./ Il mio tempo è ora una vela ammainata/ che ti ostini a dispiegare/ perché il sole/ possa ancora ascoltare/ il mio canto/ (la vita che ti devo è sussurro/ lieve di inosata carezza/ stretta nel palmo delle mani). Buon compleanno, Peppino! (28 luglio 2023).    

Ma non finisce qui. Oggi è la Giornata Mondiale dell’AMICIZIA e io non posso fare a meno di pensare all’altra sera e ai tanti amici a fare corona al festeggiato con sincero e grande affetto. Amici, con cui condividere racconti di noi, simpatiche esperienze e sintonie.  Per me personalmente, sospensione da tutto e soprattutto dal dolore, pur sempre in agguato in questi ultimi mesi sempre in bilico tra nuvole nere e rari momenti di luce e di speranza. Con mille ansie e nessuna certezza; ma gli amici virtuali e reali tra battute e risate hanno reso più vivibile la mia pena, insostituibile la nostra amicizia.

Nella nostra casa, da tempi remoti, abbiamo sempre avvertito il bisogno di sentirci “insieme”. E questo modo di vivere lo abbiamo continuato sia nella nostra casa con Peppino, Raffaella, i ragazzi, sia nelle case dei miei figli che vivono a Roma. L’amicizia è sacra. Riccardo, il compagno di Ombretta, ha amici che frequentavano con lui le scuole elementari e che sono diventati miei amici grazie alla loro frequentazione amicale mai venuta meno nell’arco di tutti questi anni. Lo stesso avviene con gli amici di Daniela e con quelli di Viviana, divenuti amici di Giuliano e, in alcuni casi, anche miei. Non sono mai stata da sola in nessuna circostanza della mia vita. “Essere insieme” è per me forza e conforto. O, quantomeno, “sapermi insieme”, pure nella solitudine della mia casa e del mio lavoro, che ancora oggi mi impegna a trecentosessanta gradi. E anche questo lo devo a Peppino. La nostra casa a Corato è sempre piena di voci e di persone amiche a farci compagnia. Lo stesso avviene nelle case dei miei figli a Roma. Diciamo che è un salutare “vizio di famiglia” che si perpetua nel tempo. Oltre il tempo e lo spazio. Ci sono amici che si sono trasferiti al nord o addirittura all’estero. Con tutti l’amicizia continua anche attraverso le possibilità che oggi offrono i vari social, le videochiamate, i messaggi su Messenger, whatsapp e così via. La vera amicizia rivendica sempre il diritto all’incontro, virtuale o reale, al saluto, all’abbraccio, a un “ciao, come stai?”. Del resto, tutto passa e tutto ritorna nell’incessante movimento dell’esistere. Ma come faccio a non ricordare anche la mia prima caduta  il 29 maggio dell’anno 1993, anno in cui Peppino e Raffaella avevano deciso di sposarsi il X agosto, nella notte delle “stelle a migliaia”. La mia caduta ad una festa e il tac del femore spezzato. Oh, se non ci fossi mai andata a quella presentazione di un libro di poesie, a cui Primo non avrebbe voluto partecipare. Insistetti. L’autrice era una mia cara amica che ora non c’è più. Non volli darle un dispiacere. Ancora oggi sconto pesanti e dolorose conseguenze per quell’appuntamento con il Destino o Karma a cui non seppi sottrarmi. Una brutta frattura solo da me immediatamente avvertita, mentre ben cinque luminari della medicina e chirurgia, ignari della mia resistenza al dolore, mi fecero alzare con la gamba ciondoloni. Mi fecero camminare: tentativo inutile, dolorosamente da me assecondato, per obbedire a chi ne doveva sapere più di me che, invece, sapevo e mi raccomandavo ai santi, senza un solo lamento, per non svenire. (Ma il dolore guardato e non vissuto non si vede e non si sente. Si può solo intuire dalla mimica del volto sofferente. Dalla postura sbagliata, dalla difficoltà del respiro o di un movimento, ma l’intensità del tormento fisico e la resistenza alla sofferenza sono appannaggio solo di chi le prova e fa immediatamente i conti con sé stesso). Mi caricarono sulla macchina di Pinuccio, spingendo dentro la gamba che non obbediva… Giungemmo come Dio volle o non volle (non me lo chiedo più) al primo ospedale e lì finalmente diagnosticarono una frattura del femore sotto capitata e scomposta con immediato ferro come proiettile e senza anestesia a trapassare il ginocchio e immobilizzare la gamba. Intervento non corretto. Firma e fuga al CTO del capoluogo e intervento con viti canulate per salvare il mio femore ed evitare la protesi. Peppino sempre presente, attento, attivo, nella illusione di poter risolvere il problema in poco tempo perché lui e Raffaella stavano preparando il loro matrimonio e mancava poco più di un mese alla cerimonia, che dovettero organizzare da soli e tra mille difficoltà. Alle loro nozze mi presentai con le stampelle a reggere una gamba enorme e tutte le spente speranze, riaccese di verde negli occhi di Peppino, unico immenso amore di Raffaella. E fu una notte di stelle, che solcarono il cielo in una pioggia di sogni che avrebbero colorato anche i giorni dei difficili passi e dei rimandati sorrisi. E, in quella pioggia di stelle, io ferita nel corpo e nell’anima, intravidi il suo preoccupato sorriso, quasi una consolazione di ogni perdita di ogni inganno di ogni muto dolore. Quanti sogni scoprii nella luce dei loro occhi sotto la pioggia luminosa di quel cielo d’agosto!… E quante delusioni! Quante! Solo tre mesi dopo sotto un Cielo dal respiro breve e incerto, interrotto dalla perdita del padre del giovane sposo. Solo tre mesi dopo. Anche per me perdita del suo saluto mattutino alla luce di canti e incanti affettuosi tra consuete sue geometrie (essendo un conosciutissimo ingegnere a Bitonto) di progetti di multipiani da realizzare e mie poesie da condividere in un intreccio di sintonie culturali molto belle. Perdita dei suoi aneddoti, veri poemetti, nel nostro dialetto duro e imperioso, che connotavano tutti i paesani con “rə sopannòmərə (i nomignoli), che meglio identificavano una persona, la sua famiglia, il ceppo d’appartenenza, lavoro, professione, modi di dire o di essere, difetti e rare qualità. Qualche anno prima, sempre il papà di Peppino aveva dedicato una tenerissima poesia nel nostro dialetto a Raffaella, a cui Primo aveva aggiunto un ritratto con inchiostro di china in un abbraccio di capelli e di sogni. Mani protettive e tenere ad avvolgerla tutta.

Seguirono giorni difficili e amari per tutti noi, a partire, almeno per quello che mi riguardava, dalla necrosi del femore spezzato e riattaccato. alcuni mesi prima sembrava tutto superato, con due ortopedici supervisori venuti dalla Francia. Primo pianse di gioia. E mi accarezzò con gli occhi di tenere lacrime. Ma io non mi attenni alle regole. Ripresi a lavorare piegata sull’unica arteria che alimentava la testa del femore, che andò in necrosi, dopo circa due anni. 1995. Ricerca affannosa del nuovo chirurgo per il nuovo intervento. E sotto il cuore di Raffaella a battere un nuovo cuore… Me lo dissero dopo una ulteriore visita ortopedica presso un luminare francese venuto da Saint Etienne nella Capitale; visita brevissima che mi lasciò l’amaro in bocca. Il luminare non era più in grado di operare. Nulla di fatto sul versante protesi. Ma quel segreto mormorato a fior di labbra quasi fosse sogno fu subito felicità. Poi, la corsa a Lione, con Peppino, Raffaella e Nicola a pulsare sotto il cuore di sua madre (ormai le ecografie all’utero erano in grado di evidenziare il sesso del nascituro), per la nuova speranza di camminare come un tempo, in una clinica privata di lusso che prometteva prodigi col verde di giardini fioriti per ogni camera/suite e tanto felpato tepore di mani esperte ad alleviare la sofferenza a coltivare sorrisi e laute mance. E nessuno a salvarmi dai madornali errori del famoso chirurgo, ma tutti pregarono perché ne uscissi viva. Il ritorno fu incanto di Costa Azzurra tra merletti di mare in una Montecarlo che ci affascinò per la sua abbagliante bellezza, e il palazzo del re a frastagliarsi di scogli e la corsa automobilistica di Formula 1 nel serpente di larghe strade e stretti tornanti. E, come d’incanto, due mesi dopo, s’affacciò al nostro mondo quotidiano, per farsi amare, il nostro bambino già viaggiatore: NICOLA. Col nome del nonno paterno che non era riuscito ad attenderlo. Un nome che aveva anche echi lontani di giovane sposo e padre innamorato, rimasto nel cuore di tutti noi. Bambino benedetto, nato di notte, fiore di rossa estate nel prato verde del panno a coprirlo neonato, per la gioia delle nonne (io e nonna Anna) a mangiarlo di meraviglia e di baci. La vita riprese a sperare. Riprese a vivere.

L'inizio di nuova vita che si intrecciò ben presto con un nuovo germoglio nella nostra casa: ANNA PAOLA (1999). E fu nuova magia quel germoglio di rinnovate promesse. La sua nascita nel giorno in cui rinasce primavera. Tripudio di fiori. Luce di sorrisi. Nuovi giorni da vivere tra progetti e rimpianti. Giochi e attese. Impegni e viaggi. Passi ritrovati sempre grazie alle premure quotidiane di Peppino e dei piccoli di casa a farmi tenera compagnia sulla terrazza della nuova casa per aiutarmi a camminare senza stampelle, una villa nei pressi di Corato, dove scegliemmo di abitare insieme, e dove ancora abitiamo. Sono così passati gli anni. L’anno scorso abbiamo festeggiato insieme il trentesimo anniversario del matrimonio di Peppino e Raffaella. Ancora una volta una mia poesia con dedica. Eccola: D’AMORE/ palpitano mani febbrili/ di tenerezza nel portarvi doni/ d’infinite stelle nel giardino/ che questa notte anch’io/   ho sfiorato   / con dita di pianto per i lunghi/ giorni persi nel dolore/ della casa insonne d’intense cure/ e d’infinito amore./ Ma luci a migliaia/ questa notte abbiamo acceso/   INSIEME   / con la follia di giovani folli/  d’indomiti sorrisi  / a far ballare sedia a rotelle/ e sogni e nuvole e aerei/ di un cielo capovolto/ sui vostri   TRENT’ANNI/ già vissuti da vivere con un solo/   CUORE   / in una moltiplicazione di sogni/ che sono ancora tanti/ ancora vostri ancora colmi/ di infinite stelle e il loro canto… (Per Peppino, Raffaella, Nicola, Anna Paola da nonna Lina con immensa gratitudine e tanto tanto cuore…). Il resto e storia di due giorni fa. Peppino è tutto questo e tanto altro ancora. Ho ragione a dirvi che è mio figlio a tutti gli effetti?      

 

 

venerdì 26 luglio 2024

Venerdì 26 luglio 2024: Sant'Anna e ti penso e scrivo ancora di te, come sempre...

Mia carissima ANNA MARIA, stamattina nel dormiveglia, tra sogno e realtà, ho tenuto stretta tra le braccia una bimbetta appena nata che chiamavo Anna Maria. Mi ha pervaso una sensazione dolcissima come se cullassi te, quasi a rinsaldare, ancora una volta, il nostro esclusivo rapporto d’amore reciproco fin dal tuo primo giorno di vita. E, intanto, mi tornano alla mente tutte le emozioni vissute il 23 scorso, durante la messa per il tuo Trigesimo. Siamo purtroppo arrivati tardi in chiesa per via del traffico, ma appena dentro ho scoperto con grande commozione la presenza di Gianni accanto a Nicole e a Nicoletta, nelle ultime file. Gianni ti ha dato ancora una volta la testimonianza del suo grande amore per te e per tutta la famiglia, in un luogo non consono ai suoi principi laici… Un segno forte della tua presenza tra noi tra i tanti che in parecchi abbiamo avvertito in chiesa e soprattutto fuori, dopo la messa. E, per la prima volta, dopo tanti anni, senza averlo preventivato, ho preso dalle mani del sacerdote, che è venuto fino a me, senza averlo richiesto, l’Ostia consacrata. Altra emozione non preventivata. Ma, appena fuori, la tua presenza fra noi è stata, a mio parere, davvero eclatante. Per rinfrancarci un po’, abbiamo raggiunto Gianni fuori con Isabella, Nicoletta, Nicole, e un po’ in disparte Francesco, che tu ami chiamare “Libero” dal francese “franco”, ossia uomo o luogo “libero”, Licia, e altre persone che sono venute a salutarci. Tra queste ultime, alcune signore di… Casalnuovo Monterotaro, il paesino sui monti della Daunia, dove babbo ci portò quando tu e Pino eravate piccolissimi. Mimmo non era ancora nato. Ma la cosa più sorprendente è stata che queste donne hanno parlato di babbo e mamma, di te e di me, delle figlie di zi’ Donato, carissime amiche di mamma, della caserma e così via. Sono rimasta scioccata da questa coincidenza, a cui io non credo. “Niente avviene per caso”, come sai, è il mio motto. Isabella, intanto, distribuiva le preci con la tua bellissima poesia, da me sintetizzata, per via dello spazio da rispettare per la prece, rispettando ogni tua parola. Io all’alba avevo scritto per te la seguente poesia che avevo mandato a Isabella e Nicoletta perché sentissero la mia presenza in un momento così difficile e delicato da vivere: Nei giorni senza tempo/ vibra nell’anima la tua anima/ di voi d’ogni tempo./ Tante quante con la magia/ del tuo cuore hai conquistato./ Nidifica in me la nostalgia del tempo/ che non torna e ritorna nell’eco/ delle passate stagioni/ quando di verde stupore si coprivano/ i giorni delle nostre antiche estati/ baciate dal sole./ Oggi stupore dei miei vecchi anni/ i nostri giorni sanno ancora di magia./ Maga io senza scarpe e a piedi nudi/ sugli incroci del tempo con valigie/ di rimpianti vinti da mai spenta Poesia./ Nel tempo senza tempo che ci vinse/ era complicità d’incontri l’affinità/ di due anime sospese al filo/ della nostalgia, malinconica nota/ vibrante di lacrime e sorrisi/ nei nostri occhi/ di stanca tenerezza che esplodeva/ d’improvvisa risata ad una voce/ prima di ogni improvviso silenzio/ per una nuova emergenza/ ad attanagliarci il cuore./ So di anni addossati agli anni/ So di dolori addossati ad un unico dolore/ quello che fa più male e che ancora/ ha sussurri di mai perduto amore tra noi./ Ma Non rimane il silenzio, non sei solo album di ricordi./ A fatica riprendiamo/ a percorrere strade già percorse insieme/ per ritrovarci/ e raccontarci come un tempo/ con le tue parole sempre presenti/ e quanto mai necessarie a cantare/ con la tua indomabile voce/ il vero senso del tuo volerci uniti/ in te per non disperdere tutto/ l’immenso AMORE/ che per una vita hai saputo donarci… Lina (per la mia amatissima Anna Maria nel giorno del Trigesimo)… 

Anche Raffaella aveva scritto in mattinata una poesia per te ed io ho insistito perché la leggesse, sollecitata a farlo da tutti gli altri. Ed eccola: Nella stanza dei sorrisi che mi hai/ regalato mi rifugio/ A quella delle lacrime/ ho messo il lucchetto/ Per ora non frequento altre stanze/ Non ancora mi appartiene/ quella del silenzio/ Riecheggia la tua voce/ dove mi trovo e sento dirmi l’ascoltato/ e il nuovo/ e neanche il secondo mi sorprende/ Restiamo così finché i colori/ virano tra l’azzurro e il verde/ sospinte dal vento/ in questa bolla leggera/ profumata di sapone

Altra commozione che non ha più parole solo lacrime. Di tutti noi. Nicole mi viene ad abbracciare e mi sussurra parole d’amore, ricordandomi i nostri baci da lontano da conservare nel cuore e si allontana. Isabella chiama Francesco che le si avvicina e le sorride per dissipare le lacrime della madre e quelle di tutti noi. Per ovviare a tanta commozione, andiamo in deviazione ed io mi affretto a parlare di te e del tuo essere una seconda madre per Raffaella che, durante l’adolescenza e anche dopo, le sue sofferenze d’amore le veniva a raccontare a te, non trovando mai disponibile sua madre alle prese con un lavoro immane h. 24, ma questa è un’altra storia. Bastava che salisse al quinto piano per trovare zia Anna Maria ad ascoltarla, consolarla, incoraggiarla con i suoi immancabili sorrisi. E così abbiamo dato la stura ai ricordi, scegliendo quelli più divertenti per sorridere un po’, sentendoti tra noi più presente che mai. Poi, si è fatto tardi e abbiamo preso a salutarci tra lacrime e sorrisi. Ma ecco appena oltre la siepe del sagrato mille bolle di sapone fluttuare nell’aria. Ci vengono in mente gli ultimi tre versi della poesia di Raffaella “sospinte dal vento/ in questa bolla leggera/ profumata di sapone”. E non sappiamo se ridere o piangere. Appena sulla strada, una bimbetta, ignara di essere complice di un meraviglioso prodigio, che ti riguarda e che ci riguarda, sta facendo le iridescenti tenerissime bolle di sapone col suo aggeggino che mi ricorda la nostra infanzia e le mille bolle blu a riempirci di stupore...

E oggi è sant’Anna, una festa di onomastico che ti piaceva festeggiare due volte, grata a mamma e babbo che ti avevano dato due nomi e l’appiglio giusto per i doppi festeggiamenti. Ma io ho un ricordo in più per salutarti non solo con gli auguri di buon onomastico, ma con una bella risata di mai spenta complicità tra noi due. E ritengo che non sia disdicevole parlarne anche in un blog. Le cose di cui vergognarsi dovrebbero essere ben altre, che mai ci appartennero: mentre Lizia ed io avevamo salutato il nostro diventare donne al tempo giusto (12 e 13 anni) tu avevi sedici anni e ti disperavi perché non. E proprio nei giorni precedenti a Sant’Anna cominciasti a pregare la Santa perché diventassi anche tu mestruata e allo scoccare del 26 luglio del ’63 la Santa mi sussurrasti sulla spiaggia di non poter fare il bagno insieme per via delle mestruazioni. Evviva! Scoppiammo a ridere tutte e due abbracciandoci e, dimentiche del bagno a cui non avremmo mai rinunciato per nessuna cosa al mondo, cominciammo a saltare e a ballare sulla sabbia mentre mamma ci guardava con una faccia di dubbioso rimprovero misto a stupore. Ci avvicinammo alla sua sdraio per tranquillizzarla.

Primo, ignaro di tutto, ma sempre pronto a immortalarci con la sua macchina fotografica, riprese il tuo luminoso-malizioso sorriso…

Buon Onomastico, Anna Maria mia! Lina  

domenica 21 luglio 2024

Domenica 21 luglio 2024: ANNA MARIA dopodomani il TRIGESIMO e non mi sembra vero...

Riguardo in continuazione le tue foto, le nostre foto insieme, nei luoghi abitati in tutte le età della nostra vita, per trovare un appiglio di sopravvivenza, una ragione, un terrapieno che non riesco a trovare. Precipito in un vuoto che è solo pieno di te, della tua assenza/presenza. Tu mia roccia, mia ala protettrice sempre in un intreccio di noi che sapeva di magia tra dolore, sempre presente alle nostre vite, e allegria, sempre presente alle nostre vite.

In questi giorni ho riletto per la centomilionesima volta il romanzo da te scritto Gelido è l’inverno, e trascorro il tempo immergendomi nei ricordi. E non so più se è un bene o un male. Il naufragio è sempre a portata di mano. Leggo e rileggo la tua dedica: Alla sorella del cuore/ sorella gemella/ un solo cuore/ un solo sentire/ tanto AMORE/ tanta DISPONIBILITA’// Con un affetto grande quanto il mondo intero, Anna Maria.

Ed io per il tuo meraviglioso quanto amaro libro scrissi una sorta di presentazione/recensione: Diario epistolare: niente di più intimo. Non è facile entrare in questo libro perché è come un “tabernacolo”, con la sacralità del Corpo di Cristo in un’Ostia consacrata: sangue, martirio, morte e resurrezione. Anche in questo libro, infatti, vivono questi quattro elementi, che rendono sacro quanto Anna Maria ha scritto. Scrivere è anche perpetuare. E questa scrittura serve per tenere in vita l’uomo amato e perduto, e per tenersi in vita. Dunque, la scrittura che salva l’uomo amato e salva l’Autrice. La scrittura, per conservare una testimonianza d’amore e di dolore. Il “conservare”: quale atto d’amore più grande! Conservare, del resto significa “custodire”, “proteggere”, “salvaguardare dai pericoli”, “tutelare”; significa “prendersi cura” perché niente venga sciupato, si perda. Conservare è, dunque, anche la testimonianza di un amore che non può morire. Un testamento: eredità più preziosa di ogni altra. La pubblicazione: atto di coraggio che vivifica l’amore e il soggetto/oggetto di così tanto amore. Rendendolo immortale. Per questo “conservare” diventa anche sinonimo di “tramandare” per lasciare “traccia”, non orma che potrebbe svanire, ma solco profondo che rimane.

Ma, ancora più importante di queste mie osservazioni sul tuo libro è la lettera che ti scrisse la grande poetessa fiorentina Mariella Bettarini, mia coetanea e mia preziosa amica: Carissima Anna Maria, anzitutto, ti chiedo il piacere di darci del tu, e spero tu sia d’accordo… Ho appena finito di leggere, con immensa, dolorosa, ma anche lucente partecipazione, il tuo magnifico diario epistolare “Gelido è l’inverno”, che la tua carissima sorella Angela mi ha fatto avere. Credimi: sono rimasta “folgorata” per l’intensità dell’amore, dei ricordi, della dolcezza, della tenerezza, dell’empatia che questa tua scrittura emana, facendo condividere tutto questo ai tuoi lettori e alle tue lettrici, pure con l’arricchimento di tante immagini fotografiche, che vivacizzano in maniera straordinaria (e impensabile) quanto scrivi. Grazie, grazie di cuore, Anna Maria carissima, di questo meraviglioso tuo DONO a noi tutti, che abbiamo avuto la grazia di leggerti! Grazie infinite, e mille auguri a te, alle tue figlie, ai tuoi nipoti e a tutti i tuoi cari e care (a cominciare dalla nostra preziosa Angela), anche per l’anno nuovo, naturalmente con un grande abbraccio da parte di Mariella Bettarini.

Poi, rivolgendosi a me: Angela carissima, spero che con la carissima Anna Maria si divenga amiche reciprocamente preziose. Il suo amore, la sua immensa sofferenza, così profondamente espressi nella sua scrittura, mi sono davvero entrati nel cuore…

Nel libro, infine, ci sono molte altre mie annotazioni, altri miei interventi per essere quanto più vicina a te e a Nicola, che di riflesso amavo come un fratello. E che dire delle tante foto sue, di voi due, dei suoi quadri? Erano intrisi, questi ultimi, quasi tutti di grande tristezza e malinconia. Quasi un presagio ad accompagnarlo nella sua breve vita. E tu, giorno dopo giorno, annotavi tutto perché niente rimanesse oscuro del suo passaggio breve su questa Terra. Del tuo annullarti in lui e lui in te. Dell’intrecciare continuo della mia vita alla tua, e alla sua. Molto significative sono le ultime pagine del libro, in cui parli della forza dirompente del tuo amore per lui, del suo amore per te. Dei tantissimi sacrifici per coronare il vostro sogno. Ma… “troppa felicità fa ingelosire gli dèi e… non tutte le favole hanno un lieto fine!”. Questo hai scritto nelle ultime pagine. 

E meravigliosa testimonianza è anche la pagina, intitolata “OPERE DI NICOLA PARISI (1940-1974)” di Domenico Danza, bravissimo critico d’Arte che, tra l’altro, ha scritto: Un cenno a parte merita “L’autoritratto” (opera andata dispersa, per ragioni sconosciute): è una composizione che va oltre i limiti del tempo, che l’autore avrebbe potuto dipingere, indifferentemente, in altre circostanze, passate o future; qui la sua personalità è viva e presente, riflessa come in uno specchio: il tratto è rapidissimo, lo sguardo acuto, l’introspezione psicologica profonda…

Poi, incontrasti Gianni e con lui, dolorosamente, ma quotidianamente, stringesti un “patto d’alleanza” per mettere insieme i cocci di devastanti dolori, vissuti da entrambi, per costruire pezzo dopo pezzo un rapporto d’amore che fosse àncora di salvezza per tutti fino ai piccoli nati che rappresentano una nuova speranza nella VITA. Quanto importante darsi sempre la mano per non essere mai soli. Tu lo hai insegnato a tutti noi. E noi dobbiamo fare tesoro di questo tuo modo di essere che non escludeva mai nessuno, che “raccoglieva” ed “accoglieva” per costruire sempre nuovi legami, in cui ritrovarsi tutti come in una grande famiglia, che non conosce confini, ostacoli, riserve, rifiuti, esclusioni, divisioni, ritorsioni. Ciascuno aveva la sua importanza nel tuo cuore generoso. Ne è testimonianza la pagina 184 del tuo libro, riservata alle DEDICHE E RINGRAZIAMENTI, dove scrivi: Sono stati molti i gelidi inverni, trascorsi senza Nicola ed ho atteso con pazienza e un filo di speranza una primavera che riportasse foglie e fiori ai miei alberi ormai stanchi. Le primavere sono tornate ad ogni nascita dei miei nipotini… Questo libro è soprattutto un DONO per loro, perché un giorno saranno curiosi di sapere chi era Nicola Parisi e quali erano le sue caratteristiche…

Sento, però, il desiderio di dedicare questo diario anche al mio attento e premuroso compagno di vita, Gianni Brattoli, alle mie figlie Isabella e Nicoletta con i loro mariti Michele e Nicola, ai miei adorati nipotini: Nicole, Sofia, Francesco, Andrea; alle mie sorelle, ai miei fratelli, ai miei cognati: Anna, Mariella, Lina Graziella, Felice.

Una dedica agli affezionatissimi nipoti Raffaella e Peppino (a cui va il mio grazie), uniti a Nicola e Anna Paola; a Ombretta, con Riccardo, a Giuliano con Viviana, e a Daniela.

Una dedica ai doppiamente nipoti Gianfranco e Fabrizio e anche a Leila e alla vivacissima Silvietta.

A Carmela e Vito Parisi.

A Marica e Anna Maria con i relativi coniugi e figlioli.

A Eliana e Raffaele.

E poi: a Davide e Micaela e ai loro piccoli: Elisa, Riccardo, Gianluigi.

Ai cari Tiziana, Paolo con Claudio e Roberto, Marcella con Martina e Stefano.

A Silvana e Felice Brattoli con Giuseppe.

A Ida, Mirella, Leo e rispettive famiglie.

A Rosetta, Agnese, Sabino, Giovanna, Felice e Piera.

Agli amici poeti e scrittori, conosciuti in passato e agli amici poeti e scrittori della grande famiglia SECOP.

Un grazie speciale a mia sorella Lina, che mi ha incoraggiata ad aprirmi a un più vasto numero di lettori e che, negli ultimi tempi, mi ha sostenuto nei momenti critici.

Grazie a tutti, con affetto. Anna Maria.

Non un solo filo d’erba è sfuggito alla tua generosità. Alla tua gratitudine. Ai tuoi “alberi sempre pieni di foglie, di gemme, di frutti”. Nonostante le immani sofferenze, accettate stoicamente. Nonostante l'inevitabile stanchezza.  

E stanotte il nostro ininterrotto dialogo si è arricchito del tuo sorriso di passaggio sul mio letto, a riscaldarmi il cuore, mentre eri circondata da tanta LUCE dorata che non offuscava le stelle.

 Noi due/incontro di anime/ che non esclude/ il Cielo…

 E dopodomani sarò ancora con te. Lina

 

martedì 16 luglio 2024

Martedì 16 luglio 2024: ANNA MARIA e le sue infinite risorse vitali... (5)

Anna Maria carissima, oggi è la festa della Madonna del Carmelo, la festa sempre tanto attesa dell’onomastico di mamma da parte di tutti noi perché lei ci teneva tanto e tutti noi eravamo felicissimi di essere insieme nel cortile del gelso e le rose, tra mille colori e mille profumi estivi. Nel cortile, simile ad una fattoria, attraversavano i nostri occhi e i nostri giorni d’estate il cane (Lola) le galline il gallo e i pulcini le paperelle e le ochette gli uccellini (canarini cardellini l’usignolo il pettirosso), le tortore, i colombi. Poi, c’era la stalla con il cavallo fulvo, Fiorello. E sui fiori i petali in volo di bianche farfalle a deliziare il prato (farfallina bella e bianca/ vola vola e mai si stanca/ gira di qua e gira di là/ poi si posa sopra un fior… io e te cantavamo ad una voce). Il gelso rosso, le rose rampicanti sempre fiorite, il sole, il cielo grande. Il pergolato con pampini e grappoli d’uva rossa e bianca con una condivisione strana di zucchine a forma di lampioni di colore verde e arancione, molto decorative e squisite da mangiare. Facevano delicata ombra sul tavolo con la grande panca, entrambi di pietra, sotto la finestra della cucina con le porte laterali simili a enormi occhi accesi per illuminare le stanze della casa. E mi viene incontro un ricordo: una volta il nonno fece montare la pecora che, insieme ad una capretta, aveva comprato per procurarci, munto dalle sue mani, quotidianamente, il latte fresco, presso un pastore per avere un agnellino e tu, venuta in vacanza da noi, ti trovasti per caso ad assistere alla sua nascita per la curiosità inarginabile che ti contraddistingueva, nonostante i rimproveri di nonno Mincuccio, che non voleva che tu stessi con loro adulti nel cortile. Ma tu non si spaventasti minimamente come era successo a me qualche anno prima con i maiali. (Qui, però, si trattava di nascita, lì di morte). E questo mi serve per ribadire il tuo essere forte e coraggiosa in ogni circostanza della tua vita. Ma i ricordi non possono, oggi, fermarsi qui. La saracinesca divideva il cortile dalla strada, ma appena vi si entrava c’era sulla sinistra una buganvillea superba color ciclamino a dipingere gran parte del muro che si affacciava sul nostro meraviglioso cortile, ricco di archi e di tutte le nostre amate cose da cortile, compresa la finestrella con rose rampicanti e le foglioline tenerelle che si affacciavano ogni mattina a salutarci (Tra i rami del gelso rosso/ È fiorita la luna/ S’è impiastricciata di fuoco/ Le labbra/ Alla mia finestrella di rose/ S’è affacciata/ M’ha lasciato un bacio/E un sorriso/ (poi… è volata via) da: “Il gelso rosso, la luna e una finestrella di rose” (poesia inedita di a. d. l.)

Detto tutto questo, che non ha molta importanza rispetto a tutto il resto, voglio parlare di te e di quante ne combinavi non appena arrivava luglio e si profilava l’urgenza di racimolare un po’ di lire (un po’ tante!) per fare un bel regalo alla nostra adorata mamma. Era il tuo momento, per le tue tante “mission” impossibili. Questa forse più delle altre. Ricordi?

Intanto, tiravi a lucido la casa da sola, tutti i giorni, in men che non si dica. Eri un maschiaccio col viso di angioletto, poco celestiale e molto terreno: grandi occhi curiosi e larghi sorrisi di malizia e di allegria. La sua gioia di vivere! Poi, ti davi da fare per ben altro, con la segreta adesione di Lizia, perché amavamo fare i regali a tutta la famiglia e soprattutto a mamma, per il 16 luglio, e ai nonni che festeggiavano il loro onomastico per ben tre giorni, dal 2 agosto, la Madonna degli Angeli, al 4 agosto, San Domenico. Ti ricordi? Eravamo soliti festeggiare mamma e più tardi il tuo onomastico, il 26 luglio, Sant’Anna, che amavi festeggiare due volte per via di quella Maria che non dimenticavi mai, e poi quello dei nonni con un lungo strascico di visite, di auguri, di dolci e rosoli. Con fichi, gelsi rossi e rosse angurie. E l’immancabile gelato, di cui tutta la famiglia era ghiottissima. Come dimenticare quegli onomastici con “triduo” finale di festosa accoglienza di amici e parenti e conoscenti nella nostra casa del gelso e delle rose. In quelle circostanze, tu, oltre a tutto il resto, rivelavi tutta la tua intraprendenza: mentre io accumulavo le uova fresche che ogni mattina la nonna ci dava da bere e le conservavo accuratamente per nasconderle ad occhi indiscreti degli adulti, tu, munita di ampia borsa, di nascosto andavi a venderle a Pino, il nostro salumiere di fiducia, che tra l’altro era in affitto in un nostro appartamentino nel più ampio appartamento riservato a mamma e babbo al primo piano, con affaccio proprio sul nostro cortile, e sapevi contrattare anche sul costo di ogni uovo tanto da portare a casa e da me, che t’aspettavo al palo, una insperata sommetta, che ci permetteva di comprare dei regali anche abbastanza costosi e belli. Io non sarei andata a fare quelle “missioni impossibili” neppure sotto tortura. E neanche gli altri nostri fratelli e sorelle, nati via via col passare degli anni. Solo tu. E tu, in verità, ci provavi gusto. E saltellante e spensierata come una gallinella ti avviavi con il paniere delle uova, nascosto nella tua borsetta e in quella sempre più capiente della spesa, e te ne tornavi più leggera a passo di danza e con un’impagabile espressione di luminosa furbizia sul volto. Io t’attendevo sempre con apprensione sul marciapiede, per ulteriori complotti organizzativi. Tu, un vulcano con gli occhi, con la mente, con le mani. Un vulcano nel cuore. E non ti rivolgevi solo al nostro salumiere che, complice, sorrideva al tuo modo di essere così spigliato e risoluto, ma anche a Franceschina, la cugina acquisita di mamma, avendo sposato Pasquale, il figlio di zio Michelino che, aveva insistito col nonno, suo fratello, affinché dividesse il grande palazzo di via Generale Montemar, in due parti, essendo enorme per una figlia sola, nostra madre, sia pure con il seguito di ben sei figli. Ma, al tempo della divisione della casa, non tutti erano ancora nati.

Ebbene, prendevi le altre uova e le portavi su da lei e te le facevi pagare care, dicendole che servivano per i regali a mamma e ai nonni. Insomma, eri irrefrenabile. Col tempo siamo io e Mimmo,  Mingucc e Angelin, a continuare, sia pure da lontano, a mandarci gli auguri per un onomastico mai dimenticato. E pure Mimmo, nella circostanza, mi fa morire dal ridere per le sue battute autoironiche. Altre complicità, altri modi di sentirsi insieme. Ma nessuno di noi ti eguaglia quanto a gioia di vivere. Per questo anche babbo si lasciava vincere dalla tua esplosiva carica di vitalità e mal sopportava, la mia flemma, il mio romanticismo, la mia aria sognante, la mia esasperante lentezza nei lavori domestici. Facevo tutto all’ombra dei miei pensieri che vagavano ora luminosi ora cupi in un altrove che mi estraniava dal “qui e ora”. Io scrivevo e sognavo e basta. Anche soltanto con la mente, scrivevo. Anche soltanto con il cuore, scrivevo. Cantavo ancora, molto spesso (l’uccellino di gabbia non canta per amore canta per rabbia…, tutti a prendermi affettuosamente in giro). E ogni mia azione seguiva il ritmo del canto, che non era mai allegro e veloce, ma sempre languido, lento, lacrimevole, appassionato. Io e te, in queste cose, avevamo passioni diverse, ma sempre tanta complicità. E delle nostre complicità parlerò ancora perché erano tante e tutte legate alla tua intraprendenza e al mio venirti dietro a rimorchio, consapevole dei miei limiti e del tuo coraggio. Intanto, mi piace ricordare che mamma mi sollecitava a scegliere canzoni più allegre per svolgere le faccende domestiche con maggiore celerità: se ne sarebbero avvantaggiati l’orecchio, l’umore e la casa. Ma io non potevo rinunciare a sognare e a mettere fuori tutta la tristezza di una condizione di continua libertà vigilata, di mal sopportata sudditanza, di un amore folle e non sempre corrisposto in ugual misura. Le canzoni che parlavano di amori infelici erano il mio repertorio preferito. La mente vagava lontano e la possibilità di sbagliare era sempre molto concreta e vicina. Tu ridevi divertita nell’ascoltare il mio canto languido e sognante, così diverso da quello tuo: grintoso, arrabbiato, urlante ma quanto più efficace del mio! Sapevi che era nella mia indole perdermi nella musica e nelle parole e che niente e nessuno avrebbero potuto darmi mai un ritmo diverso. Un diverso appiglio. (Persino già avanti con gli anni e nonna, nei rarissimi ormai miei abbandoni al canto, ho fatto ridere figli e nipoti quando, un giorno, riproponendo il canto allegro e ironico di un presentatore della TV, mi sono messa a canticchiarlo con la mia solita passione sofferente di disteso infinito languore. E con una lentezza esasperata. Esasperante. Faceva più o meno così: “esilarante esilarante”(con voce baldanzosa e irridente). La mia versione fu: “e s i l a r a n t e      e  s  i  l  a  r  a  n  t  e         e   s   i   l   a   r   a   n   t   e”, interrotta dalla irriverente stratosferica risata dei miei cari ascoltatori che mi sollecitarono d’una voce: “più ritmo, mamma, più brio, essù!!!”. E i due nipoti a sbellicarsi dal gran ridere: “più swing, nonna, un po’ di allegria, dai… così ci fai addormentare!!!”. E tutti proprio tutti fecero un coro ballante di “esilaranteesilarante”, in una sarabanda che sembrava non dovesse avere fine. Ridemmo tutti fino alle lacrime. E la risata micidiale, anche se affettuosa, si ripropone ancora quando abbiamo un po’ voglia di scherzare sui miei limiti e sulle mie virtù). Come potevo piacere a mia padre che, pur amando la musica, il cinema, la letteratura, era un uomo concreto, legato alle ferree regole della vita militare, in cui ognuno doveva svolgere un compito ben preciso e senza commettere errori? Come potevo piacergli se era reduce da una guerra e una prigionia che gli avevano tagliato sogni e azzerato illusioni, di cui io ero irriducibilmente impregnata? Come poteva prendere in seria considerazione le mie inconsistenti fanfaluche lui che era abituato a leggere gli autori russi, francesi, americani di altissimo spessore letterario: Delitto e castigo, Guerra e pace, Anna Karenina, I fratelli Karamazov, Bel ami, I miserabili, Madame Bovary, Addio alle armi, Per chi suona la campana, Il vecchio e il mare, Uomini e topi?… Eravamo inconciliabili: emotivamente e affettivamente lontani anni luce.

Con te è stata tutta un’altra storia per una intera vita. E io sono stata sempre felice per te che eri, giustamente così amata da lui per la tua personalità così forte, poliedrica, determinata, volitiva. Senza mai perderti, come me, in mille rivoli di sogni ad occhi aperti e senza un minimo di concretezza. Tu, infatti, portavi a buon fine alla grande ogni impresa intrapresa. E sapevi scegliere ottimi regali, scontati al minimo prezzo possibile dai negozianti a cui ti rivolgevi. Io e Lizia ci affidavamo a te ciecamente perché noi non avremmo saputo fare altrettanto. Caratteristica che hai conservato fino ad alcuni anni fa, quando il primo ictus piegò la tua forte fibra ma non ti vinse. Poi… non voglio più ricordare… Continuo a viverti accanto con le mie parole, le mie lettere quotidiane. Le lettere che arrivano lassù sono come le lettere d’amore che sembrano voli di aironi o strascichi di stelle. Vanno. Illuminano. Non fanno rumore.  E dolcemente si posano sul cuore. In una carezza che non può morire.

E oggi festeggi anche tu con mamma, che hai tanto amato e che tanto, insieme a babbo e a tutti gli altri, ti ha amato, il suo onomastico che si perpetua in quello delle nipoti che continuano a portare il suo nome, modificato in qualche modo, ma sempre di Carmela si tratta...

E mi fermo qui. con un abbraccio a tutti voi che state facendo festa tra gli angeli e le stelle. Lina

 

 

 

 

 

sabato 13 luglio 2024

Sabato 13 luglio 2024: ANNA MARIA... (4)

Non va meglio per me dopo la caduta. Da due giorni riesco a puntare meglio i piedi sul pavimento e a mettere giusto tre passi per farmi sistemare sulla sedia a rotelle e provo una pena grande perché non posso dedicarmi a te, Anna Maria mia, come vorrei. Troppo dolorante per essere serena, e con un enorme ferita dentro in cui annego il dolore per non piangere. Lacrime sempre in agguato. Ma intanto mi corrono incontro altri ricordi di quel periodo insieme sui monti di Casalnuovo Monterotaro. E te li racconto perché riguardano anche te, piccolissima e adorabile.

Per fortuna, in quel paesino, avevo scoperto, andando un giorno con mamma e babbo in paese, il fotografo Nasillo che ci aveva portato nella camera oscura dove avevo visto fiorire nell’acqua su cartoncini bianchi, lentamente, volti e case e alberi e profili di monti e sagome d’animali. E quel prodigio diventava esaltante quando quelle foto venivano appese con le mollette a fili di zinco come fazzolettini che sventolavano da un treno lungo lungo per un addio o un arrivederci. Oppure, come me, erano colombe in cerca di libertà e di sole, ma trattenute da quelle mollette a tarparne il volo, in quella penombra semibuia rischiarata da caldi fari per agevolarne l’asciugatura.

Per me, Nasillo era un vero e proprio mago in carne ed ossa (altro che il mago di Oz!), tanto da far affiorare dal nulla quelle meravigliose immagini, prima riprese, con un semplice scatto, dalla macchina fotografica. Questa era una grande scatola nera a fisarmonica, poggiata su un trepiedi pure nero in una saletta semibuia. Dietro la scatola c’era un panno nero dove spariva la testa del fotografo e una peretta che lui stringeva con la mano ogni volta che un lampo attraversava l’enorme occhio aperto sulle cose e le persone, che sembrava venissero mangiate come se quell’occhio, che si apriva e si chiudeva, diventasse una enorme bocca vorace. Improvvisamente quelle cose o persone, mangiate da quell’occhio-bocca, ricomparivano sui fazzoletti bianchi messi nell’acqua e stesi ad sciugare davanti alla lampada accesa. Un prodigio, che mi piaceva osservare ogni volta che ci capitava di passare dal suo studio fotografico. Il fotografo Nasillo era un prestigiatore-illusionista

da ammirare incondizionatamente.          

Fu allora forse che cominciai a non avere più paura del buio? Forse sì. O, quantomeno, cominciai a scoprire che era nel buio che avvenivano i prodigi, si compiva il mistero delle cose, si dischiudevano i sogni, germogliavano i bambini… Quante foto bellissime venivano scattate anche a te con i tuoi favolosi cappellini, con i tuoi riccioli bruni che incorniciavano il tuo visetto sorridente o corrucciato per qualche capriccio che mamma e babbo non potevano esaudire in quel momento: cioccolatini, caramelle e gelati di cui eri particolarmente ghiotta. E ne ero ghiotta pure io. Altra caratteristica che ci ha sempre viste complici fino a tarda età.

Per fortuna, poi, c’erano anche il cinema e le lucciole. E anche questi erano miracoli che si accendevano nel buio: lo schermo e le storie nel buio del cinema; le lucine vibranti nel buio della sera. Spesso con mamma e con le mogli e i figli degli altri militari andavamo al cinema. Per raggiungerlo dovevamo attraversare alcuni campi della periferia che brulicavano di lucciole (noi siam come le lucciole/ brilliamo nelle tenebre… ma era un’altra storia che mi sfuggiva). Io mi perdevo in quelle stelline affioranti sul prato. Nel cinema, mamma era sempre attenta a coprirci con le mani gli occhi per non farci vedere alcune innocenti scene d’amore che lei riteneva non adatte a noi piccoli. Questa precauzione è durata fino alla nostra adolescenza con grandi proteste da parte mia e delle mie compagne di innocue prime scoperte del mondo e della vita. Non c’era bacio che non dovessimo spiare attraverso la grata delle sue mani che sembravano moltiplicarsi, centuplicando dita e ansie e timori e perplessità. E in quella complicata operazione anche lei si perdeva l’emozione di quel bacio tanto atteso e inevitabilmente perduto… Ma all’uscita dal cinema io dimenticavo tutto per dare la caccia alle lucciole. Ne raccoglievo a manciate che conservavo nel fazzoletto per metterle nel bicchiere appena tornata a casa. Qui la delusione in agguato: quelle splendide lucine intermittenti, a riportarmi il cielo e il brulichio delle infinite sue stelle tra le mie piccole mani, erano soltanto dei minuscoli insetti privi di ogni splendore. (IL SOGNO, la realtà). Ma, pur registrando ogni volta la delusione di quella via lattea sfavillante nella mia tasca, ricondotta a un misero bottino di alucce spente, non riuscivo a vincere la tentazione di riprovare ad afferrarle e a conservarle, sperando nel prodigio di ritrovarle a casa sfolgoranti di luce. (Più tardi, mi avrebbero dato l’opportunità di riflettere sulla nostra irriducibile necessità di credere nel sogno e di rifiutare persistentemente le reiterate delusioni che la realtà ci riserva, perché ognuno forse, a modo suo, si costruisce nicchie di sopravvivenza e tenaci illusioni, magari senza averne piena consapevolezza o, proprio perché tali, con foscoliana insistenza. Molto molto più tardi ho ritrovato, sempre con te, quelle meravigliose stelle ammiccanti nelle nostre vacanze alle Terme di Chianciano, lungo la lunga strada della nostra passeggiata nel bosco che congiungeva il nostro albergo al centro del paese. Oppure, ma senza di te, nella vallata della Valle del Sole, dove io e Primo avevamo una multiproprietà. Un appartamentino delizioso su cui si affacciava la nostra casa delle vacanze in Abruzzo. E, mentre all’alba le nuvole di morbida panna lievitavano verso l’alto facendoci sentire in sospensione tra terra e cielo, di sera da quel fondo valle salivano fino al nostro balcone le lucciole luminose e grandi a farci riscoprire un mondo che credevamo perduto per sempre nei nostri paesi e nelle nostre città sempre più inquinati... Ma, come ho già detto, noi due con Gianni e le nostre sorelle, le ritrovavamo in Toscana dove ci accoglieva il benessere delle terme e il lungo viale d’alberi e di siepi tra cui scintillavano in minor numero ma salutate dal nostra rinnovata meraviglia).

Ma in quel paesino sui monti della Daunia erano il mio sogno e la mia delusione d’ogni sera e di ogni nuovo giorno. Meno pericoloso nel sollecitare illusioni e inevitabili conseguenti delusioni era, invece, il tuo dentino caduto che ero solita mettere sotto il solito bicchiere per farti trovare il giorno dopo, al suo posto, il solito soldino: lì non c’era inganno. Bisognava solo dire la formula magica che i nonni mi avevano insegnato dopo ogni dentino caduto perché quella perdita momentanea non ci dispiacesse più di tanto: tìttə e tìttə, sandə Bənədìttə, jè tu ammènəghə stùrtə e tu mu ammìnə drìttə… tetto e tetto ‘?’, san Benedetto, io te lo do storto e tu me lo fai rinascere dritto… (commutato alcuni anni dopo da mamma per l’ultima nata nel canto dello Zecchino d’oro: “fammi crescere i denti davanti/ te ne prego Bambino Gesù/ sono due ma mi sembrano tanti/ son caduti e non crescono più…”). Ma tutti noi nati nella prima metà del secolo ci assicuravamo, con quel mantra antico, il soldino e il nuovo dentino bello e dritto per sorridere meglio!

Per fortuna, poi, in quel paesino che si arrampicava fino al cielo, cadeva anche la neve. Tanta. A novembre quelle case da presepe, ed esposte a mille venti e all’incessante precipitare delle pietre lungo le scarpate, si vestivano di bianco e di silenzio. E del nostro stupore. Noi, appollaiati dietro i vetri al tepore di maglioni indossati l’uno sull’altro e dei bracieri accesi nelle diverse stanze… Magia di un silenzio come di bianca preghiera, di sposa all’altare, di bianche lucciole fluttuanti a mezz’aria senza più mani ad interrompere il loro lieve e incantato volo… E quelle vie sembravano inerpicarsi davvero fino al cielo, nell’imbroglio della tormenta che lo rendeva più sfumato e vicino, e con piccole sporgenze sul lastricato dove noi, se costretti ad uscire per andare in chiesa sulla cima più alta di quel nido di case, piantellavamo i piedi per avere maggior forza nell’attraversarle incolumi senza scivolare sul ghiaccio… e tu battevi le mani, ben riparata nella carrozzina con cuffiette, guantini e copertine, per quella meraviglia che t’incantava. E, meraviglia delle meraviglie!, la bianca neve nei bicchieri di vincotto che i nonni ci mandavano. Dolce delizia di rosso corallo... e non era più neve. Era carezza amore ricordo nostalgia… Nell’aria trasognata/ intrisa di silenzi/ tra case di cristallo addormentate/ bianche farfalle di neve/ su vesti nere/ in fila lungo la scia di campane/ passere scure a punteggiare/una fiaba di magico candore/ (la mia infanzia): (“La mia infanzia”, da l.d.l. il gelso e le rose).

E, poi, per fortuna, ci raggiunse Lina, la figlia di zia Angelina, sorella maggiore di babbo. Lina aveva sedici anni. Venne per stare un po’ con noi e per aiutare mamma nell’accudire i più piccoli. Con lei qualche volta, di pomeriggio, andavo giù dove c’era un porticato, che comprendeva la Caserma e il Comune, per giocare a palla o con la corda, ma subito Lina risaliva perché si sentiva troppo grande per quei giochi infantili. In casa giocavo un po’ con te “alla mamma e alla figlia”, mentre il piccolino, Pino, era intoccabile. Era l’erede al trono, il tanto atteso figlio maschio.

Lina era molto bella, paffutella, piccoletta. Con due occhioni neri e riccioli bruni. Sempre sorridente, allegra, chiacchierina. Amava cantare e ben presto fu l’allegria della nostra casa, ma ebbe la sfortuna d’innamorarsi, ricambiata, di un carabiniere. Il più alto, il più bello, il più divertente. Era napoletano. “Ciarlatano”, convertiva babbo. “Simpatico e educato”, ribadiva mamma. “Peppino miooo, amore miooo…”, Lina cantilenava a più non posso. E sognava e scriveva lunghissime romantiche lettere, che mandava al suo amore con una tortorella viaggiatrice che ero io. E io accettavo volentieri di volare da un cuore all’altro perché quella “missione impossibile” mi faceva sentire importante, degna di confidenze e di grandi segreti.

Sia Pina che Lina si confidavano con me e spesso l’una mi pregava di lasciare perdere l’altra o di tacere con l’altra ed io mi sentivo meravigliosamente contesa. Ricevevo coccole e sorrisi da entrambe. E occhiate maliziose e complici. Nel buio di quei giorni più o meno bui, squarci luminosi di breve felicità! Lina, con l’aiuto e la complicità di mamma, Nina, Lucia e Pina, inventava o proponeva giochi di società per le tante feste che rendevano allegra la nostra casa. La vittima designata era quasi sempre il povero Giovanni, il domestico della caserma. Giovanni era felice di partecipare e di essere al centro dell’attenzione. C’era il grammofono a tromba e c’erano i 78 giri in vinile di musica leggera, che babbo collezionava. In quegli anni alle canzoni di guerra di un realismo tragico e lacrimevole subentrarono romantiche, appassionate, nostalgiche canzoni d’amore.

A “Faccetta nera, bella abissina,/ aspetta e spera che già l'ora s'avvicina...”... “Come ogni sera, sotto quel fanal,/ dietro la stazione mi stavi ad aspettar/ (…) Addio, piccina, dolce amor,/ ti porterò qui sul mio cuor,/ con te Lilì Marlen, con te Lilì Marlen...”... “Addio, mia bella addio,/ l'armata se ne va,/ e se non partissi anch'io/ sarebbe una viltà./ Non pianger, mio tesooro, sai che ritornerò,/ ma se in battaglia io mooro/ in ciel ti rivedrò...” si sostituirono “Vieni, c'è una strada nel bosco,/ il suo nome conosco,/ vuoi conoscerlo tu?/ Vieni c'è una strada nel cuore/ dove nasce l'amore/ che non muore mai più...”... “Vorrei baciar i tuoi capelli neri,/ le labbra tue, gli occhioni tuoi sinceri...”... “Suona solo per me/ o violino tzigano/ forse pensi anche tu/ a un amore laggiù/ sotto il cielo lontan…/ Se un segreto dolor/ fa tremar la tua mano”… E poi c’erano le musiche da ballo: la Cumparsita, Adios Muchachos, La violetera, il Bolero di Ravel. La mazurka, i valzer di Strauss, la polka, il fox-trot.  A babbo piacevano soprattutto le colonne sonore dei grandi film e la musica classica.  A mamma, però, dedicava sempre “Il tango della gelosia” (no, non è la gelosia,/ ma è la passione mia,/ quando ti guardano gli altri/ io fremo perché/ io il tuo amore lo voglio/ soltanto per me…). Ogni volta lo ballavano insieme e mamma era davvero bellissima, attrice principessa fata ballerina. Maliosa superba affascinante nei suoi abiti longuette molto eleganti e raffinati. L’adoravo. Mi ripetevo ogni volta che da grande sarei diventata come lei. (E per molti anni lei fu l’insuperato irraggiungibile modello anche per te)…

E mi fermo qui. Alla prossima e forse ultima puntata di una storia senza fine. Almeno nel mio cuore e in quanti (tantissimissimissimi!!!) ti vogliono bene, Anna Maria mia… lina  

 

 

 

 

martedì 9 luglio 2024

Martedì 9 luglio 2024: ANNA MARIA... (3)

Martedì 9 luglio 2024: ANNA MARIA… (3)

E ancora proteggi

la grazia del mio cuore

adesso e per quando

tornerà l'incanto

l'incanto di te,

di te vicino a me

(Vinicio Capossela, “Ovunque proteggi”)

Riprendo. Molto a fatica riprendo. Tu sai benissimo che uno scoramento continuo mi prende perché non riesco ancora a riprendermi dalle brutte conseguenze della bruttissima caduta di circa dieci giorni fa e mi stanco molto a stare seduta davanti al computer per parlare di te. Per scrivere di te. Anche gli occhi mi bruciano e si velano continuamente di lacrime. Ma voglio raccontare ancora e tanto. Per renderti VIVA anche al cuore degli altri. A quelli che sanno di te e a quelli che stanno imparando a conoscerti ora, sino dai lontani giorni della tua infanzia. Perché nulla di te venga ignorato. Nulla di quanto io stessa possa ricordare… A partire dalla casa del gelso e delle rose e dai mille frutti di stagione che il nonno portava a casa dai suoi campi e dalla “cocevola”, che noi chiamavamo il “giardino”. Dopo ogni primizia di stagione, dovevamo recitare l'avemaria di ringraziamento alla Vergine che ci aveva concesso di gustare quei frutti, ancora, nel nuovo anno. E il nonno ci guardava mangiare, felice della nostra golosa felicità. I frutti più grossi e maturi erano destinati a noi piccoline. Alla nonna. Agli occasionali o quotidiani ospiti alla nostra mensa. Avevo forse tre o quattro anni compiuti allora, e tu non eri ancora nata, ma i ricordi di quella età mi ritornano alla mente come nitide istantanee che hanno eternato, di volta in volta, quella bimba ribelle e ciarliera che solo il nonno riusciva a domare e a far tacere con le tue tenerezze, le mille strategie di sopravvivenza, i prodigi che fiorivano dalle sue mani per la sua quiete e quella delle altre donne di casa. Era tempo di molte donne e pochi uomini nelle case. Era tempo di guerra. E babbo era in guerra. Il nonno ci faceva da padre, colmando per intero quel vuoto di nostro padre fino a chiamarlo “papà” (ed era già una novità in quegli anni in cui i figli chiamavano il padre ancora “tatà”), e abbiamo continuato a farlo anche dopo il ritorno di babbo dalla guerra. Per l’intero arco della sua e della nostra vita. Ancora oggi, parlando di lui, diciamo “papà”. C’è una paternità non ascritta che si conquista con il cuore. Papà aveva sempre per tutti una parola di comprensione, di difesa delle umane debolezze, di tenero rammarico di tutto ciò che si sarebbe potuto fare per evitare amarezze e delusioni, ripicche e litigi, piccole e grandi disperazioni. Sembrava che avesse un acciarino magico per ogni contrarietà. Col tempo avrei paragonato sempre più la sua luce alla generosità della lucciola che porta il suo lumicino alle spalle per illuminare la strada agli altri e mai a sé stessa. In questo tu gli somigliavi molto. Mamma e babbo si sposarono a gennaio del 1940. Un anno dopo nacque Lizia e ben presto mi annunciai io, ma babbo non mi vide nascere. Attese fino a maggio, poi fu chiamato per “servire la patria” e mi ritrovò esattamente quattro anni dopo, tornando a nuoto dalla Grecia, dove era stato prigioniero. E nel 1947 nascesti tu, come ho già raccontato. E tu eri un incanto. Ricordi che ti ho parlato di zio Padre Leonardo, venuto dall’America e del desiderio di mamma di far ricevere a me e a Lizia la Prima Comunione dalle sue mani? Ebbene in quella circostanza venne pure zio Fra’ Francesco, fratello maggiore di zio Padre Leonardo e del nonno. Zio Fra’ Francesco, con le sue massime sagge e i suoi aneddoti divertenti e il suo sandalo con una zeppa molto alta per sopperire alla mancanza di parecchi centimetri alla gamba sinistra (dislivello dovuto ad una ferita di guerra e ad un immediato intervento, persino senza anestesia, da parte del chirurgo cappellano, che così gli evitò l’amputazione dell’intero arto e ulteriori immani sofferenze, come lui ci raccontava) e Fra’ Felice, il sempre arguto e sorridente cugino di mamma, fratello di Peppino e Pasquale, figli di un altro fratello del nonno. Michelino.

Io ero bianca nuvola di bianco sogno e mi sentivo fiera di me e ancora di me.

E tanto fiera di zio Padre Leonardo, e di tutti gli altri. E tutti ci fecero mille complimenti (altro che Cenerentola apprezzata solo dal Principe!), incantandosi però a guardare i tuoi occhioni, Anna Maria, che eri uno splendore di bimba. Zio Fra’ Francesco stette tutto il giorno ad ammirarti e a parlarti, come ti abbiamo più volte raccontato in passato: “bella bella bella… buooona!!!”. E tu  ridevi felice. (Anche zio Fra’ Francesco ci affascinava con le sue storie e le sue arguzie per farci scoprire il mondo giocando. Insomma, il nonno, zio Padre Leonardo e zio Fra’ Francesco erano tre fratelli meravigliosi. Il più taciturno e solitario era zio Michelino).

Alcuni giorni dopo, zio Padre Leonardo andò via e fu come se si spegnesse un faro nella nostra casa. Poi, la notizia che saremmo ripartiti tutti insieme, comprese me e Lizia, perché babbo non poteva più tollerare che io non andassi a scuola, ci sorprese dolorosamente. Avevo ormai quasi sei anni e mezzo ed ero in ritardo. Aveva fatto l'iscrizione per me in prima elementare e per Lizia in terza perché anticipataria. La scuola, molto grande e circondata da alberi e siepi, era a pochi passi dalla piazza della caserma, dove noi abitavamo in un “alloggio” che aveva ampie stanze e lunghi corridoi e ballatoi luminosi, con finestre e balconi sulla strada principale che portava al corso giù in paese. Ma c'era un'alta e ampia finestra, quella della camera da letto di mamma e babbo, che si affacciava sul cortile dell'enorme casa di zi' Donato, il nostro dirimpettaio.

Dopo i primi tempi di adattamento, mamma fece amicizia con le tre figlie di zi’ Donato, Nina la maggiore, tracagnotta, bruna, con una lieve peluria selle labbra e bellissimi occhi grigi, con modi spicci e pratici, senza fronzoli; Lucia alta, esile, bionda con lunghi capelli ondulati, bellissima e con occhi sognanti, era sempre molto elegante, anche con i vestiti di casa; Pina, la più giovane, era alta, robusta, una ragazzona solida e bella, con due lunghe trecce e labbra prorompenti di allegria. Era amica dei tanti animali che vivevano nella loro enorme casa. E così, spesso, vedevo mamma fare con loro la lotta dei cuscini che volavano da una finestra all'altra e attraversavano il cielo tra le due costruzioni come enormi buffe tortore impazzite, tanto la distanza era breve tra la caserma e la loro casa. Io temevo sempre per te e per Pino che mamma lasciava incautamente incustoditi sul letto per giocare come una pazzerella con le sue amiche. Io mi mettevo accanto al letto per tenevi sotto controllo. In realtà anche mamma vi controllava, ma io temevo ugualmente. E, del resto, lì mamma si stava riprendendo quella giovinezza che la guerra le aveva negato. Che il matrimonio e la nascita immediata delle prime due figlie le avevano negato. Poi, la tua nascita subito dopo la guerra. E quella di Pino. Era finalmente tornata a sorridere e sapeva giocare come una bambina, nonostante i quattro pargoli da accudire. Una gioia lunga quanto le mattine chiacchierine, i pomeriggi assolati, le sere stanche, ancora vivaci di un fervore strano a dirsi, e inconsueto a viversi in un paesino di poche anime, arrampicato sui fianchi della montagna fino al suo cocuzzolo e una croce. Pochi svaghi e tanta solitudine. Mamma si riscoprì, in quegli anni, allegra, incosciente, e un tantino viziata come una principessina, a cui non era mancato mai nulla, nonostante avesse vissuto con i nonni e noi bambine la paura della guerra e l'ansia dell'attesa che babbo finalmente tornasse.

Zi' Donato era un ricco possidente di più masserie ed aveva una casa enorme, che condivideva allegramente con zi’ Rosina, sua moglie, taciturna, amorfa, senza lode né infamia, e con le suddette tre figlie, una diversa dall'altra.

Pina aveva sedici anni ed era la mia compagna preferita. Poi, anche la tua nel senso che, benché tu fossi piccolissima, Pina ti prendeva in braccio e insieme andavamo in esplorazione nelle soffitte della sua immensa casa: grandi stanzoni sotto il tetto, dove c'erano colombi, tortorelle, uccellini, conigli. Conserve di pomodori, melanzane, zucchine, funghi e salsa e barattoli d’ogni genere e rosari giganteschi di salami e salsicce che pendevano dal soffitto e panciute chitarre di prosciutti stagionati. Su alti scaffali di zinco, lune oleose di formaggi. Addossati alle pareti, recipienti enormi e lucidi di olio, e damigiane di vino e tanto tanto altro ancora, suddiviso per stanza. Il regno delle meraviglie, animato e inanimato!

Un forte odore indistinto di tutto quel ben di Dio penetrava nelle narici. Tu facevi smorfie e sgranavi gli occhioni carichi di meraviglia. Mi chiedevo perché anche tortorelle e conigli e uccellini stessero lì e non nel vasto cortile, ma non osavo chiederlo a lei perché mi sembrava che una ragione dovesse pur esserci e non volevo fare la figura di essere tanto piccola da non capire. Lei mi aveva scelto come amica e questo mi riempiva di orgoglio. E lei, infatti, mi raccontava storie di fattucchiere e di magie. Diverse da quelle che ci raccontava il nonno. Mi parlava di spilloni conficcati nelle foto di persone che dovevano patire qualche guaio, commissionato alla “mascjàra” (strega che faceva magie e sortilegi) da chi riteneva di aver subito qualche torto. Di gocce di sangue del “mese” (mestruo) delle ragazze innamorate che le mescolavano al caffè in una tazzina da far bere al ragazzo prescelto per legarlo a loro con eterno amore. Di ciuffi di peli del pube per altre diavolerie che mi lasciavano senza fiato. Erano storie, di cui capivo molto poco, che m’incuriosivano e mi spaventavano, mi stupivano e mi inquietavano... Quando le chiedevo spiegazioni, Pina mi diceva che ero troppo piccola per capire e che avrei capito al tempo giusto. Poi, mi parlava anche delle sue prime cotte e della voglia del primo bacio. Si confidava con me che ero piccolina perché delle sue coetanee non si fidava. Diceva che erano tutte pettegole e invidiose e pronte a baciare il primo che capitava pur di togliere l'innamorato a qualche amica.

Anche zi' Donato, non molto alto, tarchiato, capelli bianchi rovistati dal vento, faccia quadrata benevola sorridente, amava raccontare storie curiose e cantare tante filastrocche. Ma io, dopo i primi approcci simpatici, ne avevo un po’ paura perché, prima di Natale, incuriosita dalle grida di uomini e animali, mi ero affacciata alla porta di un enorme stanzone mai esplorato prima e, senza che nessuno badasse alla mia presenza tanto erano tutti indaffarati nei loro mestieri, avevo intravisto quegli uomini ammazzare due maiali, che in quei due mesi avevano allevato nella masseria con tanta cura. Avevo sentito il loro urlo sgozzato le voci concitate. Avevo visto il sangue schizzare tra l’innocenza rosea di quei corpi frementi di paura e le veloci mani, e mi era arrivato violento il suo odore acre e disgustoso e, poi, con quella carne, umiliata e spenta, in tutta fretta altre mani di uomini e donne avevano ricavato chitarre e rosari di carne e, poi, grasso e lardo e sangue fritto e sanguinaccio. Ne ebbi orrore e terrore. A lungo mi tenni lontana da lui e dalla sua casa.

Ma, poi, dimenticai tutto perché zi’ Donato era affettuoso, allegro, sempre sorridente, soprattutto con te che suscitavi in lui infinita tenerezza. Spesso amava cantare proprio per noi bambine: Son tre notti che non dormo la là/ ho perduto il mio galletto la là/ poveretto la là/ poveretto la là/ non lo posso più trovar./ Ho girato il mondo intero la là/ e poi tutta l’Alemagna la là/ e la Spagna la là/ e la Francia la là/ fino in cima al Perù.// A voi donne ve lo dico la là/ se per caso lo trovate la là/ per piacere la là/ me lo date la là/ perché non posso più aspettar… Oppure La campana fa din don dan/ il galletto chicchirichì/ la madonnina qualche grazia fa.// Mamma mamma però però/ torno a casa a mezzodì/ fammi la grazia di pregare un po’.// Madonnina, la campana suona giàaa/ din don din don din dan/ la grazia mi faràa./ Madonnina, ah se volessi Tu/ la mia Nina non dormirebbe più.

E ancora E tutti i gatti miao e miao miao miao/ e tutti i gatti miao miao miao miao  ffrrr… (e faceva con la bocca e con le mani i movimenti del gatto in procinto di graffiare). Tu ridevi a crepapelle ed io ero felice per quelle tue risate tra dentini bianchi e piccoli come chicchi di riso. Zi’ Donato continuava Il primo gatto poi è quello da cucina/ che con voce sopraffina/ incomincia a miagolar:/ e tutti i gatti miao e miao miao miao/ e tutti i gatti miao miao miao miao ffrrr…// Il secondo gatto poi è quello da cantina/ che con voce sbarazzina/ incomincia a miagolar:/ e tutti i gatti miao…// Il terzo gatto poi è quello da salotto/ che con voce da bassotto/ incomincia a miagolar… e così via (tutte le canzoncine sono voci del ricordo. E ogni parola è quella, ma può essere un’altra…). A me piaceva molto quella canzoncina per il graffio conclusivo di ogni strofa che tanto ti faceva ridere. Già mi sentivo tua complice.

Zi’ Donato era per me fonte di timori e di risate, di ansie e d’allegria, di scoperte di nuovi mondi e di canzoncine per rendere più divertente il giorno. Anche mamma era in quel periodo quasi sempre allegra e canterina. Anche lei ci cantava canzoncine divertenti o tristi che finivamo per cantare insieme. Alcune per bambini, altre no:  C’era un grillo in un campo di lino,/ la formicuzza gliene chiese un pochettino,/ Lariciumbalalirollero lariciumbalalirollà…// Il grillo disse: che cosa ne vuoi fare?/ La formicuzza: mi devo maritare…/ Lariciumbalalirollero lariciumbalarilillà… // Il grillo disse: lo sposo sono io!/ La formicuzza: e son contenta anch’io!/ Lariciumbalalirollero lariciumbalarilollà…// Giunse il tempo di scambiarsi l’anello,/ il grillo cadde e si ruppe il cervello…/ Lariciumbalarilollero lariciumbalarilollà…// La formicuzza dal grande dolore,/ con la zampuzza si trafisse il cuore…/ Lariciumbalarilollero lariciumbalarilollà… Non era una storia a lieto fine, ma aveva un ritmo brioso e a me piaceva cantarla, soprattutto quando la cantavamo insieme. Io e mamma. Era bello stare con lei. Era bello stare con tutti noi. Tenerezza. Leggerezza. Allegria. A me piaceva sussurrare Nel 1919/ vestita di voile e di chiffon… e la dedicavo a mamma, quasi la canzone parlasse di lei, nata appunto, nel 1919, e ci scambiavamo occhiate d’amore. Anche mamma amava cantare “Il tango delle capinere” con la sua “ronda del piacere”; “Eulalia Torricelli da Forlì”, che aveva tre castelli e gli occhi belli; “Lilì Marlen”, col suo innamorato che ogni sera l’aspettava “sotto quel fanal”; “Signorinella pallida” e il suo disincantato ma pur sempre nostalgico notaio; “Come pioveva” ed entrambe ci sentivamo commosse da quel “c’eravamo tanto amati per un anno o forse più…”, e… “Signorina Maccabei,/ venga fuori dica lei/dove sono i Pirenei?”/ “Professore,/ io non lo so,/ lo dica lei”, e mi sembrava una impossibile ribellione all’indiscussa autorità degli insegnanti…

Spesso univamo insieme le nostre voci, diverse ma abbastanza intonate

(tə sì fàttə ‘na vèsta scəcullàtə/ cu cappiéllə ch’e frònnə e cò e rósə/ stìvə ‘mièzzo a tre quàttə sciantó sə/ e parlàvə o francése accussì/ fùjə l’atriérə ca t’àggə ‘ncuntràtə/ fùjə l’atriérə a tòlédo gnorsì…// àggə vəlùtə bbéne a té tu è vəlùtə bbéne a mé/ mò nun c’amàmmə chiù/ ma e vótə tu/ distrattamèntə piènzə a mmé…// réginè quànnə stìvə cu mmìchə/ nui magnàvəmə pànə e cəràsə

e quella reginella, che mangiava pane e ciliegie, mi cantava languidamente nel cuore).

Più tardi le avrei cantate anche in pubblico, con alterne vicende: c’erano canzonette che mi riuscivano molto bene e la gente applaudiva, ma alcune volte improvvidamente mi cimentavo con l’Ave Maria di Schubert o di Gounod e mi avventuravo in alcune arie della Traviata o della Norma o dell’Elisir d’amore e allora erano guai: gli acuti erano rochi ululati che si confondevano con il mormorio di disapprovazione dell’improvvisato uditorio.

Capii che non sarei mai diventata una cantante quando tu, mia amatissima Anna Maria, cominciasti a gridare a tutta voce i canti popolari del Salento, terra di passioni infuocate che il vento sparpagliava tra gli ulivi e portava a morire sul mare. E urlavi divinamente (uè nannaunannìinannéra uè nannaunannìinànnaà…). E più tardi cominciasti a scrivere e a cantare le tue canzoni, vere e proprie poesie appassionate, con una voce graffiante, bellissima.

Ma già è un altro luogo, un’altra storia ed io ho ancora tanto da raccontare sul paesino dauno in cima al cocuzzolo della montagna, dove ben presto io e te bambine stringemmo un patto di alleanza che è durato per tutta la vita. A presto. Lina