Metto insieme i frammenti di noi due per parlare di te. Ho bisogno di parlare di te con te. Ho un bisogno viscerale di partire dal tuo primo giorno di vita.
Babbo tornò dalla
prigionia a maggio del ’46 e il 3 febbraio del ’47 nascesti tu, Anna Maria, la
terza figlia che, per fortuna, non deluse più di tanto le sue attese del figlio
maschio perché eri talmente bella da far dimenticare tutto il resto e rapisti
immediatamente il cuore di tutti. Io e Lizia, durante il parto, eravamo state
accompagnate da nonno Mincuccio alla casa, sempre accogliente, di zia Maria e
zio Michele, fratello unico e adorato di nonna Angelina, la mamma di mamma. Al ritorno,
tu eri lì, tra le braccia di mamma, cuffietta rosa di morbida lana e due occhi immensi
che brillavano come stelle rubate al cielo. Eri la nuova “figlia dell’amore”,
dopo quattro anni di lontananza e di attesa che babbo tornasse dalla guerra. Ma, dopo il parto e alcuni mesi in
casa dei nonni, babbo tornò a prendervi, lasciando Lizia e me dai nonni perché
non rimanessero soli, abituati come erano alla nostra affettuosa presenza.
Prima di Natale, però,
faceste ritorno per trascorrere insieme le feste. E mamma rimase ancora per
alcuni mesi con noi, che spiavamo ogni tuo sorriso. Poi, con te, andò di nuovo via. A fine aprile
del 1948, però, tornò nuovamente nella casa di via Maggiore con i tuoi primi
gorgheggi e i tuoi primi passi alla scoperta del nostro “piccolo mondo”. Insieme
trascorremmo mesi fantastici anche perché mamma era tutta presa dagli
avvenimenti che si andavano snodando giorno dopo giorno per organizzare la
festa della Prima Comunione mia e di Lizia (io avevo compiuto appena sei anni), approfittando della venuta di zio Padre
Leonardo per i primi di giugno. Mamma desiderava tanto che fosse lui a
somministrarcela. Era di ritorno dagli Stati Uniti dopo i tanti anni trascorsi
a New York. La sua venuta era uno straordinario avvenimento e, perciò, fu tanto
attesa. Ma c’era anche un’altra attesa a movimentare i nostri giorni. Mamma
aspettava già un altro bambino. Aspettava già quel “figlio maschio”, che tanta
ansia avrebbe creato in babbo, dopo ben tre femmine. Il quarto figlio. E mamma
non aveva neppure trent'anni. Pino nacque il 3 ottobre 1948 e il 10 ottobre
1950 nacque Mimmo e il 1954 l’ultima nata. In pochi anni ci moltiplicammo: eravamo
in sei, ma non sempre eravamo insieme. Ma io mi legai a te a doppia mandata nei
due anni trascorsi con mamma e babbo sui monti della Daunia. Eri sempre più
bella, vezzosa, capricciosa. Ed io mi sentivo responsabile della tua
incolumità. Babbo si perdeva nei tuoi occhi-laghi di mille meraviglie. Ti chiamava
“paparozza” e ti adorava. Eri uno spettacolo di bellezza, di grazia, di
intelligenza e di ingenua furbizia. Amavi uscire e strepitavi se non ti
accontentavamo subito. Non appena imparasti a parlare e a camminare, ti
sentimmo dire per la prima volta: “Tanto devo piangere che mi dovete
accontentare”. In breve era diventata la formula ricorrente dei tuoi “ricatti”
in famiglia. E subito ti brillavano gli occhi di tenera malizia. Ti bardavi di
tutto punto, cappellino, borsetta e un sorriso radioso e vincente. E tutti
eravamo ai tuoi piedi. Bella, intelligente, intraprendente, volitiva. Caratteristiche
che hai conservato per tutta la vita. Poi, io tornai dai nonni e perdemmo la
nostra quotidianità di giochi e passeggiate. E anche tu e Pino e Mimmo lasciaste
i monti della Daunia per via del trasferimento di babbo nella
pianura salentina a due passi dal mare. E tu cominciasti a badare ai nostri
fratellini durante l’inverno (li portavi a scuola e li riaccompagnavi a casa),
ma d’estate eravamo di nuovo insieme. E di nuovo magicamente si formava il
nostro sodalizio. Io e te di nuovo insieme a ridere e a cantare con la tua voce
che mandava i cristalli in frantumi, e in visibilio gli occasionali o
affezionati tuoi ascoltatori. Indossavi cappellini sempre più vezzosi su riccioli
bruni che incorniciavano un visetto delizioso, di cui tutti s’innamoravano immediatamente
e perdutamente. In quella caserma, che aveva alberi di oleandri che giungevano
alle finestre e un grande portico che divideva la caserma dal municipio, io e
te incontrammo tante persone amiche di babbo e mamma e i loro figli, al
maschile e al femminile, con cui facevamo lunghe passeggiate e chiacchierate,
accompagnate dalla tua voce che raggiungeva le stelle e incantava le lucciole. Anche
io cantavo con te, ma tu non avevi nessuno che ti superasse. Eravamo unite nel
canto ma non nell’incanto che ti apparteneva completamente.
E ci fu, in quegli anni, anche una estate indimenticabile tra le tante nel Salento. Babbo prese in affitto una casa in un borgo che aveva una caletta con tante grotte e una leggenda: Enea qui approdato e l’orma del suo piede lasciata ad imperituro ricordo. L’alba sulla riva in attesa dei pescatori per il pesce appena pescato. Lì mamma ci insegnò a nuotare. Lì con babbo azzardavamo i bagni a mezzanotte. Tu sempre più audace e coraggiosa nel fare compagnia a babbo nelle acque scure di notti senza luna e in quelle chiare con la luna a illuminare la tua acrobatica allegria.
Poi, altra caserma, altra
sede per babbo: Gallipoli. Un incanto d’altro genere. Il Lido San Giovanni e le
nostre vacanze insieme tra mille nuove scoperte delle bellezze naturali salentine
e i canti sulle barche con chitarre e i primi amici. La tua voce ad assordare barche e marinai con le antiche canzoni salentine. E le sere nelle arene sul mare per i film romantici che ci
facevano innamorare dell’amore.
Dopo un annetto altro
trasferimento del capofamiglia a Manfredonia, nella culla dei monti sul mare. La
scuola media per te l’Istituto Magistrale per me ad un passo dalla battigia. Io, chiamata da babbo per punizione per via della mia natura ribelle e con
scarsissima voglia di studiare. Fu il nostro nuovo incontro un ritrovarci in
una complicità senza fine. Tu: forte più di un ragazzo. Spostavi mobili pesanti
in men che non si dica. Nonno Mincuccio quando d’estate stavamo tutti insieme per un
po’ di giorni nel nostro cortile del “gelso e delle rose” e ti vedeva
arrampicarti velocemente sull’albero del gelso rosso in pantaloncini e
maglietta, ti chiamava “u uagnòn” (“il ragazzo” appunto), mentre io e Lizia
eravamo più caute e titubanti. Io la più lenta e maldestra di tutti per via del mio
mancinismo contrastato e un imbroglio di piedi che non sapevo sbrogliare. Tu forte
e spavalda in tutte le tue prodezze. Nonno Mincuccio ti chiamava anche “Giuànn
senza pagòr” (“Giovanni senza paura”) oppure la “ficcanas” (la ficcanaso”) per
via della irriducibile curiosità. “Dove tiene gli occhi tiene le mani” sempre
lui quando ti vedeva rovistare in tutti i cassetti della casa.
Ma a Manfredonia scoprimmo
insieme l’amore. Io subito. Tu a qualche anno di distanza, visto che avevi
cinque anni meno di me. Ma eravamo diventate l’una l’ombra dell’altra.
Io, ridendo, ti chiamavo “So-sour”, rifacendomi all’appellativo con cui zio Michele chiamava sua sorella, nonna Angelina. E tutto questo è legato ad uno dei ricordi più festosi della nostra infanzia, protrattosi fino alla mia adolescenza e riguarda il Santo Natale, vissuto dopo la mezzanotte. Infatti, dopo la nascita di Gesù Bambino a casa nostra, sempre in anticipo di un’oretta, andavamo in chiesa per la Sua nascita ufficiale e la messa di mezzanotte. Poi, a piedi (le automobili erano molto rare e anche le biciclette non erano poi tante) eravamo soliti sfidare il gelo e le stelle chiare del sereno invernale per andare a casa di zia Maria e zio Michele, per festeggiare insieme la “loro” nascita di Gesù. Ci aspettavano ogni anno con tanti altri parenti, amici e conoscenti nella loro sala da pranzo, dove c'era un presepe più grande del nostro. E posto per tutti. C'era davvero tanta gente da zia Maria, che era sempre sorridente e festaiola. Zio Michele, del resto, era molto generoso e ospitale: un comunista ostinato e forte, che litigava sempre affettuosamente con la nonna che era, secondo lui, democristiana e bigotta. La nonna si faceva il segno della croce e gli diceva che lui, invece, era il diavolo perché comunista e miscredente, e che, da morto, sarebbe andato all'inferno “a scàrnəvəscià fùchə” (“a rimestare fuoco”). Zio Michele rideva come un matto e andava ad abbracciare forte l'unica sua sorella: erano solo loro due e si volevano un bene dell'anima. “So-sourə” (“so-sorella”), diceva commosso, “mi basteranno le tue preghiere per evitare l'inferno”. E quel modo di chiamarla era un doppio nodo d'amore, quasi a dire due volte sorella. Ed era un appellativo tenerissimo che solo lui usava. Per lei.
Zio Michele era stato anche un impenitente donnaiolo e la nonna era convinta che, anche per quei suoi gravi peccati di gioventù, oltre a perdere un occhio per la sifilide, avrebbe perso anche l'anima e che, perciò, mai e poi mai avrebbe potuto evitare il fuoco eterno, neppure con le sue preghiere o con quelle della loro mamma, sempre in pena per quel figlio scavezzacollo e mangiapreti, e ormai alla presenza misericordiosa di Dio e della Vergine. Per questo nonna lo guardava con occhi di preoccupato tenero rimprovero, sperando in una sua improvvisa conversione. E attese, invano, fino alla morte dell’amato fratello, che al suo funerale pretese che la banda suonasse “bandiera rossa” fra lo scorno di quanti vi parteciparono. E con tanti limoni da offrire ai presenti… (al limooonə!!!).
Non ricordo se tu eri
con noi in quelle serate magiche, ma so che più tardi io ti ho sempre
paragonato alla madre di zio Michele. Si chiamava Rita e conoscevo la sua
storia per averla sentita in casa: Nonna Rita, negli anni passati, per salvare
quel giovane figlio in preda a “un male che non si poteva dire” in un ospedale
del Nord, nonostante fosse analfabeta e non avesse mai messo piede fuori dalla
porta di casa, aveva preso il treno da sola per riportarlo in famiglia e
poterlo far curare “dalle sue parti”, dove le sarebbe stato più facile essere
quotidianamente presente al suo capezzale. Dovette combattere la sua personale
battaglia contro il parere di tutti i medici e, con tante croci lasciate su
pezzi di carta che non sapeva leggere, lo riportò con sé e gli stette accanto
fino alla sua totale guarigione.
“Una donna coraggiosa e forte”, si diceva di lei. Non a caso, “si chiama Rita e porta il nome della santa dei casi impossibili”, si diceva di lei. E lei aveva dimostrato che niente è impossibile ad una madre e ad una donna forte e coraggiosa! Ecco perché, da adulte e dopo tante vicissitudini dolorosissime nella tua vita, ti paragonavo a lei. E, nello stesso tempo, a zia Maria. Quest'ultima, infatti, a differenza di sua suocera, aveva la forza della leggerezza e del sorriso sempre pronto e coinvolgente. Era una persona deliziosa: solare, allegra, generosa, chiacchierina. Con maliziosa lievità. Nonostante il marito fedifrago e comunista, e il figlio, Vincenzo, che seguiva le orme del padre nell’adesione totale al Partito di Giuseppe Stalin e di Palmiro Togliatti.
Ti ho sempre riconosciuto, negli anni della maturità, la forza di
nonna Rita e l’allegria solare di zia Maria, che spesso trascinava sua cognata,
nonna Angelina in lunghe risate, a cui si univano mamma e zia Lauretta, sorella
di zia Maria. Insieme erano un’esplosione di gioiosa complicità che faceva a
gara con i fuochi d’artificio molto noti nel nostro paese e in quelli
viciniori. Il nonno chiamava quel coro di risate irrefrenabili “u strìgnə” (lo strigno, mai saputo convertirlo
in un italiano corretto). Ricordo che il nonno diceva: “Mòuə so’ rə cìnghə menótə də strìgnə” (ora sono i cinque minuti di
folli risate).
E, negli anni, anche io e te, mia adorata Anna Maria, ci siamo accorte di aver ereditato questa capacità di ridere insieme a crepapelle per una qualsiasi situazione che suscitasse la nostra ilarità. E solo fino a qualche mese fa, nonostante gli anni, gli affanni, e le sempre più incombenti nuvole nere sul nostro cielo, abbiamo avuto ancora modo di ridere con immutata complicità, squarci di sole nella monotonia di giorni grigi o arrabbiati per una condizione di sempre più gravi fragilità fisiche e psicologiche nella nostra quotidianità. Noi distanti una ventina di chilometri l’una dall’altra ma vicine con il cuore, con l’anima e con i nostri salutari sorrisi. Pure Ombretta ha risate lunghe più dei suoi lunghi capelli, e un amore per la vita che vince ogni difficoltà e ogni dolore, spesso presenti alla sua giovinezza e all’età matura, in un mondo in cui le risate sono sempre più rare.
Per strada, fino a qualche anno fa, mi è capitato sempre più spesso di vedere volti ridotti a smorfia di stanchezza, disgusto, disperazione. Indifferenza. La nostra era ed è ormai “l’epoca delle passioni tristi”, come opportunamente hanno scritto lo psichiatra francese Gérard Schmit e il filosofo argentino Miguel Benasayag. Anche nella nostra casa era sempre più difficile ridere, ma ci capitava ancora, e ancora le lunghe risate, condite di sana autoironia, ci riportavano alle situazioni divertenti e condivise della nostra infanzia e prima giovinezza.
Ma, per ora, ti lascio per non stancare chi mi legge, però riprenderò
presto a parlare di te. Non ne posso fare a meno. E con te, tu lo sai, parlo
ogni notte. E ti scrivo. Per fortuna ti scrivo. E sto con te. Sempre. Lina
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