domenica 29 gennaio 2023

Domenica 29 gennaio 2023: GJEKE MARINAJ e GERMAN ROJAS: due grandi poeti-eroi e una storia in comune...

E oggi vi voglio raccontare una bellissima e vivificante/edificante storia, che vede protagonisti due miei preziosissimi amici, lontani dalla mia terra ma sempre presenti nel mio cuore: Gjeke Marinaj di cui ho già tanto parlato qualche mese fa e Germàn Rojas, che insieme al nostro comune amico del cuore Nico Mori, ha avuto spazio nel nostro blog ma non quanto merita.

Oggi provvedo a ristabilire gli equilibri. Entrambi, Gjeke e Germàn sono poeti, scrittori, saggisti, giornalisti. Figure molto importanti nel loro Paese d’origine: Albania per Gieke Marinaj, Cile per Germàn Rojas.  Entrambi sono oggi conosciuti e apprezzati in tutto il mondo per i loro meriti poetici, socio-politico-culturali, per i loro interventi umanitari in favore della giustizia, dell’uguaglianza, della solidarietà tra gli uomini di tutte le nazioni e di tutti i credi, della Pace. Ma le loro storie personali sono molto più complesse e degne di essere raccontate nel loro intreccio a distanza.

Sintetizzo la storia dell’uno e dell’altro per una comprensione più ampia dei nostri due “EROI”.

Gjeke Marinaj, albanese di nascita (26 maggio 1965), giovanissimo dovette abbandonare la sua patria perché il 19 agosto di più di trent’anni fa aveva avuto il coraggio e l’ardire di pubblicare su un giornale locale una poesia “CAVALLI”, che immediatamente rimbalzò, con una eco senza fine, su <Drita>, il Quotidiano albanese di cronaca a carattere nazionale.

A una prima lettura, ai più sembrò una semplice poesia in difesa degli animali e, in particolare, degli stupendi cavalli dallo sguardo fiero e dalla cavalcata elegante e maestosa, purtroppo in cattività. In realtà, si trattò di una feroce satira politico-socio-culturale da parte di quel ragazzo ribelle in difesa del suo popolo. Fu, dunque, un coraggioso atto di audace (e forse un tantino incosciente) ribellione contro il regime comunista da parte di un venticinquenne poeta e giornalista non ancora famoso. Gli Albanesi, infatti, allora rimasero increduli, ma in poche ore comprarono tutte le copie del giornale. Molti si affrettarono a scrivere quei versi su pezzettini di carta per diffonderli dappertutto, fino a farne un inno di protesta durante le numerose manifestazioni antigovernative, che di lì a poco si accesero come fuoco controvento per incendiare cuori e volontà. In breve Gjeke Marinaj divenne l’eroe dell’Autonomia e della Libertà Albanese. Ma, fu costretto (e personalmente determinato) a fuggire di notte per evitare il rischio tangibile di essere impiccato come altri poeti dissenzienti prima di lui. Non più l’eroe di una fiaba a lieto fine, ma l’esule di una storia vera in un nuovo percorso difficile e tortuoso quanto solitario e disperato, tra genti straniere. Nella ex Jugoslavia prima e negli USA più tardi, non appena si presentò l’occasione di mettere una notevole distanza tra il suo vecchio mondo e il nuovo. Qualche volta, però, anche la storia offre ai suoi ardimentosi protagonisti un lieto fine. Gjeke incontrò Dusita, una bellissima fanciulla, e con problemi di espatrio più o meno identici ai suoi. Ben presto, innamoratissimi l’uno dell’altra, si sposarono e andarono insieme lontano, dove vissero notevoli difficoltà di adattamento, di apprendimento della nuova lingua, l’inglese, di comportamenti legati ad una diversa cultura. Ma l’amore compie miracoli.

E Gjeke Marinaj è oggi docente di Inglese e Comunicazioni all’Università di Dallas nel Texas, poeta raffinato e conosciuto in tutto il mondo, Ideatore e Fondatore della Teoria filosofica e filantropica del Protonismo in Letteratura e non solo, divenendo meritatamente l’Ambasciatore di Pace tra tutti i Popoli del nostro Pianeta.

Ed ecco la poesia “CAVALLI”, che ci permette di comprendere appieno il messaggio di Gjeke e il suo ardimento.

Per tutta la nostra vita siamo in viaggio,/ Guardando sempre avanti,/ Quel che c’è dietro di noi Abbiamo paura di saperlo./ Tutti noi non abbiamo che un nome,/ Cavalli, ecco come ci/ Chiamano./ Senza piangere,/ Senza ridere,/ In silenzio,/ Ascoltiamo,/ Mangiamo quel che ci danno,/ Andiamo dove ci dicono,/ E nessuno di noi è una gran testa./ Chi era il cavallo di un re/ Aveva il grado più alto;/ Chi era il cavallo di una principessa/ era sellato d’oro;/ Chi era il cavallo di un  contadino/ Era sellato di paglia;/ Chi gli disubbidiva/ Dormiva sempre all’addiaccio:/ Ma con gli umani, sempre/cavalli restiamo!

Stupendo inizio con un “Per” che indica già di per sé un avvio in movimento, riguardante il “viaggio” di tutta “la nostra vita” con la determinazione a raggiungere la propria meta. Ognuno dovrebbe   prefiggersi uno scopo, una missione che dia senso a tutto il viaggio. Ma la realtà è diversa. È possibile stabilire la meta se non si ha paura del passato, che è un possibile futuro capovolto: è dalla esperienza vissuta da noi e dai nostri antenati che occorre ripartire per continuare sul loro esempio oppure ribellarsi alla tradizione e al silenzio e rinascere e realizzare un futuro migliore. Il timore di ricordare un passato difficile diventa ostacolo alla costruzione di un futuro diverso. Ed ecco il disvelamento: i protagonisti di questi versi, che urlano al cielo una storia amara di soprusi, non hanno un nome: sono semplicemente cavalli. Animali eleganti, nobili e fieri nel loro andare, ma non in questo caso. I due anaforici quanto suggestivi versi che seguono, brevi come uno sperdimento, definiscono un vuoto, una deprivazione: “Senza”. Senza piangere/ Senza ridere. A questi cavalli non è concesso avere lacrime o risate. Ossimoro meraviglioso ad indicare la gioia e il dolore: i punti estremi di ogni sentimento, in cui si snoda la vita della mente e del cuore di ciascun essere umano. Al nulla che il “Senza” definisce segue l’inevitabile silenzio dell’asservimento. Piegata/piagata è la volontà di reagire. Il silenzio, in questo caso, non prelude al rumore del mondo o alla parola di ribellione o al canto della sfida e della vittoria. E neppure alla preghiera di gratitudine e di ringraziamento. Qui anche il silenzio è assenza di qualcosa di vitale che indica movimento e pensiero, libertà di essere e di andare lontano per perseguire la meta e realizzarsi. Qui c’è solo un chinare la testa al volere altrui, del più forte, di chi esercita il Potere con coercizione e violenza. E impedisce di pensare. È concesso solo di eseguire compiti con mezzi e ruoli diversi, ma estraniandosi da sé per assecondare il potente di turno, fosse un re o una principessa. Ed ecco che improvvisamente i versi scoprono i verbi all’imperfetto. Il presente cede l’azione a un passato senza tempo, al “c’era” delle fiabe, che a volte sanno essere crudeli e non assicurano il lieto fine, se non dopo la fuga e l’allontanamento del protagonista con relativa sfida e combattimento contro l’antagonista, fino alla sua morte. Il primo (il re) consentiva al cavallo di avere un “grado più alto” nella sua schiavitù, e la seconda (la principessa) di mostrare “una sella d’oro” e fingere una ricchezza mai posseduta. Ma c’era anche il cavallo del contadino che era “sellato di paglia” e, se disubbidiva, veniva mandato fuori a morire al freddo e al gelo. E qui d’improvviso il tempo del verbo cambia nuovamente: il “c’era” diventa presente e attualizza la condizione di schiavitù dei cavalli. Questa poesia, dunque, non è una fiaba e non può avere un lieto fine se l’ultimo verso si copre di amara verità, di spietata rassegnazione: “ma con gli umani sempre cavalli restiamo!”. E il punto esclamativo sancisce il “grido di dolore” del poeta di fronte ad una realtà che urla la disumana condizione di “asservimento dei “cavalli”, suoi compatrioti, al potere del Regime comunista nella sua amatissima patria, l’Albania.  

A lui va ancora oggi il mio grazie per il suo esempio di coraggio, determinazione, amore: Inno anche alla bellezza e alla efficacia della Parola.    

Germàn Rojas è nato in Cile nel 1950. Ha un po’ di anni in più di Gjeke, ma una storia identica di sopraffazioni e ribellioni alla Dittatura dopo la caduta di Salvador Allende. L’11 settembre del 1973 (Germàn, dunque, aveva 23 anni) le forze armate cilene fecero un colpo di Stato contro Allende, che morì suicida per non arrendersi ad Augusto Pinochet che prese il Potere.

Germàn fu, come oppositore alla dittatura di Pinochet, rinchiuso nel carcere cileno di Antofagasta il 13 gennaio del 1974; poi, espulso dal Cile, fu esule in molte nazioni, tra cui la Norvegia, dove fece l’operaio, la Francia e, infine, approdò in Italia, a Roma in qualità di Funzionario della FAO. Venne, in quello stesso anno per alcuni mesi a Bari, dove l’ho conosciuto in seguito al Concorso di Poesia “Vittorio Bodini” (1987), nella cui giuria ero presente anch’io. La sua silloge di poesie Maria - Maria meritò il Primo Premio, perché incantò tutti i giurati per la musicalità della parola e per il contenuto d’amore (profondamente fluviale come in Neruda) per la sua donna, sintesi di tante donne e di una sola, che incarnava anche la terra lontana, ricordata con nostalgia, canto e rimpianto.  

Ecco della silloge alcuni versi: … Non è né dio greco né asteroide magico,/ è semplicemente un nome di donna,/              Maria,/ nome di donna due volte,/            Maria-Maria./ Chi è la mia due volte Maria?/ Credo che non sia importante saperlo/ perché nemmeno io lo so con certezza./ Maria-Maria è una,/        è varie,/       è tutte,/ tutte, quelle che lasciarono la loro impronta nella mia anima,/ varie, quelle che ho conosciuto qui e là/ in lunatici incontri della mia vita di luna,/ una, quella che mi ha accompagnato sempre,/   quella che mi sfugge tra le dita,/   quella che mai ho posseduto,/   e quella che cerco disperatamente e mi si nega./ Maria-Maria è lei…

Questa poesia, una emozione. Maria-Maria, due volte Maria, come si usa in Cile per indicare un amore a doppia mandata. La persona più cara. La più importante. Quella annidata nel cuore. La donna-presente-passato-futuro, madre-figlia-amante-tutto. Esplosione d’amore e fede certa in lei.  La donna di sempre e di mai. Di tutte le attese e di tutti i dolori. Volo di lacrime e tenerezza. Donna due volte. Una-tante-tutte. Compagna della vita, nella vita, per la vita. Donna stellare. Di terra. Di mare. Guscio immenso a contenere la forza fragile di un uomo, il suo coraggio di poeta che canta il nero del carcere e dell’esilio e il verde della giada profonda e chiara degli occhi di Maria. La vera. La sola. Orizzonte di terra promessa. Sogno dimenticato e ritrovato. Realtà attesa. Maria, fonte e riva di poesie. Canto. Volo di quel gabbiano che Rojas si porta nel cuore. E altro, altro ancora… Emozione. Naturalmente ho sintetizzato non solo questi pochi versi ma tutto il poema in cui Germàn unisce il suo canto al canto del suo popolo, la sua donna alla sua terra, la libertà del suo amore alla libertà agognata della sua patria in catene. Splendido canto dell’anima.

Ma alle mie parole desidero aggiungere quelle di Nico Mori, nostro indimenticato amico, nella carezza della sua sensibilità altissima di uomo, poeta, scrittore: C’è una musica nei versi di Germàn intensa e incalzante, tumultuosa e languida, che ha sapore di sangue e profumo di fiori e trascina, indietro e avanti nel tempo, per labirinti di antichi misteri e insolute magie. C’è un suono nero di campane che piangono solitudine e ingiustizia ma lanciano fin sulla luna voli di variopinte farfalle. E l’ombra aspra di radici strappate direttamente alla carne che segnano solchi di planetarie ferite. E il canto puro e allegro di bambino che innalza alle stelle azzurri castelli di sassi. E Maria-Maria che, con occhi di mare e capelli di fiume, traccia nell’anima iridati sentieri.

C’è, come è facile notare, una possibile giustapposizione tra Maria-Maria di Germàn e Dusita di Gjeke. Entrambe sono il cuore del canto dei due poeti, l’intreccio nostalgico alla propria terra d’origine.

Ma oggi, mentre Gjeke Marinaj vive, con la sua donna nel Texas e fa rari ritorni in Albania per riabbracciare la sua vecchia madre e tutti i suoi cari, Germàn Rojas, è tornato in Cile, dove vive circondato dall’affetto, l’ammirazione, l’amore dei suoi cari e dei tanti amici e gente comune che vive nel ricordo dei bui giorni lontani in cui Germàn fu fiaccola di salvezza. Oggi ricopre nella sua Patria un ruolo di primo piano che lo porta a viaggiare molto in tutto il mondo e soprattutto nel Nord-Europa per incarichi di grande prestigio all’insegna della solidarietà e della Pace per l’umanità intera. Ha vinto numerosi e prestigiosi premi come poeta e come artista. È rimasto fraterno amico di Nico Mori, e della sua famiglia, Tea, Manuela, Alberto, ora che Nico non c’è più fisicamente tra noi. Con lui ha condiviso una fede politica ormai in disuso, ma tenuta viva nel proprio cuore per sentire ancora il palpito di un credo. L’amico giusto, con cui parlare di sogni e di illusioni, di ideali di libertà e clamorose sconfitte del pensiero libero in un mondo di “pensiero unico”. L’amico, segnato come lui nel corpo e nell’anima, sia pure per motivi e tempi diversi. L’amico più volte perduto e ritrovato sotto altri cieli, altre identità, e un solo progetto identitario per entrambi, nonostante gli anni e le distanze geografiche: diventare “pescatori di meraviglie”.

Nell’ultima opera in prosa I PESCATORI DI MERAVIGLIE di Nico, pubblicata con la SECOP nel 2019, alcuni anni dopo il libro Al confine di me, che Peppino Piacente, mio genero e editore della Secop, volle pubblicare per sollecitare Nico alla scrittura dopo oltre un decennio di silenzio, Germàn scrive: Caro Nico (…) Non lasciarci senza la tua parola, senza i tuoi sogni, senza la tua folle geografia italica, senza il tuo mare, senza la tua tenerezza. Vai oltre i “confini di te”, con tutta la forza che hai, non fermarti, non spegnerti. (…) Tu in quanto navigatore esperto (proprio come io sono un marinaio di terra), sai molto bene che i nostri confini sono come l’orizzonte, che, non importa quanto e come possiamo provarci, non riusciremo mai a raggiungere. I nostri confini sono come l’utopia alla quale non rinunceremo mai. Perché tu ed io siamo l’orizzonte e, insieme, noi siamo l’utopia. Pescatori di meraviglie, ricordi? A costo di annegare nei mari della luna. Ti abbraccio con l’immenso affetto di un fratello. Germàn  

E non ci sono più parole. Germàn Rojas è tornato in Italia, con una nuova compagna, prima di Natale per un avvenimento lieto riguardante una sua figliola che vive e lavora a Roma, e ha voluto incontrare a Bari tutti noi, gli amici più cari lasciati in Italia, in primis Manuela Mori, l’amatissima figlia di Nico, me, mia sorella Anna Maria, indimenticata e graffiante voce con “chitarra incorporata” del gruppo di poeti di allora, Gianni, suo attuale marito e bravo scrittore anche lui, mia figlia Raffaella con Peppino… Ci ha lasciato con una promessa: che tornerà in Europa e in Italia  più o meno in primavera. E io nutro il sogno che ci si incontri ancora tutti quanti. Abbiamo ancora tante “meraviglie” da condividere per poter continuare a sognare e a progettare insieme. Nico con noi sempre.

Ma il sogno ancora più grande è sperare che anche Gjeke Marinaj, torni in Europa per andare a riabbracciare i suoi cari in Albania e faccia una deviazione in Italia giusto in tempo per abbracciare Germàn Rojas, perché due “EROI” si riconoscono nello sguardo a specchio della loro anima e sono tali per sempre anche per tutti noi. Angela

 

 

 

1 commento:

  1. Angela, che dire? Tu ci erudisci e stupisci con i tuoi bei "racconti" di vita e poesia, e con questo ci apri i confini di molti luoghi del cuore e del Mondo.

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