E riprendo oggi con i ricorsi del Santo Natale di tanti anni fa...
<Zio Michele era stato anche un impenitente donnaiolo e la nonna era convinta che, anche per quei suoi gravi peccati di gioventù, oltre a perdere un occhio per la sifilide, avrebbe perso anche l'anima e che, perciò, mai e poi mai avrebbe potuto evitare il fuoco eterno, neppure con le sue preghiere o con quelle della loro mamma, sempre in pena per quel figlio scavezzacollo e mangiapreti, e ormai alla presenza misericordiosa di Dio e della Vergine. Per questo nonna lo guardava con occhi di preoccupato tenero rimprovero, sperando in una sua improvvisa conversione. E attese, invano, fino alla morte dell’amato fratello, che al suo funerale pretese che la banda suonasse “bandiera rossa” fra lo scorno di quanti vi parteciparono. E con tanti limoni da offrire ai presenti…
(al limooonə!!!)
(Nonna
Rita, negli anni passati, per salvare quel giovane figlio in preda a “un male
che non si poteva dire” in un ospedale del Nord, nonostante fosse analfabeta e
non avesse mai messo piede fuori dalla porta di casa, aveva preso il treno da
sola per riportarlo in famiglia e poterlo far curare “dalle sue parti”, dove le
sarebbe stato più facile essere quotidianamente presente al suo capezzale.
Dovette combattere la sua personale battaglia contro il parere di tutti i
medici e con tante croci lasciate su pezzi di carta che non sapeva leggere, ma
lo riportò con sé e gli stette accanto fino alla sua totale guarigione.
“Una
donna coraggiosa e forte”, si diceva di lei. Non a caso, “si chiama Rita e
porta il nome della santa dei casi impossibili”, si diceva di lei. E lei aveva
dimostrato che niente è impossibile ad una madre e ad una donna forte e
coraggiosa!).
Zia
Maria, invece, a differenza di sua suocera, aveva la forza della leggerezza e
del sorriso sempre pronto e coinvolgente. Era una persona deliziosa: solare,
allegra, generosa, chiacchierina. Con malizia e lievità. Nonostante il marito
fedifrago e comunista, e il figlio, Vincenzo, che seguiva le orme del padre
nell’adesione totale al Partito di Giuseppe Stalin e di Palmiro Togliatti
(addà vənì baffónə…) (deve venire
baffone…)
Piccola, rotondetta, sempre
ordinata e ben vestita, zia Maria aveva grandi occhi vivaci, simili a quelli
della “boòpide Giunone”, e una risata lunga e contagiosa che raramente metteva
la parola fine prima di accesi scintillii d’ilarità. Evidenziava sempre il lato
umoristico delle parole o delle situazioni con rapida ironia, trascinando tutti
i presenti a ridere con lei. E tu sai benissimo quanto fosse contagioso “u strìgnə” (lo strigno, la gioiosa
irrefrenabile risata) di quella benedetta donna che rideva di cuore
soprattutto con mamma e con nonna Angelina.
“Mòuə so’ rə cìnghə menótə də strìgnə” (ora sono i cinque minuti di
folli risate), dicevi tu.
Più disincantate di lei, le sue
due figliole: Rosaria, sorridente e luminosa con i suoi riccioli biondi e
guance di pesca; Rita, silenziosa e notturna come i suoi neri capelli.
Nella
loro casa incontravamo spesso una sorella di zia Maria di nome Lauretta (zia
Lauretta per tutti) più bruttarella ma tanto allegra e spiritosa anche lei.
Amava raccontare di sé e dei suoi tanti mariti, l'ultimo dei quali era ancora
vivo e vegeto. Bello e aitante e innamoratissimo della sua Lauretta. Insieme
formavano una coppia prodigiosa. Di magica luce nei cieli bui e tempestosi di
quegli anni. (…)
Zia
Maria e zia Lauretta avevano il dono della risata. Frutto di una infanzia
difficile con dentro il cuore la pena di una mamma volata troppo presto in
Cielo, e della necessità di stringere tra le loro piccole braccia quel comune
grande dolore, che si stemperava nella complicità di un sorriso impertinente,
suscitato dalla caduta di un vecchietto per strada, da un ombrello strappato
dal vento dispettoso alle mani di una donna disperatamente aggrappata al suo
manico, o dagli imprevedibili casi umoristici della vita, che loro due sapevano
cogliere al volo e sapientemente rimestare. E tu lo sai, papà, perché eri
spesso testimone delle loro risate a più non posso per ogni piccola vicenda che
esulava dalla norma.
Delle
due fantastiche donne ho già scritto un simpatico, sapido e commosso racconto.
1)
(Penso
che la scrittura sia un dono divino: fissa nel tempo lacrime e sorrisi.
È
simile a una foto. Questa, però, eterna volti e corpi, l'involucro di noi.
La
scrittura perpetua l'anima. Doppia immortalità. Dono meraviglioso sempre. Come non dire grazie al buon Dio per
la sua totale gratuità? Ma noi uomini spesso manchiamo di gratitudine verso il
nostro Creatore per i tanti doni, quasi sempre ignorati o ritenuti scontati
perché ce li portiamo addosso dalla nascita, quindi ci appartengono di diritto.
Oppure, pensiamo presuntuosamente che siano dovuti ai nostri meriti personali
tanto che non ci scomodiamo mai a dire un grazie né a Lui né a quanti i nostri
talenti apprezzano e li rendono visibili con bontà e generosità… Ma anche questo è un altro discorso su
cui si potrebbe scrivere un trattato. Titolo? La difficile riconoscenza…)
Anche
la nonna, cognata beneamata di zia Maria sapeva ridere, come ho più volte
ricordato, ma mi piace ribadirlo perché do molta importanza all’efficacia
salutare di una generosa risata. E così pure mamma, dopo il ritorno del marito
dalla guerra, o quando era lei a fare ritorno nella nostra casa per
riabbracciare genitori e figlie. Spesso la nostra casa si riempiva delle loro
contagiose risate, stelle comete di scoppi improvvisi con le loro lunghissime
code luminescenti a illuminare i nostri Natali.
(E
anche io e Anna Maria abbiamo ereditato questa capacità: ancora oggi abbiamo brevi
risate di complicità, squarci di sole nella monotonia di giorni grigi o
arrabbiati. Pure Ombretta ha risate lunghe più dei suoi lunghi capelli, e un
amore per la vita che vince ogni difficoltà ogni dolore, spesso presenti alla
sua giovinezza. Oggi, però, le risate sono sempre più rare. Nonostante si
vivano tempi migliori rispetto al passato: non ci sono più coprifuochi e bombe
a pioverci sulla testa, almeno qui da noi; non più pulci e pidocchi e
scarafaggi. Per strada mi capita sempre più spesso di incontrare volti ridotti
a smorfia di stanchezza, disgusto, disperazione. Indifferenza. La nostra è
ormai “l’epoca delle passioni tristi”, come opportunamente hanno scritto lo
psichiatra francese Gérard Schmit e il filosofo argentino Miguel Benasayag. Non
ti allarmare, papà, sono due grandi studiosi del nostro tempo. Anche nella
nostra casa è sempre più difficile ridere, ma ci capita ancora, e ancora le
lunghe risate, condite di sana autoironia, mi riportano alle situazioni
divertenti e condivise di allora).
Allora,
a casa di zia Maria e zio di Michele, la Notte Santa era una festa colma di
confusione:
fede
miscredenza pettegolezzo preghiere canti abbuffate (…)
battibecchi
chiacchiere cantilenanti preghiere ambiziosi proclami (Gesù nasce per metterci tutti d’accordo in santità e armonia…) canti
poesie risate dolci liquori gioia di vivere…
Gesù
Bambino impiegava molto tempo a nascere. Veniva portato tra le mani-conchiglia
del bimbo più piccolo, in testa ad una processione lunghissima che si snodava
per tutte le stanze della grande casa che aveva un pianterreno, un primo e un
secondo piano. Dopo aver salito, sceso, attraversato scale e stanze e camere e
ogni più piccolo anfratto della casa e persino i balconi e il terrazzo, si
ritornava giù per deporre il Bambino nella grotta tra Maria e Giuseppe, il bue
e l'asinello. La lunga processione si illuminava di candeline bianche o rosse (spente
subito dopo con un brutto odore di cera bruciata e piccoli fili di fumo
grigiastro che si sperdevano ben presto tra le nostre mani giunte e non di rado
il bambino più grandicello bruciava i lunghi capelli della bimbetta davanti a
lui con grida e soccorsi immediati e scompiglio nella lunga fila e l’acre odore
di fumo e di capelli bruciacchiati si spandeva per la casa…) e si accendeva
delle note divine di “Tu scendi dalle stelle” (l’immancabile canto tradizionale
che includeva voci adulte e bambine e mille inevitabili stonature e
approssimate parole…).
Tu scendi dalle stelle, o Re del cieeelo
e vieni in una grott’al freddo e al geeelo
e vieni in una grott’al freddo e al geeelo…
A te che sei del mondo il Creeatoore
mancàno panni e fuocoomio Signooore
mancàno panni e fuocoomio Signooore…
Dopo
la nascita di Gesù, noi bambini recitavamo le poesie. Le donne di casa si
affrettavano a preparare la tavola con ogni ben di Dio: “pèttuə” (pettole),
piciuatìddə (dadini di massa sbollentati), baccalà in umido con olive e uva
passa, capitone fritto e arrostito (a te e a mamma piaceva molto il capitone,
che a noi bambini e ragazzi faceva ribrezzo perché ci sembrava un serpente e
basta, e provavamo disgusto nel vedervelo mangiare con tanto gusto…); e, poi,
frittelle, cartellate, calzoncelli (o cuscinetti di Gesù Bambino), mostaccioli,
taralli di ogni genere, fichisecchi, mandorle tostate, arance e mandarini, noci
e nocelline. Vini e rosolÎ.
Era
capitato anche a Lizia di portare Gesù Bambino e poi anche a me, ed era
capitato a tutti noi bambini di recitare per la prima volta la poesia che zia
Maria voleva insegnarci a tutti i costi perché la riteneva bella e facile per i
più piccoli che non andavano ancora all'asilo. Eccola, caro papà, te la ricordi
pure tu?
Tutti
vanno alla capanna
per
vedere una gran cosa
anche
io son curiosa
di
veder che cosa c'è?
Guarda,
guarda quel Bambino
come
dorme, poverino!
Sembra
far la ninnananna
tra
le braccia della mamma.
Se
io avessi un biscottino,
lo
darei a quel Bambino.
Biscottino
non ne ho
e il
mio cuore gli darò!
Credo
che la poesiola abbia attraversato secoli su bocche sdentate di nonne e
nipotini e su quelle più morbide delle mamme, prima di giungere sulle labbra di
farfalla colorata della mia amatissima prozia e tra le sue mani in volo per
mimarla a dovere. L'ho, poi, insegnata ai miei figli e ai miei nipoti non
perché fosse particolarmente bella e facile, come sosteneva zia Maria, ma
perché mi riportava a quei Natali, a quell'atmosfera magica e incantata, a quei
profumi, a quegli odori, a quelle preghiere, a quei canti, a quelle braccia d'amore.
A quei tafferugli. A quelle risate.
Capitava
sempre qualche imprevisto, che coglieva di sorpresa la compagnia, creando
parapiglia e disagio, risolti immediatamente da qualche battuta ironica o
autoironica di zia Maria e tutto finiva in una grande corale fragorosa bolla
iridescente di sapone, che aveva forma di labbra dischiuse al buonumore. Labbra
d’infanzia di latte e di panna. Labbra di bianche perle di giovinezza. Labbra concave
di spietata vecchiaia. Sì, quella tenera poesiola mi riporta a te, a nonna, a
mamma, agli zii e a tutti i parenti e amici di allora. A quei tempi di rumorosa
semplicità e di caotica armonia. Ad un mondo, almeno per noi bimbi, sereno. Un
mondo, che oggi esiste solo nella memoria del cuore. E, in realtà, quei volti,
quelle voci, quei profumi e quelle atmosfere di sorridente bonomia oggi li
rivivo solo nell’anima ed è lì che riscopro pensieri, storie, emozioni di
allora. E quel rito del Natale si è protratto negli anni quasi intatto.
Nel
tempo, sono comparsi gli alberi di natale (di finto abete), stracolmi di pacchi
e pacchettini da aprire dopo la mezzanotte. I panettoni e i pandoro hanno
sostituito quasi tutti i dolci fatti in casa. Sono comparse le chitarre ad
accompagnare il canto di Natale nella Notte Santa, che via via si è andata
arricchendo delle musiche d’oltreoceano, ascoltate attraverso il giradischi, il
registratore, il televisore. Alle voci antiche sono subentrate nuove voci e
tutto ancora nelle nostre famiglie si ripete con alterne vicende e in case
diverse dalle antiche case…
Roma saluto triste di notturno silenzio
spazio di stazione solitaria fioche luci
battito del cuore ansia divisa (…)
Domani sarà Natale
Altre voci altri occhi altre illusioni
Presenze Mute Chiassose
Insieme attraversiamo il giorno
(il giorno atteso dell’Attesa)
Ci traghetta un desiderio d’amore
al ritorno scontato e mai uguale
di un Natale d’alberi di plastica
vestiti di luci spogli di speranze
a concludere l’anno dai mille richiami
e un solo riscatto ipotesi di pace
sotto l’antica cometa che ci vuole
buoni e pacificati col mondo
per una Notte sola.
(Solo per una notte?)
Calda atmosfera di rosse candele accese
nella casa lontana ci accoglie mio figlio
cappuccio rosso e bianco di finta neve (…)
Mezzanotte
Scendono a farci compagnia ombre
di mai sopito amore eterno rimpianto.
In amari calici lo champagne saluta
anche questo Natale e scivola in gola
a spegnere l’arsura di un’angoscia
che sfiora di baci il nostro ritrovarci
SOLI
senza preghiere e senza canti
senza miracoli e senza prodigi
senza stelle né incanti
Non più come un tempo magica
questa Notte
Ma una tenerezza che scalda il cuore
infila l’uscio sotto la pioggia e il
vento
vola verso Sud e allaccia nodi a nodi
in un
ritrovato alone di mistero
(che non si spezzi questa gòmena
d’amore
chiedo al miracolo del Natale)>
(“Natale
romano”, stralci da L’ora dell’ombra e
della riva, op. cit.)
Buon Natale e Sereno Anno Nuovo a tutti con tanto Amore! Angela/lina
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