venerdì 28 giugno 2024

Venerdì 28 giugno 2024: ANNA MARIA...

Metto insieme i frammenti di noi due per parlare di te. Ho bisogno di parlare di te con te. Ho un bisogno viscerale di partire dal tuo primo giorno di vita.

Babbo tornò dalla prigionia a maggio del ’46 e il 3 febbraio del ’47 nascesti tu, Anna Maria, la terza figlia che, per fortuna, non deluse più di tanto le sue attese del figlio maschio perché eri talmente bella da far dimenticare tutto il resto e rapisti immediatamente il cuore di tutti. Io e Lizia, durante il parto, eravamo state accompagnate da nonno Mincuccio alla casa, sempre accogliente, di zia Maria e zio Michele, fratello unico e adorato di nonna Angelina, la mamma di mamma. Al ritorno, tu eri lì, tra le braccia di mamma, cuffietta rosa di morbida lana e due occhi immensi che brillavano come stelle rubate al cielo. Eri la nuova “figlia dell’amore”, dopo quattro anni di lontananza e di attesa che babbo tornasse dalla guerra. Ma, dopo il parto e alcuni mesi in casa dei nonni, babbo tornò a prendervi, lasciando Lizia e me dai nonni perché non rimanessero soli, abituati come erano alla nostra affettuosa presenza.

Prima di Natale, però, faceste ritorno per trascorrere insieme le feste. E mamma rimase ancora per alcuni mesi con noi, che spiavamo ogni tuo sorriso.  Poi, con te, andò di nuovo via. A fine aprile del 1948, però, tornò nuovamente nella casa di via Maggiore con i tuoi primi gorgheggi e i tuoi primi passi alla scoperta del nostro “piccolo mondo”. Insieme trascorremmo mesi fantastici anche perché mamma era tutta presa dagli avvenimenti che si andavano snodando giorno dopo giorno per organizzare la festa della Prima Comunione mia e di Lizia (io avevo compiuto appena sei anni), approfittando della venuta di zio Padre Leonardo per i primi di giugno. Mamma desiderava tanto che fosse lui a somministrarcela. Era di ritorno dagli Stati Uniti dopo i tanti anni trascorsi a New York. La sua venuta era uno straordinario avvenimento e, perciò, fu tanto attesa. Ma c’era anche un’altra attesa a movimentare i nostri giorni. Mamma aspettava già un altro bambino. Aspettava già quel “figlio maschio”, che tanta ansia avrebbe creato in babbo, dopo ben tre femmine. Il quarto figlio. E mamma non aveva neppure trent'anni. Pino nacque il 3 ottobre 1948 e il 10 ottobre 1950 nacque Mimmo e il 1954 l’ultima nata. In pochi anni ci moltiplicammo: eravamo in sei, ma non sempre eravamo insieme. Ma io mi legai a te a doppia mandata nei due anni trascorsi con mamma e babbo sui monti della Daunia. Eri sempre più bella, vezzosa, capricciosa. Ed io mi sentivo responsabile della tua incolumità. Babbo si perdeva nei tuoi occhi-laghi di mille meraviglie. Ti chiamava “paparozza” e ti adorava. Eri uno spettacolo di bellezza, di grazia, di intelligenza e di ingenua furbizia. Amavi uscire e strepitavi se non ti accontentavamo subito. Non appena imparasti a parlare e a camminare, ti sentimmo dire per la prima volta: “Tanto devo piangere che mi dovete accontentare”. In breve era diventata la formula ricorrente dei tuoi “ricatti” in famiglia. E subito ti brillavano gli occhi di tenera malizia. Ti bardavi di tutto punto, cappellino, borsetta e un sorriso radioso e vincente. E tutti eravamo ai tuoi piedi. Bella, intelligente, intraprendente, volitiva. Caratteristiche che hai conservato per tutta la vita. Poi, io tornai dai nonni e perdemmo la nostra quotidianità di giochi e passeggiate. E anche tu e Pino e Mimmo lasciaste i monti della Daunia per via del trasferimento di babbo nella pianura salentina a due passi dal mare. E tu cominciasti a badare ai nostri fratellini durante l’inverno (li portavi a scuola e li riaccompagnavi a casa), ma d’estate eravamo di nuovo insieme. E di nuovo magicamente si formava il nostro sodalizio. Io e te di nuovo insieme a ridere e a cantare con la tua voce che mandava i cristalli in frantumi, e in visibilio gli occasionali o affezionati tuoi ascoltatori. Indossavi cappellini sempre più vezzosi su riccioli bruni che incorniciavano un visetto delizioso, di cui tutti s’innamoravano immediatamente e perdutamente. In quella caserma, che aveva alberi di oleandri che giungevano alle finestre e un grande portico che divideva la caserma dal municipio, io e te incontrammo tante persone amiche di babbo e mamma e i loro figli, al maschile e al femminile, con cui facevamo lunghe passeggiate e chiacchierate, accompagnate dalla tua voce che raggiungeva le stelle e incantava le lucciole. Anche io cantavo con te, ma tu non avevi nessuno che ti superasse. Eravamo unite nel canto ma non nell’incanto che ti apparteneva completamente.

E ci fu, in quegli anni, anche una estate indimenticabile tra le tante nel Salento. Babbo prese in affitto una casa in un borgo che aveva una caletta con tante grotte e una leggenda: Enea qui approdato e l’orma del suo piede lasciata ad imperituro ricordo. L’alba sulla riva in attesa dei pescatori per il pesce appena pescato. Lì mamma ci insegnò a nuotare. Lì con babbo azzardavamo i bagni a mezzanotte. Tu sempre più audace e coraggiosa nel fare compagnia a babbo nelle acque scure di notti senza luna e in quelle chiare con la luna a illuminare la tua acrobatica allegria.

Poi, altra caserma, altra sede per babbo: Gallipoli. Un incanto d’altro genere. Il Lido San Giovanni e le nostre vacanze insieme tra mille nuove scoperte delle bellezze naturali salentine e i canti sulle barche con chitarre e i primi amici. La tua voce ad assordare barche e marinai con le antiche canzoni salentine. E le sere nelle arene sul mare per i film romantici che ci facevano innamorare dell’amore.

Dopo un annetto altro trasferimento del capofamiglia a Manfredonia, nella culla dei monti sul mare. La scuola media per te l’Istituto Magistrale per me ad un passo dalla battigia. Io, chiamata da babbo per punizione per via della mia natura ribelle e con scarsissima voglia di studiare. Fu il nostro nuovo incontro un ritrovarci in una complicità senza fine. Tu: forte più di un ragazzo. Spostavi mobili pesanti in men che non si dica. Nonno Mincuccio quando d’estate stavamo tutti insieme per un po’ di giorni nel nostro cortile del “gelso e delle rose” e ti vedeva arrampicarti velocemente sull’albero del gelso rosso in pantaloncini e maglietta, ti chiamava “u uagnòn” (“il ragazzo” appunto), mentre io e Lizia eravamo più caute e titubanti. Io la più lenta e maldestra di tutti per via del mio mancinismo contrastato e un imbroglio di piedi che non sapevo sbrogliare. Tu forte e spavalda in tutte le tue prodezze. Nonno Mincuccio ti chiamava anche “Giuànn senza pagòr” (“Giovanni senza paura”) oppure la “ficcanas” (la ficcanaso”) per via della irriducibile curiosità. “Dove tiene gli occhi tiene le mani” sempre lui quando ti vedeva rovistare in tutti i cassetti della casa.

Ma a Manfredonia scoprimmo insieme l’amore. Io subito. Tu a qualche anno di distanza, visto che avevi cinque anni meno di me. Ma eravamo diventate l’una l’ombra dell’altra.

Io, ridendo, ti chiamavo “So-sour”, rifacendomi all’appellativo con cui zio Michele chiamava sua sorella, nonna Angelina. E tutto questo è legato ad uno dei ricordi più festosi della nostra infanzia, protrattosi fino alla mia adolescenza e riguarda il Santo Natale, vissuto dopo la mezzanotte. Infatti, dopo la nascita di Gesù Bambino a casa nostra, sempre in anticipo di un’oretta, andavamo in chiesa per la Sua nascita ufficiale e la messa di mezzanotte. Poi, a piedi (le automobili erano molto rare e anche le biciclette non erano poi tante) eravamo soliti sfidare il gelo e le stelle chiare del sereno invernale per andare a casa di zia Maria e zio Michele, per festeggiare insieme la “loro” nascita di Gesù. Ci aspettavano ogni anno con tanti altri parenti, amici e conoscenti nella loro sala da pranzo, dove c'era un presepe più grande del nostro. E posto per tutti. C'era davvero tanta gente da zia Maria, che era sempre sorridente e festaiola. Zio Michele, del resto, era molto generoso e ospitale: un comunista ostinato e forte, che litigava sempre affettuosamente con la nonna che era, secondo lui, democristiana e bigotta. La nonna si faceva il segno della croce e gli diceva che lui, invece, era il diavolo perché comunista e miscredente, e che, da morto, sarebbe andato all'inferno “a scàrnəvəscià fùchə” (“a rimestare fuoco”). Zio Michele rideva come un matto e andava ad abbracciare forte l'unica sua sorella: erano solo loro due e si volevano un bene dell'anima. “So-sourə” (“so-sorella”), diceva commosso, “mi basteranno le tue preghiere per evitare l'inferno”. E quel modo di chiamarla era un doppio nodo d'amore, quasi a dire due volte sorella. Ed era un appellativo tenerissimo che solo lui usava. Per lei.

Zio Michele era stato anche un impenitente donnaiolo e la nonna era convinta che, anche per quei suoi gravi peccati di gioventù, oltre a perdere un occhio per la sifilide, avrebbe perso anche l'anima e che, perciò, mai e poi mai avrebbe potuto evitare il fuoco eterno, neppure con le sue preghiere o con quelle della loro mamma, sempre in pena per quel figlio scavezzacollo e mangiapreti, e ormai alla presenza misericordiosa di Dio e della Vergine. Per questo nonna lo guardava con occhi di preoccupato tenero rimprovero, sperando in una sua improvvisa conversione. E attese, invano, fino alla morte dell’amato fratello, che al suo funerale pretese che la banda suonasse “bandiera rossa” fra lo scorno di quanti vi parteciparono. E con tanti limoni da offrire ai presenti… (al limooonə!!!).

Non ricordo se tu eri con noi in quelle serate magiche, ma so che più tardi io ti ho sempre paragonato alla madre di zio Michele. Si chiamava Rita e conoscevo la sua storia per averla sentita in casa: Nonna Rita, negli anni passati, per salvare quel giovane figlio in preda a “un male che non si poteva dire” in un ospedale del Nord, nonostante fosse analfabeta e non avesse mai messo piede fuori dalla porta di casa, aveva preso il treno da sola per riportarlo in famiglia e poterlo far curare “dalle sue parti”, dove le sarebbe stato più facile essere quotidianamente presente al suo capezzale. Dovette combattere la sua personale battaglia contro il parere di tutti i medici e, con tante croci lasciate su pezzi di carta che non sapeva leggere, lo riportò con sé e gli stette accanto fino alla sua totale guarigione.

“Una donna coraggiosa e forte”, si diceva di lei. Non a caso, “si chiama Rita e porta il nome della santa dei casi impossibili”, si diceva di lei. E lei aveva dimostrato che niente è impossibile ad una madre e ad una donna forte e coraggiosa! Ecco perché, da adulte e dopo tante vicissitudini dolorosissime nella tua vita, ti paragonavo a lei. E, nello stesso tempo, a zia Maria. Quest'ultima, infatti, a differenza di sua suocera, aveva la forza della leggerezza e del sorriso sempre pronto e coinvolgente. Era una persona deliziosa: solare, allegra, generosa, chiacchierina. Con maliziosa lievità. Nonostante il marito fedifrago e comunista, e il figlio, Vincenzo, che seguiva le orme del padre nell’adesione totale al Partito di Giuseppe Stalin e di Palmiro Togliatti.

Ti ho sempre riconosciuto, negli anni della maturità, la forza di nonna Rita e l’allegria solare di zia Maria, che spesso trascinava sua cognata, nonna Angelina in lunghe risate, a cui si univano mamma e zia Lauretta, sorella di zia Maria. Insieme erano un’esplosione di gioiosa complicità che faceva a gara con i fuochi d’artificio molto noti nel nostro paese e in quelli viciniori. Il nonno chiamava quel coro di risate irrefrenabili “u strìgnə” (lo strigno, mai saputo convertirlo in un italiano corretto). Ricordo che il nonno diceva: “Mòuə so’ rə cìnghə menótə də strìgnə” (ora sono i cinque minuti di folli risate).

E, negli anni, anche io e te, mia adorata Anna Maria, ci siamo accorte di aver ereditato questa capacità di ridere insieme a crepapelle per una qualsiasi situazione che suscitasse la nostra ilarità. E solo fino a qualche mese fa, nonostante gli anni, gli affanni, e le sempre più incombenti nuvole nere sul nostro cielo, abbiamo avuto ancora modo di ridere con immutata complicità, squarci di sole nella monotonia di giorni grigi o arrabbiati per una condizione di sempre più gravi fragilità fisiche e psicologiche nella nostra quotidianità. Noi distanti una ventina di chilometri l’una dall’altra ma vicine con il cuore, con l’anima e con i nostri salutari sorrisi. Pure Ombretta ha risate lunghe più dei suoi lunghi capelli, e un amore per la vita che vince ogni difficoltà e ogni dolore, spesso presenti alla sua giovinezza e all’età matura, in un mondo in cui le risate sono sempre più rare. 

Per strada, fino a qualche anno fa, mi è capitato sempre più spesso di vedere volti ridotti a smorfia di stanchezza, disgusto, disperazione. Indifferenza. La nostra era ed è ormai “l’epoca delle passioni tristi”, come opportunamente hanno scritto lo psichiatra francese Gérard Schmit e il filosofo argentino Miguel Benasayag. Anche nella nostra casa era sempre più difficile ridere, ma ci capitava ancora, e ancora le lunghe risate, condite di sana autoironia, ci riportavano alle situazioni divertenti e condivise della nostra infanzia e prima giovinezza.

Ma, per ora, ti lascio per non stancare chi mi legge, però riprenderò presto a parlare di te. Non ne posso fare a meno. E con te, tu lo sai, parlo ogni notte. E ti scrivo. Per fortuna ti scrivo. E sto con te. Sempre. Lina

 

venerdì 21 giugno 2024

Venerdì 21 giugno 2024: Solstizio d'estate in forma di poesia per fermare il giorno...

Non scrivo da oltre una settimana perché non sono serena. Cerco di non coinvolgere chi amo e mi ama, i parenti, gli amici virtuali e reali, i lettori, ma non posso fare a meno di essere angosciata. Di essere in attesa che qualcosa migliori, per farmi coraggio, pur sapendo che non migliorerà. Che non si risolverà per il meglio, come ho strenuamente pregato e sperato. Che l’estate sia uno smemoramento di mare-cielo e una rinuncia annunciata. Pure, è forse per disperdere pensieri che scrivo. Per fermare il giorno? Forse. So solo che non voglio pensare… vado in deviazione per non pensare… scrivo di una estate che da tanto non è stata più la stessa e che mai più sarà:

“ROSSO SORRISO D’ESTATE”

Con passo felpato di gatto nero

Avanza la notte con occhi di stelle

Nei miei occhi persi di treni perduti

Nel bosco del tempo andato…

E mi trema dentro un mistero

D’acqua di mare che sogna

Passi d’azzurro a lasciare orme sul cuore

Perché nulla vada dimenticato

Prima che la luce riaccenda l’alba

(Dono che ancora mi ricama

Rosso sorriso di seta e geranio

Su labbra d’estate di rosso accese)

“UNA STORIA SENZA FINE”

… danzano ballerine nell’azzurrità del mare

le ore dimentiche di tempo e di stagioni.

Volano le loro braccia al cielo delle nuvole

ed è già preghiera di perdono

tra sussurri di gocce che respirano dai fondali

correnti sotterranee e insidiose

su antiche illusioni di coralli e di sirene

e forzieri d’oro puro

che i pirati sottrassero ai re d’ogni contrada.

S’apre come fiore d’acqua e di luce

la danza a imbrigliare occhi incantati

che sanno il magico canto della vita

a trattenere i giorni in sospensione

e tutto si fa intreccio di storie senza fine...

“MARE DI PAURA”

Si gridava “il mareeeeeee!”

abbagliati dal suo antico splendore

E si urla “oh mare!”

rosso di sangue nero di morte

E il cuore ha brividi di paura

Un gabbiano vola e stride di dolore

sull’indifferenza assassina dell’uomo

(stanotte fioriranno stelle di luce

a incantare occhi grandi bambini

che non sanno)

“VOGLIA DI MARE”

Voglio guardare il mare

Non c’è connessione internet

chiudo il computer e lo butto via

Voglio guardare il mare

Il mio cell funziona a tratti

chiudo spengo lo butto via

Il mondo può aspettare

Voglio guardare il mare

Dal tramonto all’alba

in questo giorno di dardi

infuocati

e frinire di cicale e canti di grilli

e vele bianche a toccare il cielo

sfinito addormentato mai vinto

Voglio guardare questo azzurro

che s’infittisce di stelle

tra alberi ingemmati di nidi

alla scogliera

E pigolii di notturno ritrovarsi

sotto il manto velato della sera

Voglio guardare la rara gente

che guarda ancora il mare

E il cielo e le rare nuvole

e il profumo di salmastro che respira

di vento un respiro di barche e di onde

che piano s’addormentano

come pianto di bimbo

tra le braccia della mamma

(non c’è più fretta di giorni

ho solo voglia di guardare il mare)

 

“SERE DI MADREPERLA E DI VOLI”

Sere di voli e di grondaie vuote.

Ferito di madreperla il cielo

al canto della luna rinasce.

Sbocciano ancora rose nel giardino.

Sul balcone fioriscono di sole

gerani con bocche vermiglie

(lontano un richiamo di mare

mi trema d’attesa negli orecchi)

 

Continuerò nei prossimi giorni se potrò… appena… forse… per essere insieme e attingere da tutti voi puntelli d’amore a sostenermi. Grazie! Angela/lina

 

mercoledì 12 giugno 2024

Mercoledì 12 giugno 2024: L'AMICIZIA che mi scalda il cuore: BRUNO e ADA... CORRADO e MARIA...

Oggi, 12 giugno, mi riporta a quattordici anni fa, 2010, alla perdita improvvisa di un carissimo Amico: Bruno. E oggi mi mancano i suoi sprazzi di allegria come esplosione di coriandoli ai nostri carnevali dimenticati. Bruno che, con la sua meravigliosa compagna Ada e i suoi splendidi tre figli (Leo, Vania, Tonio, che ancora oggi continuano a chiamarmi zia), ha reso i lunghi anni della nostra amicizia una continua scoppiettante fanfara, tenera e maliziosa, di battute, di risate, di effervescente generosità.

C’incontrammo oltre trent’anni fa in un Villaggio turistico del Salento, RACAR, dove avevamo comprato una tenerissima “casa delle fate”, una villettina su due piani, con i tetti rossi spioventi e le finestrelle dipinte di verde prato sul lato interno, dove una scalinata in pietra ci portava nel cortiletto in chi faceva superba mostra di sé una magnolia gigantesca merlettata di profumatissimi fiori bianchi. Sulla facciata esterna c’era una vetrata che custodiva gelosamente una cameretta con letto a castello per due dei quattro figli, e la camera da letto matrimoniale. A pianterreno c’era un bel salone con una cucina a vista e divani-letto per gli altri due figli. Una casetta che amavo tanto e che ci permetteva di tornare di anno in anno con la nostra gatta “Neve”, un persiano dal pelo lungo bianco e due occhi dorati che s’illuminavano di sole. In quel complesso di case e villette che circondavano un grande piazzale alberato ci incontrammo nel primo giorno delle nostre vacanze con Ada e Bruno e i loro tre bambini, il più piccolo dei quali, Tonio, nel passeggino. Fu un’estate bellissima che ci vide fare amicizia non solo con Bruno e Ada, ma anche con tanti altri villeggianti più o meno della nostra età, con figli giovanissimi che subito entrarono in sintonia con i nostri figli, divertendosi un mondo, andando al mare o in piscina o sotto un gazebo verdeggiante per i loro primi filarini e confidenze d’amore. Anche noi genitori ci riunivamo la sera per chiacchierare piacevolmente di noi, della nostra vita, dei nostri figli. Il più simpatico era Bruno, sempre con la battuta pronta, sempre ironico, divertente, allusivo, motivante per tutti. Generoso oltre ogni dire. Una sera i miei figli diffusero la voce della bontà dei miei panzerotti, delizia di parenti e amici. Era vero. Non sono mai stata una brava cuoca, ma ero veramente imbattibile nel fare i panzerotti. Ebbene, una sera preparai tre chili di panzerotti per tutto il villaggio e ci divertimmo da matti anche perché cominciò a piovere a dirotto e ci fu anche un black out per cui gli uomini, capeggiati da Bruno, andarono al paese Frigole distante qualche chilometro per comprare candele o fiaccole. Tornarono con i lumini per cimiteri, ma ciò non spense la nostra allegria, anzi!

Da quella estate non ci siamo più separati.  Siamo stati ogni anno ospiti della loro splendida villa nel paese dei miei suoceri, Surbo. Ospiti nella loro villa al mare, altra meraviglia. E prima, ospiti in una casa che aveva l’affaccio sul mare: dalla porta retrostante l’ingresso ci si tuffava direttamente nel mare salentino. Quanti compleanni di Ada abbiamo festeggiato di anno in anno il 16 agosto! E risate e scorpacciate di pranzi favolosi che Ada cucinava, con grande maestria e mai stanca di donarsi per tutti, per noi e tanti altri parenti e amici che avevano piacere di ospitare. Amicizia disinteressata, sincera, duratura nel tempo. E scherzi, favoriti anche da un fratello gemello di Bruno che si prestava ad una serie di simpatici equivoci. E tanti giochi da fare insieme all’insegna della semplice goliardia, di cui Bruno era il capo indiscusso. E da loro abbiamo incontrato Corrado e Maria e la loro storia d’amore, il nostro stare bene insieme sempre e comunque. Fino a quando tutto è venuto meno prima nella nostra casa e due anni dopo anche Bruno.  Ma già prima di lui ho dovuto dire addio a Corrado, eroico marito di Maria, sorella di Ada. Di loro e della loro straordinaria storia, prima che sia troppo tardi, scriverò, per lasciare un altro richiamo ai giovani di oggi perché sappiano che il vero amore esiste ed io, anche tramite loro, posso testimoniarlo.

Corrado è una promessa e una nostalgia. Maria, un canto di abnegazione.

Bruno è altro rimpianto scolpito nel cuore.  Bruno e Ada persino testimoni alle nozze di Peppino e Raffaella, la mia primogenita, oltre trent’anni fa… Poi, dopo un po’ di anni, sono cominciati gli addii.

È come in una sinfonia degli addii,

Dapprima un oboe e un corno

Poi il fagotto e un altro oboe

Quindi l’altro corno e il contrabbasso,

Ciascuno eseguendo

Prima di terminare

Il suo piccolo assolo:

Lasciando il movimento spegnere

Sull’ultima battuta

Dei violini.

Una intensa rivisitazione di un grande poeta contemporaneo, Franco Buffoni, della Sinfonia degli addii di Haydn e dei sui musici… Suggestione di un concerto particolare che ha suggerito ad una mia amica, straordinaria e dolcissima poetessa, il titolo della sua dolente e luminosa raccolta di poesie I musici di Haydn (Ada De Judicibus, SECOP edizioni).

Solo più tardi ho ripreso di nuovo a scrivere. Di noi, dei nostri figli, dei loro matrimoni e dei nipoti che ci hanno dato. E di Tonio, conosciuto nel passeggino che, nel tempo, era diventato il mio “sapientino” per la sua straordinaria intelligenza. Oggi è uno stimato medico, ma continua a chiamarmi zia Lina. La loro realizzazione è stata anche la nostra in una condivisione che non è venuta mai meno. Fino ai nostri giorni.

E, intanto, mi ero ripromessa di scrivere solo dei momenti di gioiosa spensieratezza e delle esperienze belle vissute nell’arco della nostra vita (mia, degli altri), e invece mi accorgo che questi ricordi sono ben più tristi di quelli di cui ho amato parlare nel mio “Spoon River” ultimamente. Non sempre si possono mantenere promesse e buoni propositi. Qualcosa, al di là della nostra volontà ce lo impedisce. Negli anni, del resto, ho dovuto sempre più confrontarmi con la morte, io che ne avevo terrore e cercavo di tenermene lontana. Giunge anche il tempo che la vedi fiorire come gramigna ad ogni passo e non si può più ignorarla o fare a meno persino di parlarne. E ora, purtroppo, non faccio che parlare di morte e di morti. Come se la vita non fosse niente altro. Oppure mi stesse precocemente presentando il conto. Chi o cosa mi spinge a farlo? Perché? Forse per via degli anni che m’inseguono senza tregua. E la morte è già un inevitabile richiamo. Forse perché i figli stanno scoprendo qualche filo argentato nei loro capelli. Forse perché, ancora una volta, molti scenari sono cambiati nella nostra costellazione familiare. Alcune stelle si sono spente, altre accese.

E domani riprenderò a parlarne in onore dell’Amicizia che ci fa onore, nel tempo e nello spazio e anche Oltre. Angela/Lina

  

venerdì 7 giugno 2024

Venerdì 7 giugno 2024: Ancora qualcosa da dire su "Un filo di lana rosso" di Raffaella Leone (dedicato a suo padre)...

La maturità è una viandante che avanza lentamente sul sentiero del tempo tra poche rose e molte spine. Ed io, per ingannare ancora questo tempo incerto e difficile da vivere, trascrivo uno stralcio del III vol. de Le piogge e i ciliegi ancora in cantiere. E desidero ancora fare un piccolo dono a lei e a Primo suo padre dopo questi sedici anni senza… Ma è anche un pensiero costante al mio eroe di ogni tempo: mio NONNO! Senza di lui niente sarebbe accaduto. Ancora oggi mi dà le ali per volare... 

<Raffaella, solo qualche anno fa, da adulta, ha scritto e pubblicato con la nostra Casa editrice (sì, papà, abbiamo dal 2004 una Casa editrice “altra”, cioè diversa: attenta alla qualità più che a fare denaro con una sciatta quantità) una storia per bambini di tutte le età, Un filo di lana rosso, in cui si esplicita benissimo, tra fiaba e realtà, la distanza giusta, che deve intercorrere tra le persone per mantenere vivo e vero un rapporto di amicizia, d’amore, di sentimenti positivi, autentici e, per questo, anche duraturi nel tempo.

Ma senti, carissimo papà, cosa mi è venuto in mente pensando a quel “filo” di lana rosso. Purtroppo è più forte di me soffermarmi sulle parole per scoprire i tanti significati che magari frullano nella mia testa. Il vocabolario o le enciclopedie non sempre mi appagano nelle loro definizioni perlopiù definite e quasi immutabili. Penso che le mie arzigogolate ipotesi di più ampi significati ti piaceranno:

Filo è una parola breve, che dà subito l’idea del suo essere sottile, quasi di poco conto, di scarsa durata e di cui si può fare anche a meno. E, invece, è di una incredibile utilità. Serve. A cucire due lembi di stoffa separati ma combacianti; a legare tanti steli di fiori per farne un bouquet; a ricamare lenzuola da sposa e tovaglie per i giorni di festa; a stringere altri fili o tutto quello che va messo insieme e tenuto ben unito. Il filo regge un palloncino o un aquilone. Se è di perle, diventa ornamento. Se è di olio, diventa nutrimento. Se è di parole, diventa discorso. Se è colorato, diventa segno di confine e tanto altro. Se è di sangue, diventa incidente, malessere, timore, paura. Se è di corrente, diventa luce. Se è del telefono, diventa comunicazione a distanza. Se è di lana, diventa un maglione o un cappellino. Se è di rossetto, diventa un papavero sulle labbra e accende un sorriso. Se si scopre su un muro, diventa crepa, preoccupante, che sollecita l’intervento di mano d’opera per poterla risarcire, quasi rattoppo. Se è sospeso tra due muri, diventa stendi-panni con tante nuvole bianche prigioniere di mollette, quasi becchi affamati di uccelli senza volo. Se si tende su case e vallate, diventa l’ardimento del funambolo che cammina sul filo del suo sogno…

Ma il filo può anche legare due polsi e unire due persone, due pensieri, due cuori, due sentimenti, due percorsi di vita in uno. Ed è bello pensare che un esile filo possa diventare così resistente da legare due vite, con tutto quello che in una vita è compreso, moltiplicato per due o anche per dieci cento mille volte. Mille volti.

Basta un filo e sembra quasi che si possa andare alla conquista del mondo: del cielo e della terra, del gioco di un bambino, del lavoro di un adulto.

Se poi il filo è di semplice cotone o di preziosa seta, può anche spezzarsi e riannodarsi. Nel primo caso, separa ciò che aveva unito; nel secondo, ripropone la cucitura, il ricamo fiorito di bianco o di innumerevoli colori, il legame tra due o più persone e lo rafforza perché offre, a chi lo possiede e ne fa uso, la consapevolezza della precarietà della sua consistenza e resistenza, sollecitando l’attenzione e la cura per salvaguardare la sua forza, la sua generosa solidarietà.

Se si spezza è importante, dunque, ricorrere al nodo.

E il nodo ha tutta una simbologia antica e moderna. Si alimenta di miti e di poesia. Pensa al nodo gordiano o a quello di Salomone, ai nodi delle reti dei pescatori, o a quelli delle vele dei marinai. Ma c’è anche il nodo al fazzoletto per non dimenticare e i nodi del rovescio del ricamo a indicarci la bellezza del diritto nelle mani del Signore; i nodi che vengono al pettine per una ritrovata verità in precedenza messa in discussione oppure celata, ma anche il nodo alla gola, segno di commozione e di pianto trattenuto. Può dimostrare un legame più forte, ma anche un ostacolo. Una promessa o solo un ricordo. Diventa la misura del tempo e dello spazio. O il punto fermo. E che dire delle tue mani nodose per la fatica e gli anni attraversati? E i nodi sui tronchi dei tuoi alberi dove si annidavano ragnetti rossi e formichine? E i nodi da te praticati per assicurare un’altalena rudimentale al ramo più forte del gelso rosso? E le nostre mani annodate quando io piccolina cercavo di seguirti nella sicurezza della tua mano a tenere stretta la mia? Nodi e fili.

Se, poi, sono rossi, diventano dialogo, intimità, riconoscimento, amore, allegria. Ma anche errore di poco conto, peccato veniale o, piuttosto, una ferita.

Se, infine, è di lana ed è rosso, allora diventa inequivocabilmente il libro Un filo di lana rosso di Raffaella Leone. La prima dei tuoi pronipoti.

E il libro di Raffaella è un racconto lungo che si dipana in un percorso che dalla Puglia porta a Milano e ritorno, legando due polsi in fuga, che si attraggono e si respingono senza tregua, perché sono uniti non solo da quel filo di lana che si spezza e viene riannodato, ma da un sentimento d’amore che lega quasi novant’anni di due vite diverse, l’una nell’altra; di gioco, confidenze, voglia di libertà e rifugio sicuro del cuore perché non c’è distanza che tenga, né altro divario o dissonanza quando è semplicemente una storia d’amore indissolubile, oltre ogni possibile apparenza.

A raccontare questa storia affascinante è pur sempre il filo rosso, che segna un limite e la misura di ogni possibile rapporto umano. Che è, a volte, senza limiti e senza misura, perché riguarda sentimenti che vivono di vita propria oltre il tempo e lo spazio anche se si nutrono di tempo (gli anni) e di spazio (la propria casa), da cui sconfinare aiutati da quel semplice filo, che un’autrice straordinaria ha dipinto di rosso appassionato come il suo cuore e che sa riannodare continuamente perché non si spezzino mai i capi e non si disperdano mai quegli amori “unici”, che hanno profonde radici nell’anima. Nonna e nipotino. Ottanta e dieci anni.

E tutto ricomincia…  anche ritornando a leggere dalla prima pagina il libro perché non se ne perda neppure una parola. Nel tentativo di scoprirne il senso, la profonda verità. 

E… non adombra la storia di noi due, amatissimo papà? Oltre gli anni, il tempo, lo spazio. Persino oltre noi, nel tempo e nello spazio.

Sì, Raffaella, come tutti i tuoi pronipoti fino ai miei nipoti, sa scrivere storie, e non ha dimenticato la nostra storia e l’esempio luminoso della tua lungimiranza, della mitezza del tuo cuore, dei nodi e delle vele… dei legami indissolubili e di quelli che non sono misurabili perché non hanno consistenza, scivolano via, come più volte in questi anni ha sostenuto Bauman, un grande filosofo e sociologo polacco da poco volato purtroppo anche lui tra le stelle.

Ogni vero legame è un nodo d’amore che si trasforma in poesia. Tu me lo hai insegnato con il tuo esempio quotidiano.

L’esempio più dolce ce lo hai offerto in dono negli ultimi anni della vostra vita, tua e di nonna Angelina. Quanto amore animava i tuoi giorni di fatica e di pena presso la tua compagna che avevi sposato fanciulla di rara bellezza e vitalità. Vi separavano tredici anni, ma in realtà fu lei ad evidenziare per prima i segni del tempo, lasciando a te il compito di accudirla, quasi fosse di nuovo una bambina senza esserlo più nel corpo e nella mente. Quale amore più grande in un tempo in cui anche tu accusavi gli inesorabili segni del tempo! Come dimenticare?

Dopo molti anni ho scritto una prosa poetica per dedicarla al vostro amore. A te poeta della vita e alla vostra meravigliosa poesia. La riporto qui perché i giovani possano riprendere a sognare di incontrare un amore unico come il vostro e di abbandonarvisi senza avere più paura di amare…

Lui: Il giorno che m’incontrerai avrai un fiore antico tra le mani. Avrai cuore di panna e occhi di nebbia.

Lei: Avrò un vestito verde di primavera e fiori tra i capelli e stelle di mare. Ricorderai il mio sorriso di ciliegi e rose e le mie mani fiocchi di neve. Nel “parco delle rimembranze” mi porterai in volo.

Lui: Forse solo allora ti scriverò ancora come mai sul vetro del passato. M’inviterai a ballare come allora e come allora sarai foglia di vento. Sarai fremito ardente, dolce canto, carezza inascoltata, parole di rimpianto.

Lei: Non dirmi niente. Sognami soltanto.

Lui: Il giorno che mi vedrai arrivare, avrai negli occhi la fanciulla riso d’argento, cometa d’altri cieli, onda di mare, fianchi di luna e passo di giunchiglia. Ti avvolgerà con le sue ali di seta, ti racconterà la sua poesia. Ti sorriderà con gli occhi di mandorla scura del giorno che ti conficcò una lama nel cuore e fuggì via inseguita dal tuo tormento. Non dirle d’averla attesa tanto. Non sai che non si attende chi si ha già?

Ebbero racconto di perle i tuoi sguardi più che le tue parole e un sorriso chiaro sui suoi giorni che forse ebbero nuovi domani.

Fino a giungere a me che ho ormai tanti anni più della tua Angelina, ma tu continui a salvarmi, come con lei allora, con la forza delle tue nodose mani.

Purtroppo, mio amato papà, non sempre la vita in due viene vissuta così, conservando nel tempo amore, protezione, cura, abnegazione; molto più spesso, soprattutto ai nostri giorni, tutto viene vissuto velocemente e a fatica, tra mille difficoltà di comunicazione, comprensione, fedeltà. Le coppie poco dopo le nozze già si mal sopportano, sono indifferenti e lontane col cuore e con la mente, cercano evasioni, con conseguenze spesso disastrose. Servono “pause di riflessione”, che sono l’anticamera della separazione e del divorzio. Si rivendicano diritti e si dimenticano completamente i doveri.

È una società, questa, più improntata all’odio che all’amore, più legata ai beni materiali che a coltivare sogni, ideali, speranze. Non esistono più il prossimo, la solidarietà, il senso di giustizia verso gli altri più che verso sé stessi. Non si riesce più a guardare il cielo.

E, intanto, mio indimenticato papà, ecco una nuova stagione. Dopo un anno da dimenticare e di cui ti parlerò a lungo. Certo, tu sai tutto e sei stato con me ogni attimo, per salvarmi, aiutarmi, proteggermi, sostenermi e consolarmi nei tanti momenti di sconforto. Per farmi compagnia in una solitudine non voluta e inevitabile.

C’è aria di primavera in questi giorni di sole che lasciano dischiudere germogli su rami nudi e spenti dopo il lungo sonno invernale. Sembrava non dovesse più accadere e, invece, ecco il prodigioso risvegliarsi della natura con il ritorno delle rondini e le prime pratoline tra l’erba appena nata.

Questi nuovi giorni di sole mi portano a ricordare che la primavera ci spinge a sentire fortemente la voglia di uscire per incontrare gli altri, amici e conoscenti. Mi riporta al nostro primo incontro. Era primavera. Nacqui a fine maggio. Sì, potrei parlare del nostro incontrarci alle otto di sera quando mi decisi finalmente a venire al mondo, dopo una lunga attesa prima che babbo partisse per la guerra, ma l’ho già fatto nei primi due volumi del romanzo che parla di te, di noi. Rischio di ripetermi.

Allora, mi sembra più opportuno oggi parlare dell’INCONTRO in generale, un argomento che mi sta a cuore e che ritengo molto attuale.

E tu cerca come sempre di seguirmi, anche se parlerò “difficile” (ora puoi farlo più che mai: non ci sono ostacoli di sorta in Cielo), perché è un modo di scrivere che sempre più mi piace. Sono invecchiata anch’io col passare in fretta degli anni e il linguaggio sincopato dei giovani e giovanissimi, con molti anglicismi non sempre utili e necessari, non mi appartiene. È così bella la nostra lingua, così musicale, così ricca di sfumature, di sentimento. Occorre riappropriarcene per “incontrare” le “nostre” parole, la “nostra” identità, la “nostra” millenaria cultura. E tu mi seguirai, come hai sempre fatto. Con tanto amore e con tanta libertà di giudizio. Niente è impossibile a chi ama>.

                                                       

È vero. Niente è impossibile a chi ama. E noi viviamo con amore, per amore. Anche la vera Amicizia è Amore. Ne riparleremo. Angela/lina

                              

martedì 4 giugno 2024

Martedì 4 giugno 2024: 16 anni di un arrivederci ancora da vivere...

Era appena trascorsa la mezzanotte quando mi dissero che… non voglio ricordare. Ogni anno ne parlo e aggiorno ricordi. Ogni anno avverto l’urgenza di raccontare ancora. Non me ne vogliate. Anche i ricordi dolorosi hanno bisogno di condivisione. Ancora di più se si sovrappongono dolore a dolore fino a non riconoscere più i confini dell’uno e dell’altro. E oggi è proprio così. Ho bisogno della vostra compagnia. Del vostro sostegno a rinfrancarmi almeno un po’. E riporto qui una poesia che ho scritto sul quasi saggio La coccinella dalle sette punte, che alcuni di voi conoscono già. Così, per ingannare il giorno, così per ingannare il dolore. Così, per essere insieme, come sempre a modo mio, confidando nella vostra presenza virtuale al mio fianco. Presenza salvifica che, “almeno per oggj, sovrasti paure e dolore e pensieri come lame nel cuore…”:

… ritrovarci vorrei

tra le stelle e l’alba

quando avremo cent’anni,

con gli anelli intrecciati alle dita

e ai polsi cinquanta catene,

e un cerino ancora acceso

in un incendio di foglie rosse

e gialle a ricordarmi l’autunno

dei bicchieri colmi di vino.

E avremo una casa un giardino

fiorito di plumbago e ginestre,

e sul chiavistello del nulla

una coccinella dalle sette punte

a portarci fortuna.

Con i suoi occhi di luna.

Un cane bianco e un gatto nero

avremo

il canarino perduto e ritrovato

e un canto di vela a regalarci

il mare

con l’azzurro di Chagall

alle pareti e un sogno ancora

insognato da sognare.

Piedi freddi d’amore avrò

e mani calde

preghiera notturna sarò

d’audaci carezze nell’arco delle braccia.

Avremo un canto di vino novello

nelle coppe insaziate

delle nostre mani.

E brinderemo al nostro

sbrindellato amore prima

dell’ultima sera.

Fragole di lucciole sul prato

del nostro risveglio

a coprire i battiti del cuore

e un biglietto nascosto

tra l’erba rinata

a ricordarmi il silenzio

più lungo dell’attesa…

… ci abbracceremo memori

di un passato fatto di noi

ubriachi di parole e di risate,

leggeri e innocenti. Saremo.

Uniti come non mai ci parleremo

Intrecciati a radici di terra

e di acque e di nuvole e di vino.

Per continuare a danzare

nelle ore che verranno

una seconda volta

come la prima volta…

E saranno calici levati al cielo, e sarà ritorno

e sarà eterno…

(… per ricordarcelo sempre quando rinasceremo…)

Sì, per rinascere ancora e ancora.    

E questa notte ho scritto:

Piano piano ti raggiungo

aggiungendo anni agli anni

mai sfiorati dai tuoi giorni.

Piano piano senza fretta

Perché non sei mai davvero andato via.

Sei qui ancorato allo stormire

delle foglie che mi porta il vento,

alla pioggia che segna di silenziose

lacrime i vetri che portano occhi

di rose e nontiscordardimè

nel giardino di giugno

          ad un passo dal cuore.

Piano piano continuo a scrivere di te

parole che nessuno può udire

che pure scrivo e non dico

sotto questo cielo per non farmi male.

Cielo lontano da nuvole annidate

come stracci di pensieri che non voglio pensare.

Piano piano, sosta dopo sosta,

affannata in carrozzella ti raggiungo

dove mi hai detto d’aspettarmi.

E non conosco la strada, il sentiero, il ponte

che nel sogno ricama arcobaleni.

Giro a vuoto intorno al tuo starmi accanto

più di allora,

quando le ore avevano carezze

rimaste inascoltate tra le mani:

le mie le tue per non darci mai un addio.

Fu solo un arrivederci

E neppure un sorriso tra le tue parole

    ti ho amato sempre

                     ti ho amato tanto…    

 (e io le attendo come allora

              Dietro l’angolo di casa…)

 

Grazie per la vostra affettuosa vicinanza. Ne sento tutto il calore e ve ne sono grata. Angela/lina