5 minuti con poesia: “Il retino delle parole” - I incontro: reti e retino.
Ieri sera ho vissuto con inspiegabile emozione il primo
incontro online con quanti hanno il piacere di leggere i miei libri e mi
seguono su Facebook. Inspiegabile, perché non è la prima volta che mi capita di
“andare in diretta”, eppure ieri ero proprio fuori fase ed ora, dopo una notte
insonne, tento delle ipotesi: ieri pomeriggio mi si ruppe lo specchio mentre mi
restauravo, per non sembrare una vecchia cariatide quale sono? Sempre ieri
pomeriggio, un gatto nero con gli occhi gialli s’impossessò del giardino
fissandomi a lungo con aria di sfida? Una cornacchia venne a gracidare sul
muretto che separa il nostro spazio vitale da quello del vicino di casa?
Sarebbero dei validi punti di domanda se non fosse che non sono superstiziosa, che amo i gatti neri con gli occhi dorati e che le cornacchie mi mettono di buonumore per il loro grido roco di protesta perché il loro canto non allieta nessuno per quanti sforzi facciano poverine! E allora?
Provo a cambiare rotta. La verità è che mi sono lasciata prendere dall’“ansia da prestazione” perché, conoscendo la mia logorrea se vengo lasciata libera di parlare, avevo deciso di scrivere il mio primo intervento (cronometrato) per non andare oltre i 5 minuti concessimi. Abbiamo fatto anche più volte “le prove tecniche di trasmissione” (mancavano solo le pecorelle della TV 1956) per aggiustare, di volta in volta, il tiro con la pausa giusta, la giusta intonazione, il giusto ritmo per dire tanto in soli 5 minuti 5: io leggevo di “rete e retino” e Nicola, il mio amatissimo e pazientissimo nipote tuttofare, registrava con la clessidra rovesciata. E anche il suo pollice mi dava l’ok o lo stop. E così, prima di andare in onda, ho sistemato per bene i fogli sul tavolo, facendo, come si è sentito dopo, un fracasso del diavolo, mentre mi caricavo di ansia sempre più, sentendomi ingessata e imbavagliata da quei fogli che avrebbero dovuto darmi il tempo giusto. Che mi è sfuggito di mano come pure le parole sul foglio che vanamente inseguivo e non riuscivo più ad afferrare perché un minimo di benvenuto a modo mio dovevo pur darlo. Con un sorriso almeno. Una battuta estemporanea e tutte le cavolate che mi sono venute in mente senza più arginare, misurare, chiarire sinteticamente ma efficacemente il tutto. Un disastro, mentre Nicola mi faceva stringi stringi con il pugno che si apriva e chiudeva nel mio cervello in tilt. È andata così.
Sarebbero dei validi punti di domanda se non fosse che non sono superstiziosa, che amo i gatti neri con gli occhi dorati e che le cornacchie mi mettono di buonumore per il loro grido roco di protesta perché il loro canto non allieta nessuno per quanti sforzi facciano poverine! E allora?
Provo a cambiare rotta. La verità è che mi sono lasciata prendere dall’“ansia da prestazione” perché, conoscendo la mia logorrea se vengo lasciata libera di parlare, avevo deciso di scrivere il mio primo intervento (cronometrato) per non andare oltre i 5 minuti concessimi. Abbiamo fatto anche più volte “le prove tecniche di trasmissione” (mancavano solo le pecorelle della TV 1956) per aggiustare, di volta in volta, il tiro con la pausa giusta, la giusta intonazione, il giusto ritmo per dire tanto in soli 5 minuti 5: io leggevo di “rete e retino” e Nicola, il mio amatissimo e pazientissimo nipote tuttofare, registrava con la clessidra rovesciata. E anche il suo pollice mi dava l’ok o lo stop. E così, prima di andare in onda, ho sistemato per bene i fogli sul tavolo, facendo, come si è sentito dopo, un fracasso del diavolo, mentre mi caricavo di ansia sempre più, sentendomi ingessata e imbavagliata da quei fogli che avrebbero dovuto darmi il tempo giusto. Che mi è sfuggito di mano come pure le parole sul foglio che vanamente inseguivo e non riuscivo più ad afferrare perché un minimo di benvenuto a modo mio dovevo pur darlo. Con un sorriso almeno. Una battuta estemporanea e tutte le cavolate che mi sono venute in mente senza più arginare, misurare, chiarire sinteticamente ma efficacemente il tutto. Un disastro, mentre Nicola mi faceva stringi stringi con il pugno che si apriva e chiudeva nel mio cervello in tilt. È andata così.
Ma la mia pervicacia non ha limiti quando devo difendere
l’indifendibile. Quando devo chiarire posizioni scomode che segnano le mie
sconfitte. In tutto ciò, infatti, ho a cuore quanto scritto su “rete e retino”
per motivare a dovere la mia scelta per la rubrica “Il retino della parola”. E
il tutto, se cronometrate, si riduce a 5 minuti 5.
“Già ho motivato,
nell’invito ad incontrarci, il significato di “rete” che è alla base della
scelta del mio “retino”: La rete è un intreccio di fili annodati fra di loro a
maglie più o meno fitte e richiama la funzione di catturare, ma si associa
anche a quella di insidiare, nel senso di irretire, far cascare nella rete. Ed
è, per estensione, anche qualsiasi intreccio di vario materiale con forma
diversa, secondo lo scopo a cui è destinato. La rete di ferro dei letti antichi,
per esempio. La rete di polietilene (plastica) della porta che un portiere deve
difendere negli stadi. La rete di protezione di vario metallo a sostegno di
siepi, che delimitano i parchi delle città o i giardini delle ville in
periferia o in campagna.
E, purtroppo, mi
viene in mente anche la rete con filo spinato a ingabbiare i circa 15.000
bambini ebrei, vittime della Shoah a Terezìn. O in Palestina, in terra di
nessuno.
Ma essere in rete è
oggi riferito pure al mondo della comunicazione multimediale: internet e i vari
social, raggiungibili anche con il tablet o il semplice nostro cellulare. Qui
la rete ha il senso bellissimo di navigazione, ma anche del perdersi in
linguaggi poco praticati o praticati male, soprattutto da chi è anziano come me.
Linguaggi, che bisogna imparare a conoscere per non ritrovarci
irrimediabilmente confinati in un passato che non esiste più. I più giovani,
invece, devono imparare a “dominarli” con discernimento.
Il retino, invece,
ha maglie talmente fitte e spazi d’azione così brevi da potermi fare catturare,
l’ESSENZIALE, quello che non può essere perduto, ciò che rimane e diventa
importante: col retino, per esempio, posso inabissarmi nel mare delle parole per
ritrovarmi a pelo d’acqua in un racconto o un romanzo; oppure posso perdermi nel
bosco delle lucciole, che racchiudono le stelle di un cielo capovolto nelle
siepi e tutto si fa poesia.
Ma oggi non si può
andare al mare né ci possiamo perdere in un bosco a raccogliere lucciole. È
tempo di covid e il mondo è talmente minaccioso da costringerci a guardarlo
protetti dalla nostra casa, magari mai stanchi di osservarlo da dietro i vetri
delle nostre finestre. E qui la solitudine ovattata e silenziosa ci fa
catturare altre parole, altre stelle. Ci offre la possibilità di ripescarle nei
ricordi, magari guardando vecchie fotografie conservate in alcuni album del
tempo che fu o in cassetti più o meno dimenticati.
E allora, oggi, mi
piace partire proprio da una parola che è rimasta bloccata nel mio retino:
FINESTRA.
Sono tanti i nostri
libri che si affacciano dalle finestre per prendere il volo…”.
Cronometrato? Ci stava tutto nei 5 minuti a ritmo sostenuto.
Avrei sforato per dire ciao, a venerdì 27. E invece sapete come è andata. Beh,
ci riprovo al prossimo incontro, dove parlerò appunto di FINESTRE. Ma senza più
foglietti, andando a braccio perché credo presuntuosamente che mi riesca meglio.
A venerdì, spero. Mi rimetto, senza più possibilità di presunzione, alla vostra
clemenza e al vostro affetto… Ciao.
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