Beh, cosa
chiedere di più al nostro blog? Per me è molto importante questa condivisione
di idee, commenti, esperienze di scrittura creativa, sintonie nei nostri modi
di pensare, essere e comportarci. Le scelte che facciamo. I ricordi che ci
riportano indietro negli anni alla “superba e fiera” giovinezza. Il disincanto
che ci procura questo nostro tempo così difficile da vivere anche per
l’inflazione dei “poeti della domenica” che pullulano nei social. Ringrazio
Giulia per aver messo “il dito nella piaga”. Ne riparleremo appena avremo completato
il resto delle caratteristiche del “linguaggio poetico”.
Intanto, tutti i
vostri commenti mi hanno dato conforto. Non tutto è inutile sulla strada della
conoscenza, sia pregressa che futura. Di Luigi
Lafranceschina, per esempio, seguito sempre un po’ a distanza per via della
sua serietà nel prefiggersi categoricamente posti di responsabilità e di
oggettiva mediazione tra i colleghi, in una scuola da me mai amata, mi hanno
conquistato letteralmente i ricordi universitari e di giovane professore di Lettere
nel Liceo Linguistico. E ci metto la
mano sul fuoco sul suo impegno quotidiano! Di Anna Mininno mi è piaciuta tantissimo la sua forte e chiara e bella
scelta di essere libera di seguire la vera poesia in fondo alla sua stessa
anima nella sua compiutezza. E Anna sta scrivendo poesie davvero degne di
ammirazione e apprezzamento, al di là di tutte le “regole” di questo mondo. E
mi commuovono i messaggi di grande fiducia nelle mie riflessioni sul linguaggio
poetico di Anna Maria Staffieri, che
ho fortunatamente incontrato sulla mia strada; Mariantonietta Bellezza, che condivide con me una vita di
bellissimi ricordi; Mariateresa Bari,
che non ha bisogno delle mie parole o di suggerimenti; di Maria Pia Latorre, che può perfettamente sostituirmi con una o più
marce in più; Francesca Petrucci,
mia consuocera, che mi ha fatto ridere di cuore con la sua battuta; Maria Diblasio sempre entusiasta e
attenta a ogni richiamo letterario e del cuore; e poi la mia carissima Elina Miticocchio con un nuovo fascio di incantate/incantevoli poesie tra
le mani.
Ma ora
riprendiamo con gli ultimi accorgimenti “tecnici” della scrittura poetica, così
ci togliamo il pensiero:
- Ci sono, poi, altre figure retoriche perlopiù miste come: il poliptoto, che fa ricorso alla stessa parola che in declinazioni o
coniugazioni diverse cambia sia di suono che di significato o lo mantiene (la “rosa” nel “roseto” fiorì; rara “rosa”
cambiò il suo volto di “rose”, e così via).
- La personificazione: dare un’anima agli
oggetti perché abbiano voce e comportamenti umani. Superflui gli esempi.
- L’ipallage: consiste nell’attribuire ad
una parola ciò che si riferisce ad un’altra parola della stessa frase o dello
stesso verso (“dare i venti alle vele” al
posto di “dare le vele ai venti”).
- L’iperbato: rovesciamento delle parole
molto simile all’anastrofe: i nascenti
del sole raggi.
- L’iperbole: intensificazione del
significato di una espressione: bello
come un dio.
- Figura olofrastica: parola che sostituisce
un’intera frase: andiamo in barca… “il
mare!”.
- Sillessi o sillepsi: concordanza a senso e non grammaticale: la gente andavano lontano.
- Figura logofanica da logofania: pensiero che
si fa ascoltare (vedi soliloquio). In prosa somiglia alla metalessi: figura retorica rara, di sostituzione. L’autore si
sostituisce al pensiero del personaggio per puntualizzare alcuni aspetti che
vuole evidenziare al lettore.
L’elenco potrebbe continuare a lungo…
Spetta, comunque, alla sensibilità del poeta,
al suo ritmo interiore, al “suo” tema la scelta delle varie figure retoriche
per rendere al meglio la bellezza di un verso, la suggestività di una poesia.
Di qui il “suo” stile: del tutto personale e originale!
Occorre, ora (dopo
aver fatto la scoperta dell’“acqua calda”, non senza noia e fatica per “cose
trite e ritrite”), passare dal linguaggio
poetico con tutte le sue “regole” (perché,
se è vero che la poesia è una “folgorazione” che nasce da una emozione, è anche
vero che, per fissare su carta quella emozione, occorre seguire degli “accorgimenti tecnici” che connotano il “modo di fare poesia”, come si è
detto: i versi, le strofe, la metrica, la rima, la scelta delle parole e la
loro sistemazione, le figure retoriche di suono, di significato…), e così via,
non soltanto focalizzare queste “tecniche”
quanto “praticarle”, per affinare il
nostro particolare modo di scrivere in prosa e in versi.
Non a caso, si può parlare, con queste
nostre riflessioni quasi quotidiane, nel nostro blog, di reciproca “educazione”
alla scrittura creativa. E, in questo caso, è quasi un insieme di teoria e
pratica del “fare poesia”: “Se ascolto,
dimentico; se vedo, ricordo; se faccio, imparo”. Ma non ricordo più la
fonte. Non ricordo più chi l’abbia detto, ma ritengo che si possa sottoscrivere
questa semplice affermazione. Spesso annoto su foglietti di carta ciò che mi
piace e che, il più delle volte, col passare del tempo, perdo.
Forse possiamo insieme prendere lo
spunto da La mia piccola officina delle
storie di Bruno Gilbert di
ispirazione oulipiana per aggiungere un pizzico di creatività a quanto possiamo
scrivere quotidianamente e senza alcuna pretesa di letterarietà. O forse anche
sì.
Officina: laboratorio dove si opera, si produce. Dal
francese “ouvrier”: produrre, lavorare. Nel nostro caso, “produrre strutture
letterarie”.
Il testo si rifà a Cent mille miliard des poemes di Raymond Queneau (si ricavano poesie per
oltre 200 milioni di anni!)
Regole: si parte da una poesia che viene modificata
con parole diverse, lettere, o sillabe, scambiate, modificate, eliminate,
aggiunte, per giungere ad una nuova poesia.
- Si possono utilizzare le rime, purché
non banali né rare.
- Si deve avere un tema o una continuità
tematica.
- Si deve conservare la stessa struttura
con particolari interscambiabili per modificare eventualmente il significato.
- Si deve partire con la stessa
costruzione grammaticale: 1= dove?; 2= quando? (complemento di luogo o tempo);
3= chi? (soggetto); 4= azione (predicato verbale); 5= che cosa? (complemento
oggetto). Es. Di notte la lucciola illumina il cielo. (da notare: alla banalità
del costrutto sintattico si contrappone la scelta delle parole per dare respiro
poetico alla frase!). Si combinano, poi, le parole tra di loro per ottenere
altre frasi: storie assurde, realistiche, poetiche, surreali, fantastiche, ecc.
Frasi catturanti e accattivanti per stimolare l’immaginazione.
Bellissime le tecniche usate da Gianni Rodari nella sua Grammatica della fantasia.
Poi ci sono tanti modi diversi di
esercitare la creatività, scrivendo poesie particolari:
- Il “logogrifo”: cercare all’interno di
una parola tante altre che vengono formate con le stesse lettere della parola
data.
- Il “tautogramma”: un testo con le
parole che cominciano tutte con una lettera stabilita. Si possono inserire
anche le rime per un effetto ludico.
- L’ “acrostico”: una parola scritta in
verticale in stampatello maiuscolo e ogni lettera diventa l’iniziale di
un’altra parola, a cui si può aggiungere qualche connettivo logico intermedio
per dare maggior senso alla frase a cui si potrebbe giungere.
- Il “nonsense” e il “limerick” di
origine inglese (Lewis Carroll e Edward
Lear): il nonsense è un breve componimento poetico basato sull’assurdo (con
o senza rima, ma con molto ritmo). Si pensi ad alcune filastrocche sul tipo del
nostro “girotondo” che si faceva (o si fa) da bambini; il limerick, invece,
dalla città irlandese Limerich in cui nacque e si diffuse ad opera di Lear, è
un componimento di 5 versi con schema metrico AABBA e di ispirazione scherzosa,
con contenuto assurdo e inverosimile, basato sulla seguente struttura: 1°
verso= Chi? (indicazione di un protagonista, ma anche di un luogo; 2° verso=
Cosa fa? (definizione o qualità del protagonista); 3° e 4° verso= Che succede?
(azione e sviluppo dell’azione); 5° verso= conclusione ed epiteto finale (si
riprende dal primo verso). In Italia i massimi scrittori e poeti di nonsense e
di limerick sono Gianni Rodari, Nico Orengo, Toti Scialoja…
- L’ “haiku”: gocce di poesia.
Composizione poetica di origine giapponese (XVII-XVIII sec.), caratterizzata da
estrema brevità; delicata e lieve come un battito d’ali, contiene di solito un
Kigo, ossia un elemento legato alle stagioni, alla natura, al paesaggio,
secondo i canoni del buddhismo zen. Roland
Barthes lo definisce: “Una visione senza commento… un istante
intrattenibile”.
- L’ “hai-kaizzare” la poesia (da
“Hai-Kai”), componimento giapponese del XVI sec., formato da 36-50-100 versi:
l’hai-kaizzazione consiste nel cancellare le parole di una poesia, conservando
soltanto quelle finali di ogni verso, con cui si formano nuove poesie (R.
Quenau, Segni, cifre, lettere,
Einaudi, Torino 1981).
- Il Gioco dei “pizzini”: foglietti
bianchi con su scritto: “Lui” o “lei”, “con chi o cosa”, “dove sono”, “cosa
fanno”, “come finisce”, “cosa dice la gente”.
- I “calligrammi”o “poesie disegnate”
(IV-IIIsec. a. C.): il poeta greco Teocrito
scrisse il poemetto La Siringa, in
cui la disposizione dei versi richiama la forma dell’antico strumento musicale
fatto di canne (una sorta di flauto di pan). Ma è stato Guillaume Apollinaire con la sua “poesia visiva”, diffusasi nel
Novecento, a definire tali
componimenti “calligrammi”: Calligrammes.
Poemes de la paix e de la guerre. Armand
Bourgade, alla fine
dell’Ottocento, scrisse un poema di 300 versi, alto 60 cm., con la forma della
Tour Eiffel. Anche Lewis Carroll e
l’italiano Mauro Faustinelli hanno scritto calligrammi. Non poesia fatta di
suoni, dunque, ma di segni (non va colorata per non sovrapporre i due linguaggi
visivi!).
- I “papiers décupés” di Henri Matisse:
poesia con colori espressi, evocati, interni.
- La “percettibilità della forma” di Viktor Sklovskij: peculiarità del testo poetico, ottenuta con l’accordo tra ritmo, forme e scelte semantiche (o tratti semantici).
Continua naturalmente domani!
Angela
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