E oggi penso che sia giusto parlare dell’ultima silloge poetica di Nichi Vendola. Non sono in grado di parlarvi del suo lungo e articolato percorso politico, non sono una politologa ma una poetologa e amo la sua poesia ed è su questa che voglio posare lo sguardo per comprenderla meglio e farla comprendere, possibilmente, a tutti noi che su queste pagine del nostro blog ci incontriamo.
E
mi piace partire da “Il genocidio delle
parole”, che Nichi suddivide in sei parti, dove è presente, in forme e
connotazioni diverse il suo grido di poeta, uomo politico di sinistra,
giornalista impegnato sul fronte della giustizia, della libertà di giudizio,
della diversità come valore e non come pregiudizio e condanna. Egli comincia,
con una sorta di accorato rimpianto: Dove
sono finite le parole che sanno accogliere, ascoltare, abbracciare e
comprendere il mondo? le parole forti e pulite dell’ansia della verità, quelle
gentili e sagge dell’inclusione e della reciprocità, quelle che non esorcizzano
la complessità e la diversità: in quale discarica sono state abbandonate, in
quale tempio profano sono state maledette, in quale lager sono state affidate
alle premure di una dissoluzione finale? Non c’è crimine che non cominci così:
iniettando il veleno nelle vene delle parole, ubriacandole di superstizioni e
fanatismo, abusandole come fossero destinate alla macelleria universale. La
storia sta girando all’indietro e il regresso comincia dal genocidio
programmato delle parole che covano umanità. E non c’è salvezza che non sia
innanzitutto una parola di salvezza.
E
così, via via, ecco le parole che si perdono per strada nel pettegolezzo, o
nella solitudine dell’odio e della prevaricazione. Fuggono spaventate e si
rifugiano nel sacro tempio della poesia per scoprire “il senso delle cose”,
l’emozione “che ci rende umani”, mentre navigano le parole in contesti
deliranti di un “evo senza memoria e senza vergogna”… “La catastrofe delle
parole è in corso e non si può più tacere”. Perché oggi la poesia “interroga
l’umano e la sua responsabilità”. A Nichi oggi interessa scoprire la fraternità
tra gli uomini e la solidarietà di cui dobbiamo farci “custodi” se vogliamo
salvare questo nostro pianeta “atomo opaco del male” (Pascoli). Di qui la
bellezza della parola “queer”, che sottintende tanta forza e tanto dolore; che
vince l’“uniforme e l’uniformità” perché i queer sono “angeli in transizione
verso l’ignoto e l’inaudito, nella carezza del multiverso”, “spezzando catene e
superstizioni e costruendo poderose ali per volare più in alto per raggiungere
quel Dio che danza la vita”. I sei punti si chiudono con un invito a riscoprire
il Sud, dove ci sono le nostre radici e dove abbiamo piantato bandiere laddove
il Nord ci dava per sconfitti.
È di questi giorni la pubblicazione,
con la nostra Casa Editrice SECOP di Corato (Bari) dell’Editore Peppino
Piacente, del Libro IL
SUD HA VINTO del famoso giornalista de <La Gazzetta del
Mezzogiorno>, scrittore, saggista (e tanto altro ancora) Lino Patruno, il quale con il suo stile
inconfondibile, giornalistico e poetico insieme, parla di tutti i meriti del
Sud, in un crescendo rossiniano davvero avvincente. Come avvincenti sono i temi
della “restanza” e della “ritornanza”, cioè di chi si è rifiutato di partire per
vivere al Sud la meravigliosa avventura di scegliersi un lavoro per far fiorire
e rifiorire la propria terra, quella degli avi e dei figli e consegnargliela in
eredità ai nipoti e pronipoti, che saranno protagonisti di un futuro appena
annunciato e delineato per somme linee; e di chi è andato via, ma è felice di tornare
per gli stessi motivi di chi è rimasto.
Tenerissimo
il riferimento di Nichi Vendola al sindaco di Tricarico, poeta e contadino, e
all’immarcescibile Rocco Scotellaro.
E conclude: oggi anche Sud e parola
falsificata e svuotata di senso. Il Sud ha per troppi anni perso la parola, si
è lasciato raccontare dagli altri, ha come introiettato la colpa della propria
disegualità dal Nord. È cosa buona e giusta riprendere la parola, per ritrovare
memorie e significati necessari. Per ritrovare Scotellaro e un pezzetto
incandescente, misero, struggente di quel Novecento che ci portiamo addosso
(Montréal, 1 gennaio 2025).
È
importante, a mio parere, sottolineare l’uso appropriato delle parole, scelte
con estrema cura, oculatezza e competenza, da Nichi, sia come poeta, sia come
uomo politico di lungo corso, sia come persona che ha tanto sofferto per la sua
“diversità” fino al momento liberatorio del suo fare “coming-out”.
Poi,
ecco le poesie, che fanno capo al SACRO
QUEER e da questo si diramano come fiume in piena, come preghiera e
supplica ad un cielo che ci affratella e ci rende umani; come preghiera devota
che risente di vangeli e di miracoli, come quelli che compie quotidianamente la
MADONNA DI CUTRO in aiuto ai
naviganti, a quelli che affondano nel mare senza speranza di braccia disperate dal
primo all’ultimo lembo di terra, dove
incontrano “la morte cattiva”, in un eterno naufragio del corpo, del cuore,
dell’anima. Fino al miracolo della salvezza di ogni essere umano che si
riconosce fratello e ha dell’altro cognizione, quasi una benedizione, mista a
rivoluzione. Con una insistenza, sempre più praticata oggi, delle rime e
assonanze, che danno un ritmo nuovo alla composizione poetica, a volte più
incalzante, a volte più lenta e morbida, con uno sguardo di particolare
tenerezza a chi sente fraternamente vicino/a nel dolore e nell’amore, che tutti
redime e salva. A volte sembra che Nichi giochi con le parole per
velare/svelare realtà più difficili da dire, tra il mistero che mescola nella
poesia il sacro e il profano, i mostri sotterranei e le visioni celestiali, le
paure e i sudari dei rimorsi e dei riscatti. Fino all’ultima soglia, ardita di
parole che un poeta non dovrebbe dire, ma che dice, quasi una blasfemia per
riportare alla sorgente degli inganni la verità, sempre sfiorata e mai
posseduta in un mondo di alieni, pronti a ferire e distruggere piuttosto che a
costruire.
Per
fortuna la Bellezza prende il poeta per mano e lo salva dall’orrore del
proibito, con il “sacro dell’umano”. Una sacralità che salva ciascuno con la
sua “singolarità”, che attraversa “le primavere odorose/ di sesso e di verità”.
Le dediche si susseguono senza tregua e per ciascuno, amico o amica, con le
individuali connotazioni, tra quanti salgono al Cielo dei santi e dei gabbiani,
e quanti hanno cambiato identità per sentirsi rinascere nella libertà di essere
per l’eternità. E quest’ultima è un
ricamo/ uno strappo/ o solo un girotondo… per poter “mescolare i ricordi/ il profilo delle cose/ le foto da bambino/ la
furia degli accordi/ le nenie sulla strada/ l’impellenza del seme/ o la schiuma
del mare/ che l’abisso non teme”. Ed è una nenia dolcissima, cadenzata,
intrisa di tenerezza e di abbandoni, di immagini che si smarginano in
somiglianze che sorprendono i sensi, la vista, il cuore (l’impellenza del seme/ o la schiuma del mare). E si potrebbe
continuare all’infinito, con i vizi e le virtù dei cosiddetti “diversi”. C’è
anche un’amica di Terlizzi in fuga,
come Leopardi, dal “natio borgo
selvaggio”, per ritrovare sé stessa a Casablanca,
e, come il grande recanatese, senza farvi ritorno. E a Vladimir Luxuria, a Michela Murgia, a Cathy La Torre; e ancora, a
Massimo Consoli, Vanni Piccolo, Franco
Grillini. Un’accorata poesia è dedicata a Paolo Pietrangeli, cantautore di sinistra che firmò “Contessa”, un inno famosissimo negli
anni Sessanta-Settanta del secolo scorso, e che Nichi ricorda con tanta
tenerezza.
Per
tutti un ricordo, una nostalgia, “un battito d’ali” per non perdere le vie del
cielo. E dappertutto è un senso necessario di gravidanza per portare dal buio
alla luce quanti gli hanno vissuto accanto negli anni dei pentimenti senza
perdoni. C’è una poesia senza dedica, intitolata “Un muratore”, che mi ha immediatamente portato alla mente la
canzone di Zucchero Fornaciari
(2021), impudicamente cantata dall’immenso Fabrizio
De Andrè. Il titolo? “Ho visto Nina
volare”. I versi “incriminati”? Mastica e sputa/ Da una parte il miele/
Mastica e sputa/ Dall’altra la cera/ Mastica e sputa/ Prima che venga neve//…
Ho visto Nina volare/ Tra le corde dell’altalena/ Un giorno la prenderò/ come
fa il vento alla schiena… superfluo ogni commento.
Poi,
ecco la poesia-fiume dedicata a suo fratello Gianni Vendola, in preda ai ricordi e alle nostalgie di un tempo
irrimediabilmente passato, ma prepotentemente
uncinato nel cuore, come una ferita a cielo aperto, come uno squarcio
nell’anima da non potersi dire, a cui fanno da cucitura e ricamo i giochi
d’infanzia, i tuffi dell’adolescenza, i tremori della prima giovinezza. E… la
scoperta delle mani, delle dita affusolate di suo fratello, degli aghi
nelle vene e del dolore che mai finisce, neppure con i sogni dell’infanzia, i
giochi, i profumi insolenti dello scoglio/ in faccia sempre alla verità/ alla
salinità/ tu con le mani/ grandi come ali di airone,/ occhi negli occhi/ postumo
di te stesso/ che parli da un evo di gelo/ distaccato e ironico/ a indicare il
senso remoto/ e iconico/ delle cose// ti sporgi dalla torre del nulla/ come un
monaco eremita/ Sali dentro di te/ ti scali/ ti fai lutto/ su fino alla cima di
tutto/ in attesa dell’onda che accoglie/ che abbraccia/ e sommerge. E tutto si fa lutto, che avvolge, inabissa,
annega, anche per amore, soprattutto per amore.
“Cosa
sarà di me se non sento più i tuoi passi?
È
la tua vita o la mia che se ne va? Non lo so” (Valérie Perrin).
L’ultimo
inno è un omaggio a Rocco Scotellaro,
il poeta contadino, che imparò dalla madre a scrivere e ad amare, dal padre la
soma e la semina di campi arati con fiori e con frutti. Un inno nel cerchio che
corre all’infinito oppure si fa isola che imprigiona la libertà di andare…
Ci
sono, poi, le due pagine di ringraziamento che è impossibile non leggere perché
riguardano il compianto Editore Manni;
la comunità lgbtqia+ “che mi hanno
insegnato a vivere senza nascondermi e che mi hanno aiutato a comprendere che
la diversità è il fondamento dell’esperienza umana”; i tre intellettuali
“raffinatissimi che mi hanno fatto dono della loro amicizia oltre che della
loro sapienza: Serenella Iovino, Mario
Amura, Davide Grittani. E non mi è mai mancato il conforto e del giudizio e
dell’empatia di Dino Amenduni, di
Francesca Cavallo, di Mario Desiati, di Nicola Lagioia. Grazie a Silvio Maselli che, “nei giorni assai
dolorosi, mi è stato vicino, trascinando me e le mie poesie nell’avventura del
palcoscenico”; la sua amica Carmela
Vincenti, “una barese cosmopolita e soprattutto una grande attrice, con cui
ho portato in scena nei teatri del Sud le poesie di e su Rocco Scotellaro”; suo
marito Ed e suo figlio Tobia, “che sopportano con pazienza i miei inabissamenti nella scrittura e le
mie distrazioni letterarie, ma che illuminano i miei giorni e sono il corpo e
l’anima le poesie più belle che abbia mai letto”. (N.V.)
Vorrei
concludere con il ricordo della serata del 29
marzo scorso alle S.E.R.R.E. di Terlizzi, dove, invitata dal mio carissimo
amico Vittorino Curci, ho avuto la
fortuna e la gioia di seguire, con mio genero, l’Editore Peppino Piacente della Casa
editrice SECOP di Corato-Bari, e con mia figlia Raffaella Leone, scrittrice e poetessa, nonché P.R. della Casa editrice stessa, in una bellissima location
stracolma di gente, la imperdibile intervista di Vittorino a Nichi, l’intensa
lettura dei versi di quest’ultimo da parte della bravissima Carmela Vincenti,
altre volte da me apprezzata come attrice e fine dicitrice di versi e racconti.
Magnifica serata tutta da ricordare…
E ora è tempo di lasciarci, lettori
miei carissimi, a presto con sempre gratitudine e affetto. Angela
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