Kafka sostiene che “un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi…”. Questo poemetto mi sembra possa avere la stessa funzione, a partire da quello che, per alcuni versi, potrebbe servire all’Autore stesso, che non ha un mare di ghiaccio dentro, ma una pessimistica visione della vita che non fa certo bene allo spirito. Tutti i versi che seguono “si aprirono crateri/ di fuoco in ogni angolo/ di quella perla morente…” sono, a mio parere, apofonici e si prolungano anche nella sestina seguente che contiene azioni dovute alla volontà inespressa dell’angelo di realizzare la devastazione totale per via di un cataclisma naturale. In realtà voluto dell’angelo stesso che ha deciso di mettere in atto la sua ultima ribellione a sé stesso ormai inutile vagheggiatore di una passione senza più corrispondenza col turbinio dei sensi del passato, e contro dio che così ha decretato: persino il mare “si allontanò dalla riva”; il mare, unica via di fuga forse verso l’apparente “libero arbitrio” o verso la libertà di ESSERE, cercata ad ogni costo come unica via di salvezza. E tutto si fa distruzione per poter su quel vuoto costruire il proprio disincanto. Anche la campana, ultimo baluardo della fede, si abbatté su “una pianura/ di cristalli spezzati,/ vibrò il suo ultimo/ rintocco e si spense”. La campana crolla su “cristalli spezzati”: ancora una metafora bellissima dell’apparente primigenia innocenza adamantina del genere umano, ora in frantumi… E “vibrò” e “si spense” formano un nuovo ossimoro molto forte a indicare il fragore dell’insolito evento e il susseguente silenzio “su una pianura di cristalli rotti”. Gianni Brattoli va oltre il Libro di Enoch, che parla della caduta degli angeli ribelli sulla terra senza avere più la possibilità di tornare al Cielo, perché si mescolarono agli uomini per portare il Male sul nostro pianeta e nell’intero universo. Il poemetto, invece, si conclude con il totale incenerimento persino del mito e della leggenda che resero gli uomini eroi per emulare gli stessi dèi e immortalarsi. Le ultime strofe raccontano un nuovo e antico mito: la trasformazione in roccia dell’angelo e dell’arcangelo abbracciati nella loro solitudine senza volto e senza nome. Ma “la roccia si trasformò/ in sabbia;/ la sabbia si trasformò/ in cenere; la cenere avvolse tutta/ la terra come un sudario”. Ancora una volta un’espressione che ci riporta alla morte di Cristo, ma con un intento completamente diverso, di annullamento totale: “il sudario prese lo stesso/ colore dell’inutile/ infinito”. Nietzsche in agguato col suo perverso e pervicace nichilismo, dove è “inutile” persino l’infinito e, dunque, oltre il pessimismo cosmico di leopardiana memoria. Ma Gianni ha sempre affermato che il suo è puro realismo: fotografa ciò che vede e sente della nostra umanità alla deriva e senza più possibilità di salvezza, soffocata com’è dalle spire di una piovra che nasce dai super-poteri di chi governa il mondo ormai: il dio-denaro. Gianni Brattoli si rivela, dunque, uomo d’altri tempi che precorre i tempi, riportando in vita il nichilismo nicciano, già ripreso da Umberto Galimberti ne L’ospite inquietante (Feltrinelli, 2008). Ma, mentre quest’ultimo si riferisce soprattutto ai giovani e alla mancanza di senso nella vita, che essi avvertono priva di ancoraggi valoriali del passato e di prospettive salvifiche per il futuro, per cui Galimberti fa un appello accorato ai genitori, alla scuola e a tutti gli educatori per evitare, con tutte le strategie possibili, tale annullamento di senso, Gianni Brattoli lo ripropone fino al totale annientamento, trasformando il suo pensiero e la sua scrittura in conformità del modo di essere, di comportarsi, di scrivere proprio dei giovani poeti e scrittori del nostro tempo. Il suo componimento poematico ne è una chiara dimostrazione. E ciò onestamente mi disorienta non poco perché ritengo, con Galimberti, che dovremmo essere noi anziani a trasmettere ai giovani nuova fiducia nel rinnovamento dei tempi alla luce della creatività e della speranza. In Gianni non succede. E ci lascia con un componimento di notevole bellezza letteraria, ascia che colpisce al cuore, ma senza possibilità di redenzione. Mi piacerebbe davvero leggere e confrontarmi con le vostre emozioni di rimando per riprendere a riflettere sul riverbero della nostra personalità di fondo sulla nostra scrittura. Il famoso punto di vista che distorce notevolmente la nostra visione della realtà. Si potrebbe pensare, in futuro, ad una tavola rotonda con dibattito a più voci su questi temi davvero scottanti. Ma, intanto, vorrei ascoltare il vostro parere anche dissonante dal mio. Sono sempre pronta ad accogliere e a far tesoro della pluralità di voci che sempre diventano fonte arricchente di riflessione, di cambiamento, di miglioramento per noi stessi e per gli altri. E, nell’attesa, vi propongo, a mo’ di utile corollario alcuni vostri commenti e poesie. E parto da una poesia di Maria Pia Latorre “Alla fermata” (da L’Enigma dei Crochi, Tabula fati, 2020): Di scatto si apre un oblò/ si entra nel tunnel dei contatti/ Il ragazzo coi pacchi/ la donna col lecca lecca/ l’uomo col sigaro/ VIETATO FUMARE/ Piedi pestati/ afrore di sudore olente/ paura di soffocare/ si arranca per respirare/ nell’aria senza spazio/ si comprimono corpi e pensieri/ esperienze s’incrociano/ si sfiorano/ si urtano per un attimo/ “Mio padre è morto-Devo pagare la bolletta della luce-Ho bisogno di una dose-Dio dove sei?”. In un autobus tutta l’umanità dolente e umiliata nelle sue miserie psicofisiche, nelle sue povertà materiali e spirituali, nel suo eterno dubbio sulla presenza, onnipotenza, misericordia di Dio. Molto vicina alla poesia di Gianni, penso. Poi, alcuni versi di David la Mantia: Ci sono morti che muoiono/ ogni volta che li ricordi,/ quando li osservi al microscopio,/ mentre ne rallenti i gesti. E tanti/ altri che rivivono ogni volta/ che ridono di noi, quando sollevano/ i nostri aquiloni senza vento. Anche qui Gianni Brattoli ha fatto centro. In maniera più soft, più lieve, ma quanto profonda a scavare nei sentimenti più intimi di una terra di tutti e di nessuno, dove palpita un ricordo che non è più neppure tale, dove noi rigettiamo i morti, “osservati al microscopio” per i loro comportamenti che non amiamo, e dove sono i morti che ci umiliano con la loro risata beffarda per i nostri aquiloni privi di vento, oppure ci tengono compagnia per consolarci dei nostri sogni sconfitti e insufficienti a darci le ali… E Mattia Cattaneo: guardarti/ senza l’ardire del silenzio/ e l’irascibile cielo/ che sotto le dita/ saluta la versione inesatta/ della tua sazia solitudine.// ho un mare sconnesso/ senza porto felice/ il mondo/ diventa un coma sfinito. Ancora una volta ritrovo anche in Mattia non solo vicinanza con il contenuto del poemetto di Gianni, ma persino la struttura formale dei versi con gli enjembement a dare spazio alle parole a fine verso e continuità al pensiero, mentre un “irascibile cielo” incombe sulla “sazia solitudine” del poeta in un “mare sconnesso/ senza porto felice/ il mondo/ diventa un coma sfinito.” Anche Mariateresa Bari mi lascia una poesia che si fa redenzione solo attraverso la parola, che pure si risolve in ansia di perfezione che annega nel dolore del dubbio, dell’incertezza, della mai spenta sete di sfiorare le stelle o di trovare consonanze, tra “labbra serrate” nell’incontro senza voce, e scoprire una musica dolce a scaldare il cuore. “Cercavo un faro” è il titolo della poesia: Cercavo il suo sguardo/ sotto il velo diafano della luna/ nella carezza di un riflesso/ faro sul mare della mia pelle./ Millenni di cammini/ nell'osare il sublime/ inafferrabile/ Che s'impolvera di stelle e sfugge/ Nell'afono incontro di labbra serrate/ è croce che interroga la poesia Poi, per fortuna, due poetesse, care al mio cuore perché sempre presenti e sempre propositive sia pure con modalità diverse, Elina Miticocchio e Rita Vecchi, aggiustano il tiro e finalmente respiriamo un refolo di vento di buoni propositi per un tempo migliore, aggrappato alle parole da assaporare lentamente per non perdere neppure una sillaba della loro salutare carezza. Per Elina si tratta della parola poetica, profonda e vera, in tanto inutile frastuono di voci senza senso: vorrei recuperare le parole lente/ quelle scivolate nel palmo della mano/ e far cessare tanto fragore/ che poi non porta a niente/ Aprirmi a me per fare primavere/ e giocare una pioggia di stelle/ oppure una luna di mattina/ che piano al sole scolora Ed è già un desiderio di rinnovate primavere del cuore e di nuovi sogni portati a pioggia dalle stelle cadenti, oppure di un’alba di luna che preannuncia un giorno chiaro… Per Rita si tratta di qualcosa di nuovo già respirato di per sé “in un angolo di pensiero”. E anche qui si tratta di un desiderio vivificatore, riposto “su righe di parole/ sconosciute”. Non a caso tornano le parole a ridonare gioia e una commossa, commovente serenità. E, non a caso, questa sua poesia si intitola “INSOLITA”: Rincantucciarmi ancora/ in un angolo di pensiero,/ rifugiarmi in un frammento/ sfuggito da un sogno,/ respirare nella gioia/ di una nota di seta./ E poi/ fuggire scalza/ su righe di parole/ sconosciute/ e perdermi./ Io,/ che non ho mai scritto/ singhiozzando/ così vistosamente. Pian piano, come si può notare, ci rimettiamo sul sentiero fiorito che porta alla ricerca della felicità… in frammenti di POESIA. Alla prossima!
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