LA POETOLOGA
Ho creato questo blog perché mi piace incontrare gli altri sul filo della poesia e della scrittura in genere. Ascolto, reciprocità, confronto, comprensione, condivisione...
giovedì 6 marzo 2025
Giovedì 6 marzo 2025: IL SILENZIO... alla ricerca di una possibile tregua per vivere al meglio il Nuovo Anno... (seconda parte)
Del resto, NEL SILENZIO, le cose in silenzio si raccontano: il silenzio della quotidianità, della natura, del paesaggio, della pioggia, del mare, da lasciare intatto nel tempo, dilatandone il senso e il significato.
È come stare al buio e incontrare il silenzio delle stelle. È come avvertire la calma del silenzio dilatato dopo una tempesta, dopo il pianto prolungato di un bambino, dopo la caciara di una sagra paesana, dopo il terrore assordante della guerra. Assaporarlo dopo l’inquinamento acustico dei nostri giorni e scoprire che c’è e che ci salva: invocato, atteso, benefico, molteplice nei suoi significati altri che mille occhi attraversano senza scoprire e che il silenzio rende più visibili e profondi. È come penetrare un mistero. Il linguaggio misterioso delle cose, che tra l’altro, in una società distratta dal chiasso, vuota di senso e ricca di teorizzazioni, ammalata di individualismo e assoggettata a considerazioni astratte che spesso sono solo elucubrazioni virtuosistiche della mente, riporta il nostro sguardo sulla “cosalità” perduta, sulla materica composizione del mondo come soglia di ogni altro pensiero, di ogni altra conoscenza. Fisica e metafisica. Queste ultime partono dal silenzio delle cose, per “vederle” oltre che guardarle e scoprirle e valorizzarle. Per ascoltarle.
Silenzio, perciò, è una parola che mi piace. Se penso al silenzio che fa parlare il cuore. Come diceva mio nonno quando sorprendevo lui e mia nonna seduti vicini nella penombra della sera, dopo aver recitato il rosario, dietro i vetri di casa, in silenzio, a salutare il buio che annullava le cose e i rumori e le voci del loro piccolo mondo: la strada di casa, allora ancora un po’ in periferia o la semplice via di un amore che li teneva indissolubilmente uniti. Sereni, nonostante gli innumerevoli dolori e dispiaceri da entrambi vissuti.
Anche a Primo, il mio tempestoso compagno per circa quarant’anni, piaceva il silenzio del nostro raccontarci con gesti d’amore il giorno, lui che aveva come codice preferito di comunicazione l’urlo, e si meravigliava del mio accoglierlo in silenzio, “senza lo scontro”. Se torna il silenzio: era una aspirazione ed una invocazione. Una necessità di vita per riscoprirci insieme.
Ma silenzio… è anche una parola che mi sgomenta, quando penso al silenzio che crea un vuoto; che separa con fratture e divisioni; che è culla di odio e di rancore; che cova vendetta; che coltiva un equivoco e lo fa ingigantire nella mente; che nasconde un sentimento mai svelato e, quindi, mai conosciuto e riconosciuto, mai vissuto nella pienezza del gesto, oltre che delle parole. Silenzio atteso e temuto, dunque. Silenzio invocato e nutrito. Infranto e chiacchierato. Silenzio raccontato.
Il silenzio è il nulla prima del Big Bang, esplosione del Creato. Che si racconta con le cose. La materia, innanzitutto. Generata dal nulla per un atto di Energia purissima. Come direbbe un mio amico poeta e chimico. È il vuoto tra due rumori, tra due suoni, tra due parole. È attesa e ricordo. Speranza e rimpianto. Il pudore e il timore. L’invocazione muta dell’anima. La preghiera. È la cattedrale gotica che s’innalza con le sue guglie al cielo in una penombra che invita al raccoglimento per ascoltare meglio “le voci di dentro” (Eduardo o Dacia Maraini ne hanno parlato con dovizia di particolari): quelle che ci parlano dell’invisibile che è in noi e fuori di noi. L’arcano, il mistero, il sogno. L’indicibile perché tanto più grande delle parole per esprimerlo. L’immenso. Lo stupore. Il linguaggio dell’Universo. L’incontro insaputo con Dio...
“Il silenzio come momento aurorale dell’ascolto” (Massimo Baldini).
Solo dopo è possibile cogliere l’armonia e la dissonanza: di rumori, suoni, musica, parole. “Il nostro è un tempo senza silenzio, senza armonie, è un tempo colmo di convulso fragore… La chiacchiera è la sola parola possibile in tempi in cui il silenzio è morto e regna sovrano il rumore… A ben guardare, la chiacchiera è la parola di tutti coloro che vogliono solo parlare e mai ascoltare, è la parola superflua, inefficace” (ancora Baldini). Il filosofo e scrittore Michele Federico Sciacca scrive: “Chi chiacchiera non si preoccupa di comunicare, ma solo d’infilar parole che non dicono niente. Non persuade, né convince; stanca e infastidisce. Non lo ascoltiamo, né, in fondo, a lui interessa l’essere ascoltato”. Ascolto e silenzio, dunque, devono procedere insieme. Entrambi si fanno inavvertitamente silenzio e ascolto interiori. Ignazio Silone afferma che: “Il silenzio interno significa che ogni cosa è al suo posto, ogni cosa è in ascolto”. E Alfred De Musset sostiene che: “La bocca custodisce il silenzio per ascoltare il cuore che parla”.
Ma occorre fare attenzione perché a volte il silenzio può essere la morte dell’ascolto. Si tratta del silenzio cupo, ostile, desertico, offensivo, di isolamento e rifiuto, di cui ho già parlato. Ma esiste il silenzio agognato e amato in tanto frastuono che ci sovrasta.
QUANDO TORNA IL SILENZIO
È un silenzio nuovo del nuovo giorno
- penombra di canto e silenzio di sorrisi -
i bambini lasciano parlare il cuore
coltivando un amore grande
che sa di luce anche quando la sera ci sfiora
e accarezza la vita appena nata.
Prodigio del sogno accarezzato e preghiera
sussurro del giorno che comincia
e racconta il mistero della nascita
al canto della natura
(che non teme la solitudine
dei balconi senza bimbi ad imbrigliare il cielo).
Penombra e Silenzio, dunque, lasciano parlare il cuore, coltivando un amore grande per le ombre che sanno di luce e per la luce che si fa ombra quanto più è presente il sole. Penombra e Silenzio si fanno compagnia. Accarezzano le stesse cose. Intuiscono le verità in esse nascoste in attesa di scoprire la Verità che tutte le comprenda e le inglobi. Si sostengono e si completano. Si arricchiscono di senso e danno un significato più profondo alla vita.
Annah Arendt afferma che solo nel silenzio e nella penombra è possibile conoscerci e riconoscerci. E la conoscenza di sé e il proprio riconoscimento danno all’essere umano la giusta dimensione di quello che è nel mondo e gli evita errori di valutazione e di autovalutazione. Di sovraesposizione. Come accade ai figli dei grandi, dei potenti, degli uomini di spettacolo, sempre sotto i riflettori, sempre immersi nel clamore della folla col rischio di perdersi, lacerati in tanti minuscoli sé di cui la cronaca famelica s’impadronisce. Divorati dall’ansia di apparire o dalla paura di non essere visibili. Di non farcela. Di non essere all’altezza della fama dei loro genitori. Bruciati da soli artificiali che tolgono respiro e abbagliano e accecano e disorientano e sfiniscono, distruggendo l’intima essenza della loro umanità. Della spiritualità. Il clamore è spesso il fallimento della nostra autenticità, perché il più delle volte ciò che appare non è.
Ci occorre e ci soccorre il silenzio. Quello che ci riporta alle parole mute delle cose, alla loro storia nascosta e forse dimenticata. Al canto della natura. Al sussurro del giorno che comincia e si racconta in un segreto d’intenti, e di passi per realizzarli e di gesti per costruirli, perché ogni giorno sia un giorno nuovo e aggiunga qualcosa di diverso alla nostra vita. Alla consapevolezza di quello che siamo realmente, indipendentemente da chi ci ha generati. Si tratta di libertà di essere per quello che siamo e possiamo essere. Niente di più. Niente di meno. In tutta la nostra pienezza e autodeterminazione. Diamo agli altri quello che possiamo e penso sia il solo modo per dare quello che siamo. Autenticamente noi. E di questo dobbiamo essere fieri e appagati. È questo tutto l’Amore possibile. Forse mai misurabile. Ma è Amore. E, se è, non necessita di alcuna differenza, alcuna misurazione. Ci aiuta nel faticoso, gioioso, tormentato, chiaro, complesso, semplice nostro andare per le strade della vita. Da soli. Con gli altri. Viandanti in uno spazio e un tempo che ci appartiene e che pure non è nostro. Di cui forse dobbiamo dare di conto, per ascoltare il respiro intimo di una strada silenziosa, il sogno segreto di una molletta innamorata del sole, l’ardimento dei cavi elettrici ad imbrigliare il cielo, la solitudine di un balcone senza bimbi.
E oggi sono ancora qui a scrivere di tutto questo per lasciare ai giovani e giovanissimi un messaggio di Amore e di Speranza, in un mondo sempre più difficile e alla deriva. E non si può più sperare nel silenzio a soccorrerci. Occorre superare il silenzio e parlare per vincere anche la solitudine.
Leggo molti loro testi di poesie e di canzoni che sono pieni di sconforto, di rifiuto di vivere, di parole violente e blasfeme che sicuramente i ragazzi scrivono sotto l’effetto di droghe sempre più devastanti. Ho pena per loro anche perché molti sono giovanissimi e già sono violenti, aggressivi, spietati nelle loro “esecuzioni” aberranti contro i più inermi (vecchi, donne, ragazzine, bambini). Occorre fare qualcosa.
E forse la prima cosa da fare sarebbe ascoltarli. Ne hanno bisogno come non mai. Tutti li colpevolizzano, ma nessuno li ascolta: non i nonni non sempre frequentati o ascoltati, non i genitori spesso assenti per tanti motivi, non ultimi i diversi modelli di genitorialità che offrono, favorendo il più delle volte la dispersione dell’identità, già normalmente presente negli adolescenti. Gli insegnanti sono portati più a completare i programmi annuali che a dialogare dei reali bisogni dei loro alunni e studenti in “posizione di ascolto”, e i social contribuiscono alla solitudine reale velata da pseudo amicizie virtuali. E si perdono e li perdiamo. Nella nebbia fitta che non ci permette di “vedere”. Nel rumore assordante dei nostri giorni in cui non riusciamo a “sentire”, e in questa società “liquida” (ancora Zygmunt Bauman, da poco venuto ad abitare le stelle) che ci scivola tra le dita senza permetterci di afferrare la loro anima e uncinarla al nostro cuore in “posizione di ascolto”, tutto si perde e niente più si raccoglie. Ma anche per tutto questo dobbiamo ascoltare innanzitutto il silenzio perché, poi ecco vibrare nel silenzio i colori delle cose. Morbidi, luminosi, mai accecanti. Sereni e rasserenanti. Nella contemplazione di quanto ci circonda e ci ricorda la vita: un petalo rosso di rosa stupito tra tanto azzurro… una strada d’estate oltre il volo alto dei gabbiani… grovigli di rami e di tubi nell’artificio di ciò che è umano e di ciò che ignora l’uomo… L’apparente assenza dell’uomo/donna è presenza costante della mente e del cuore, che non hanno bisogno di un corpo messo in mostra o esibito per esserci. L’uomo o la donna sono là dove lo sguardo dà vita alle cose, annota una realtà che emoziona; dove un oggetto è frutto del loro ingegno e delle loro mani; dove una goccia di pioggia rende il proprio cielo liquido nel mistero della inquieta somiglianza con le lacrime.
E c’è ancora un silenzio a creare atmosfere in sospensione tra la realtà e la magia di ciò che va oltre la realtà… Il silenzio cantato dalla natura. Nenia triste del mare. Allegria di bianchi spruzzi a riva. Sfinimento di languide onde alla battigia. Paziente attesa di pescatori con canna e lenza e amo sotto il sole. Hemingway ritorna ad affascinarci con una barchetta che ricorda il suo vecchio Santiago nella estenuante lotta con il mare e con un pesce enorme che dopo ben ottantaquattro giorni gli si consegna vinto, in un allucinato silenzio che urla tutti i suoi ricordi, oltre le parole che non serve più dire…
Ma, in tutto ciò che si narra, si ascolta, si scrive, si legge, si vive insieme, in una coralità che vince la solitudine e il silenzio, fioriscono versi di autentica amicizia, autentico amore, autentica Poesia…
Vi abbraccio in silenzio, ma col cuore che parla in un sussurro di conchiglia da portare all’orecchio e ascoltare... Alla prossima. Angela/lina
martedì 4 marzo 2025
Mercoledì 5 marzo 2025: SOLITUDINE E SILENZIO… alla ricerca di una possibile tregua per il nuovo anno (2025)
Ci restituiscono una maggiore comprensione di noi? Penso proprio di sì...
E, in un mondo assordato da migliaia di fucili e cannoni e bombe e guerre da poter distruggere nell’arco di un battito di ciglia l’intero nostro pianeta, questo infinitesimale “atomo opaco del male” (Pascoli, “X agosto”), questo racconto potrebbe essere vissuto come una salutare tregua:
La Solitudine e il Silenzio bussarono alla porta. Entrarono velocemente. Ispezionarono ogni angolo della casa. Scelsero lo studio per sedersi. Erano nudi. Inermi. Un groviglio di linee e punti inestricabili, tracciati in un marmo ruvido e inerte. Tela di ragno a tessere un inganno.
La scrittrice Angela De Leo li vide. I loro occhi puntati su di lei la spaventarono. Sembravano scavare per carpire ogni minima vibrazione, anche la più riposta.
- Che volete? - chiese Angela, mentre si accingeva a scrivere sulle pagine bianche di un quaderno sgualcito di scuola elementare. Non ci fu risposta. Un ammiccamento di sguardi. Cielo e terra confusi. Non rientravano nelle esperienze/conoscenze dei bambini. - Che volete? - chiese ancora.
- Abbiamo freddo. Tanto freddo.
- Andate via - disse lei. - non saprei come darvi calore. Nella mia casa c’è un calore naturale che non può riguardarvi.
Non si mossero. Mormorarono: - Noi staremo qui.
Una ridda di pensieri trafisse l’aria. Rimbalzò per la stanza. Vorticò. Aspettava di essere ordinata da una mano accogliente, generosa, sapiente. Che in quel momento non c’era.
Il foglio bianco a righe era lì davanti a lei, che non riusciva ad afferrare una sola parola. Si sentiva affranta. Avvolta da niente. In un deserto bruciante di sabbia (di rabbia?), mentre il vento, entrato nella stanza con i due intrusi, disperdeva, senza pietà, le lettere dell’alfabeto venute fuori dai libri spaginati.
Solitudine e Silenzio, sempre stretti in un abbraccio sinistro, godevano della sua disperazione, compiaciuti della loro ennesima vittoria.
- I veri potenti al mondo siamo noi - si dissero pieni di tracotanza, ignorandola perfidamente. - Gli uomini non riescono a vincerci. Dovrebbero ucciderci. Ma non osano farlo. Davanti a noi ingrigiscono. Si consumano fino a diventare un mucchietto di cenere. Poi, rivolgendosi ad Angela:
- Puoi anche chiudere il quaderno. Come vedi, non disponi più neanche di una sola lettera dell’alfabeto. Ormai sei nostro ostaggio. Da oggi dovrai soltanto stare a guardarci, a contemplarci, adorarci, sperando che la stanchezza non ti vinca e che ci vinca e ci faccia addormentare o ci annienti del tutto. Non ribellarti, però, noi siamo resistenti persino al gelo che ci circonda. Puoi sperare in una tregua, ma non illuderti, sarebbe comunque di breve durata.
- Mio Dio! - gridò atterrita la scrittrice. - Non ho via di scampo! Eppure, non ho mai amato circondarmi di solitudine e silenzio. Ho sempre amato stare con la gente, con i miei cari, con i miei lettori nel dono reciproco di un libro scritto, letto, amato nell’atto di scriverlo, nell’atto di leggerlo. Una comunione di cuori e di anime. Un essere insieme attraverso le parole da raccontare, da ascoltare. Per imparare a conoscerci, comprenderci, amarci. Per stare insieme, insomma. Insieme! Noi esseri umani non siamo nati per vivere da soli. Non apparteniamo al silenzio. Abbiamo avuto il dono della parola. Per stringere legami. Per essere più forti in due, in quattro, in otto, in cento, in mille, in centinaia di migliaia, in miliardi. E tutte le creature del creato hanno un loro linguaggio per non essere mai sole...
Ma le sue parole, disperate e appassionate, non sortirono alcun effetto. Angela si sentiva davvero senza via d’uscita e cominciò a tremare fino nelle ossa. O forse era soltanto il cuore. Davanti a lei cominciarono a scorrere immagini di uomini e donne che, come in processione, girovagavano per le strade della città, gravati da fardelli pesantissimi. Schiena curva. Volto corrucciato o straziato. O privo di una qualsiasi espressione a renderli vivi. Sembravano diventati di pietra vagante e trascinavano sé stessi. Non comunicavano tra loro. Neppure col vicino di viaggio. Non gesti. Non parole. Neanche una sillaba a renderli vivi. Erano divisi da muri altissimi su cui erano scritti i loro nomi, ormai svuotati di significato. Di storie. Le loro storie sfilavano accanto come se non gli appartenessero: amori vissuti, amori finiti, speranze disarmate, angosce dilatate. Dal selciato, su cui avanzavano lentamente e a fatica, i detriti dei dirupi gridavano:
- I vostri sogni sono morti perché non avete parole per raccontarli. Ma consolatevi, tanto lo sapete, o i sogni muoiono all’alba o portano alla follia quando prendono forma e dimora negli occhi del giorno.
- No, questo noooo! - gridò ancora Angela tra implorazione e sgomento. Guardò il quaderno invecchiato e scolorito. Prese la penna neghittosa e indispettita, sistemò calamaio e carta assorbente, e si accinse a scrivere, mentre le mosche e le zanzare, i grilli e le cicale, confinati nella sua testa da tempo immemorabile, cominciarono la solita sarabanda delle idee. Doveva concentrarsi e combattere quell’incessante rumore senza parole, senza una sola sillaba da far cadere con fare distratto, ma sempre più attento e forte per scovare dove si fossero acquattate le lettere sparse dell’alfabeto. Le lettere smarrite. Le vide vorticare nel vento. Non era danza, non era canzone quel turbinio che le portava in alto e le rendeva imprendibili. Angela armeggiò con viti e bulloni per penetrare in quel vortice, si protese fino allo spasimo per afferrare quelle lettere ribelli e smarrite e riuscì a imprigionarle nelle mani. E, magia di ogni incanto, cominciò a sistemarle sul foglio, incastonandole velocemente col pennino intriso d’inchiostro. Le lettere riconobbero l’antica mano, il cuore d’erba e rugiada, l’anima d’azzurro cielo/mare e si arresero docili e felici alle righe come solchi arati in cui dolcemente posarsi per germogliare e farsi fiori di rinnovata primavera. E lei, la scrittrice di mille storie in prosa e in versi, ricominciò a raccontare di sé, degli altri, dei tetti e delle case, degli alberi e dei cespugli, della musica e del canto, delle strade e delle onde, dei treni e delle vele, degli aerei e dei missili, della Luna e di Marte e del Sole. Dell’amore che imbriglia le stelle e accende i sogni come fiaccole ardenti nelle mani degli innamorati. Dell’universo che sembra indifferente ad ogni cosa e invece è un palpito d’amore ad avvolgere ogni infinito, concentrato in un punto infinitesimale di ogni finitudine umana.
E nel mutuo scambio di potente energia la Luce tornò. I piccoli orti divennero prati immensi. Le parole saltavano, danzavano, si abbracciavano. Cantavano ubriache d’allegria.
Angela a fatica posò la penna che correva correva correva ad azzerare lo spazio e il tempo per vincere anche la morte. Guardò davanti a sé la Solitudine e il Silenzio perché non le facevano più paura. E si accorse che erano spariti. C’erano al loro posto, con gli abiti della festa, tutti i protagonisti dei suoi libri, i tanti personaggi e persino le comparse. Si accorse tra le lacrime che erano minuscoli frammenti di sé. Lei moltiplicata in ogni sua storia in ogni suo verso. E, invisibile ma vera in ogni dettaglio dei suoi personaggi, in ogni più piccolo filo d’erba a distinguersi e ad amalgamarsi nell’unico verde dell’immenso prato. Riconobbe le sue parole. Si riconobbe. Lei finalmente padrona delle parole che la connotavano. Anche lo studio era un disordine di mille arcobaleni spalancati nel cielo, come dopo ogni tempesta.
Fu allora che scorse in un angolo remoto, tra il pianoforte e la chitarra, Apollo che le porgeva la lira, segno di vita, e il folle giovanissimo Eros che le porgeva l’arco, simbolo della speranza, e le nascondeva la freccia, simbolo di ambiguità: vittoria o morte. Ma lei non voleva vittorie e neppure sconfitte. Voleva vivere, com’era sempre vissuta, immersa nelle parole.
Le sorrise la parola con le sue tante verità… e nessuna poi vera. Solo la Parola, forse. Ma era ancora in cammino per sfiorarla…
E oggi Mi chiedo: fu un’allucinazione? … forse… chissà! Oppure una tregua… Sì, una tregua per ritrovarmi e rinascere affacciandomi alla finestra del Nuovo Anno, carico di luci, di ombre e di penombre, dove riposare con i pensieri, dove riafferrare, una ad una, tutte le lettere del mio alfabeto magico e ritornare ad abitare la Luna, che sorride ai folli, ai poeti e agli innamorati e incontrare il loro sorriso a ogni quarto di luna, facendo scorgere un mondo migliore, in cui Sperare!
A domani la seconda parte. Angela/lina
venerdì 28 febbraio 2025
Venerdì 28 febbraio 2025: tempus fugit e domani è già marzo. Vestiamoci di SPERANZA e CORAGGIO: due parole care a PAPA FRANCESCO...
Tra gli ultimi coriandoli di Carnevale e i primi giorni di penitenza della Quaresima, mi sono imbattuta in due parole, che ritengo meravigliose per tanti motivi, non sempre scontati e non sempre da tutti accettati. Ma io corro il rischio di parlarne perché sono fermamente convinta che possano lenire in qualche modo le nostre pene, le nostre inevitabili fragilità. E anche per un altro motivo, che mi sta molto a cuore. Sono due parole suggeritemi da Papa Francesco, perché le ha messe in evidenza dal suo letto di dolore, in questi non facili giorni per Lui: SPERANZA e CORAGGIO.
SPERANZA e CORAGGIO: due parole il cui etimo risale al latino. Bellissime.
Soprattutto nei tempi bui e tristi che stiamo vivendo a livello planetario. Fondamentale
è, per me, oggi, armarsi di Speranza, “ultima Dea” del nostro percorso di vita
sulla terra. Dal latino “spes”, come già detto, ma anche dalla radice sanscrita
“spa”, che a me piace di più perché significa “tendere verso una meta”, in
quanto prefigura un “movimento verso”, ossia un viaggio con destinazione... non
sempre scontata nelle modalità, difficile da ipotizzare, da accettare!
Nell’arco dei secoli, comunque, essa ha avuto un significato molto
controverso: i greci la ritenevano una illusione; i latini la negavano; i
cristiani la misero a fondamento delle tre virtù teologali. Per molti filosofi
e scienziati essa è un momento di “debolezza” e di “squilibrio”. Per Pascal
“non si vive, ma si spera di vivere”, dunque la speranza è indispensabile alla
vita. Anche per me è una forza propulsiva decisamente positiva, come lo è per
Papa Francesco che continua a ripetercelo dopo aver pubblicato qualche anno fa Ti racconto la speranza (San Paolo Edizioni,
Roma 2021).
Anche Coraggio = da cor-cordis, deriva da cuore, cioè dalla sua forza
appassionata, che si fa audacia e determinazione e che risiede più nel
palpitare di questo muscolo involontario vitale che non nel fegato che oggi si
può anche sostituire. Per parlare di coraggio, però, occorre parlare di paura
che non ha un’accezione negativa perché è proprio la paura che sollecita
nell’essere umano, ma anche negli animali, una reazione di salvezza che si
permea di coraggio. Ma a me piace abbinare il coraggio anche a cordata (non a
caso hanno lo stesso etimo) perché è “l’unione” che fa la forza. Fare cordata
in una impresa significa moltiplicare il coraggio del singolo e rendere più
fattibile la realizzazione di quanto si ha in cuore di raggiungere. E quale
impresa più grande della solidarietà tra gli uomini? L’estate scorsa sono stata
per una settimana al mare in un luogo incantevole, in cui c’era una cura
particolare per i disabili, facilitata da un’organizzazione particolare tra gli
albergatori: tutti si davano una mano per rendere il soggiorno a tutti i
clienti dei vari alberghi il più confortevole possibile. Bellissima cordata di
angeli a far mettere le ali anche a noi che vivevamo in carrozzella. Siamo,
dunque, tutti destinatari di questo tenero messaggio: aiutiamoci gli uni con
gli altri per non perdere mai la le verdi vie della Speranza e del Coraggio! Ma
i veri destinatari della Speranza e del Coraggio sono i giovani e giovanissimi,
che oggi più che mai ne hanno bisogno. È questione anche di educazione a
cercare sempre motivi di rinascita. Educare, del resto, è un bellissimo verbo
che ha un duplice significato: da ex-ducere = tirare fuori, far venire alla
luce, cioè tener conto e rispettare la personalità dell’educando, aiutandolo a
realizzarsi con le doti innate che possiede; da edo, ossia mangiare, prendersi
cura dell’allievo nel tempo. Pare che la domanda più premurosa da rivolgere a
chi ci sta a cuore sia: “hai mangiato?” perché, come sostiene Elsa Morante, “La
frase d’amore più vera, l’unica è: “Hai mangiato?”. E, infatti, Oscar Farinetti,
rifacendosi alla Morante dice “non è solo una domanda, ma un atto d’amore”.
Nessun educatore (genitori, insegnanti, adulti) può prescindere dal
formare i giovani e giovanissimi a queste due grandi virtù. Oggi la scienza
pedagogica, con le sue “scelte alternative”, ci viene incontro per riprendere a
sperare di formare gli uomini di domani: onesti, solidali e liberi. Ma, per
quel che mi riguarda, anche la Poesia può rappresentare una valida alternativa
alla desertificazione del cuore dei nostri giorni. I ragazzi e i giovani sono
essi stessi Poesia, perché sono portatori di sogni e i sogni sono desideri e i
desideri sono le stelle in cui ruota il loro firmamento. Anche de-sidera può
avere due accezioni: o “intorno alle stelle” oppure “mancanza di stelle” (con
il “de” deprivativo). Quante speranze e quanto coraggio nei giovani che non si
arrendono! Bellissimo il monito di Giovanni Paolo II a loro dedicato: “Prendete
in mano la vostra vita e fatene un capolavoro”.
Sta a noi anziani e adulti, soprattutto amanti di Poesia, scoprire i
loro talenti e prendercene cura perché i ragazzi siano i protagonisti “creativi”
del prossimo futuro! Futuro che quanti hanno la mia età vedranno con i loro
occhi, attenti e incantati.
E, intanto, non posso fare a meno di ricordare il sogno che ho fatto
all’alba ieri mattina: Papa Francesco in persona bussava alla mia porta. Quando
aprivo, sorprendendomi enormemente perché lo sapevo ricoverato con prognosi
riservata al Gemelli, mentre era venuto a piedi fino alla mia casa, balbettavo
frasi di sorpresa, preoccupazione per la Sua salute, di ammirazione per la sua
audacia e il suo coraggio. Lui mi rispondeva che in effetti non aveva tenuto
conto che era ancora inverno e che all’alba faceva ancora freddo, nonostante
qualche sentore di primavera. Mi chiedeva di entrare, dicendomi che aveva
sentito il mio richiamo e la mia preghiera-non preghiera-ma preghiera in grado
di riscaldare i cuori di quanti mi conoscono o mi leggono. Soprattutto dei
giovani che mi stanno molto a cuore. Perché desidero ascoltarli. Sempre. “Siamo
almeno in due ad amarli, ascoltarli e proteggerli”, mi diceva. “Ma in verità
siamo tanti di più a pregare per loro nell’intero pianeta, per scongiurare la
guerra e realizzare progetti di Pace e di Speranza… E che nessuno deve mai
arrendersi…” Con le lacrime agli occhi gli dicevo di sì, di sì, di sì, ma ero
già sveglia e con una nuova gioia nel cuore.
Certo, è stato solo un sogno, ma io mi sono svegliata, ricordando che
in realtà non so più pregare ma ogni notte, nell’intimità silenziosa della mia
anima nel silenzio, accarezzo Anna Paola che dorme accanto a me, e mi sento
immensamente grata al buon Dio dei doni ricevuti e dell’amore che mi viene
donato, molto di più di quello che io dono ai miei cari e agli altri. E mi
sento una privilegiata. “Forza”, mi dico, “ti manca solo un pizzico di coraggio
in più per sperare ancora”. Eppure non mi arrendo… Fino a quando il buon Dio
vorrà…
Ed ecco una poesia che mi colma di Speranza e di Coraggio:
All’alba un sogno tra visione e realtà
a colmarmi di bianco e gelo
nella brina luminosa del mattino
e silenzio protetto
dallo scialle antico della casa.
Mi abbraccia un sorriso colmo di luce
e si fa preghiera e calore e
tenerezza.
Tremo di gratitudine e di attesa
alla carezza che sa di Cielo.
(domani negli occhi di quanti amo
riamata
accenderò lampade di Speranza
e un solo cerino per scorgere
anche al buio il coraggio)
Grazie. Alla prossima. Angela/lina
martedì 25 febbraio 2025
Martedì 25 febbraio 2025: Recuperando "pezzi di scrittura" perché un "lettore sconosciuto", qualche anno fa, ha scritto sul nostro BLOG...
"Angela condivido tutto ciò che hai mirabilmente descritto. Una poesia è il luogo dello stupore, della meraviglia, anche della solitudine... quando ti sieda accanto, la poesia tiene il diario di bordo di una coscienza dell'oltre, dell'attimo colto e separato... Noi possiamo abitare il viaggio, la vita dell'altro da noi, attraversando l'anima delle cose perché tutto è nel nostro sguardo. Grazie Angela!" (sconosciuto)
Pezzi della mia scrittura che un
attento, ma sconosciuto lettore, ha colto qualche anno fa. Quando? Mi piacerebbe recuperarli,
ma non sono esperta in operazioni di recupero di qualsiasi genere si tratti. Ci
provo… Evviva! Ci sono riuscita! O quasi! Si tratta di ABITARE POETICAMENTE IL MONDO, che risale al 13 marzo del 2018 e
che parte da due espressioni che non ricordo se siano mie o meno, ma forse sì: Il
“prendersi cura” contro la “cultura dell’offesa”. Ma il mio “amico sconosciuto”
potrebbe riferirsi ad alcune mie poesie scritte a fine febbraio con un lieve
sentore di primavera nell’aria. Per evitare dubbi e incertezze, ripropongo
quanto da me scritto alcuni anni fa, prima che il periodo più brutto della mia
vita si abbattesse su di me, senza farmi sconti di sorta. Ma dopo sette anni,
che non sono passati invano sul mio corpo, sulla mia mente, sul mio cuore, penetrando
profondamente nella mia anima, sono ancora qui. Contenta di esserci e di
ritrovare i vecchi amici. Contenta di esserci per incontrare nuovi amici. E,
così, eccomi a rinverdire quanto scrissi allora:
<Mi piace proporre qualche riflessione sulla
possibilità che ha la poesia ancora oggi di essere veicolo di salvezza in un
mondo devastato dalla “cultura” della violenza, dell’offesa, della divisione,
dell’odio e della disumana indifferenza nei riguardi di chi soffre, di chi è
debole, solo, disperato, oppure ha bisogno di asilo perché scappa dall’orrore
della guerra, dai morsi della fame, da una terra devastata e senza speranza. In
questi giorni di totale confusione e notevoli discordanze nel nostro Paese, e non
solo, mi chiedo allarmata e delusa se sia ancora possibile oggi vivere con
poesia e di poesia. Prendo quotidianamente atto di essere completamente
disancorata, con i miei ideali e le mie utopie, da questo mondo di pochezza e
di pressappochismo, di arroganza e mancanza di senso storico, civico e sociale
(in termini di unione corale tra gli uomini). Per evitare di ridurre il mio sgomento ai
soliti pensieri romantici e poco realistici, ho cercato di farmene una ragione
con la inevitabilità del fenomeno a causa di una cultura scientifica e
tecnologica, che ha pian piano soppiantato, senza che ce ne accorgessimo, non
solo nella scuola ma nella società tutta, quella cultura umanistica
che ci consentiva di essere ancora “umani”, a contatto con la letteratura,
la filosofia, l’Arte in tutte le sue innumerevoli forme, e, perché no, a
contatto con la natura, principale fonte di ispirazione per poeti, pittori,
musicisti. La scienza e la tecnica, ma soprattutto l’elettronica, hanno finito
per darci in pasto ad una fittizia realtà “virtuale”, che si è sempre più
diffusa grazie ad internet e ai social. Senza volerli demonizzare, ma anche
senza esaltarli oltre misura, li ritengo in buona parte responsabili della “non
cultura” del nostro tempo, con tutte le accelerazioni linguistiche che essi
comportano e sollecitano, e il conseguente depauperamento della ricchezza che
ogni lingua e linguaggio porta in sé e con sé, e con tutte le velleità
dell’apparire a discapito dell’Essere. Velocizzando ogni operazione, ogni
contatto, ogni comunicazione e agevolando un solipsismo che sta diventando
dominante e sempre più preoccupante, per non dire devastante. E con questo
individualismo esasperato vanno sempre più aumentando le chiusure agli altri,
gli egoismi, le divisioni. I social solo in apparenza aggregano, offrono
possibilità di conoscenza, scambio, confronto. Basta andare su facebook o su
twitter per averne conferma.
Come conciliare tutto questo con il
mio sogno di “abitare poeticamente il mondo”?
“Abitare poeticamente la terra” è il titolo di un libro di poche pagine ma di pregnante e ricchissimo contenuto poetico-culturale del noto critico letterario Emerico Giachery che, nel donarmelo, ormai tanti anni fa, in un incontro nella sua Roma, mi disse che quel titolo, che a me sembrò subito bellissimo, gli era stato suggerito da una espressione attribuita al poeta tedesco Friedrich Holderlin, ripresa successivamente dal filosofo Martin Heidegger, il quale puntualizzò che l’avverbio “poeticamente” stava a significare “essere alla presenza degli Dèi ed essere toccati dalla vicinanza dell’essenza delle cose”. Che per me consiste nell’illuminare di tenerezza il quotidiano, anche con la scrittura: le innumerevoli voci nascoste, ma reali, i suoni, i profumi, la musica, il sogno della terra, dei fiori, dei prati, delle acque, le nuvole, le onde, il mare… gli altri miei simili, con i quali desidero comunicare con gli occhi ancora prima che con la voce, col gesto, e non con un mezzo tecnologico, freddo e distante. È necessario, mi dico, ritornare ad ascoltare le voci della natura, come facevano gli uomini primitivi, quando la natura non era ancora “desacralizzata” (Carlo Sini). Prendere, magari, a modello i bambini che, con naturalezza, abitano poeticamente la terra. Si stupiscono. Si meravigliano. Non programmano i loro giorni, ma li vivono solo giocando e nel gioco e con il gioco imparano a scoprire il mondo, giorno dopo giorno, conquista dopo conquista, abbandonandosi senza steccati e senza confini al fluire del tempo e della vita. I programmi che noi adulti siamo soliti fare, frazionando il tempo, segnano dei limiti e delle strade obbligate, che dobbiamo percorrere se vogliamo realizzare i progetti che ci prefiggiamo di raggiungere. Ma così sacrifichiamo libertà e creatività. Forse sarebbe meglio avere solo degli intenti da perseguire e da trasformare pian piano che viviamo, escogitando di volta in volta il “come”, nel rispetto della libertà e delle “modalità” di ciascuno, cercando magari di trovare continuamente “punti d’ incontro” per non sentirci mai soli nella realizzazione di quanto riteniamo utile per ciascuno, ma anche per il bene di tutti. Sarebbe bello formare delle cordate vere, concrete, reali per aiutarci a vicenda e sentirci solidali, forti, felici. Ci riapproprieremmo così della semplicità della vita. E, del resto, lo stesso Heidegger affermava: “Lasciamo essere all’ESSERE”. Abbandoniamoci all’esistenza e tutto potrebbe accadere nel tempo giusto e nel luogo giusto. Non vivono gli uccelli cantando e ricamando i cieli di voli senza l’ansia del cibo o di programmare il nido che a primavera riempiranno di pigolii e fremiti di ali? Ecco, anche gli uccelli come i bimbi vivono poeticamente il mondo. E così la natura tutta quando segue il corso delle stagioni, le albe e i tramonti, lo sfolgorante mormorio delle stelle. Lo so, adesso mi taccerete di retorica, di romanticismo, di utopia, di scarsissima aderenza alla realtà, perché quest’ultima ha le sue leggi, le sue priorità, la sua arcigna faccia quotidiana. I suoi problemi. La sua sofferenza insita nelle nostre fragilità e nella nostra stessa umanità. No. Non ho dimenticato tutto questo. Anzi! Mi preoccupa, mi spaventa, mi fa “tremare le vene e i polsi”. Ma non per questo devo rinunciare ai miei sogni. Alla mia utopia, che non è “ciò che non si può raggiungere, ma ciò che non si è avuto ancora il coraggio di affrontare e realizzare”, come qualcuno ha scritto un po’ di tempo fa. Né voglio rinunciare alla mia Poesia. Che non è fatta solo di nuvole, ma di esperienze di vita, come ferite o esaltazioni quotidiane. Il poetare di Holderlin veniva definito: “illuminazione, veggenza, stato di grazia”, nonostante la sua eterna follia. I poeti sono allora dei privilegiati per un dono assolutamente gratuito che li salva e li salverà sempre? Probabilmente sì. Nei “Quaderni di Malte” Rilke afferma che i versi sono esperienze che si vestono di stupore. E le esperienze diventano così l’atto più alto del vivere. Prima di scrivere un solo verso, egli afferma, bisogna aver visto molte città, aver conosciuto gli animali e le piante; sentito il volo degli uccelli e ascoltato il linguaggio dei fiori; ripensato ai sentieri percorsi e a quelli mai attraversati; ritornare all’infanzia, alle ferite inferte ai nostri genitori per le inevitabili ribellioni; trascorrere i mattini davanti al mare e sognare tutti gli oceani. Più o meno così. Ho citato sul filo della memoria. Non ho tempo per documentarmi. Questo tempo parcellizzato che distrugge il tempo, la libertà, la creatività. La nostra stessa umanità. Ma in un tempo così buio si fa urgente trovare un fiammifero, un lumicino, una lampada per dissipare le tenebre e fare ancora spazio alla Speranza. Riscoprire l’Armonia che non ammette vuoti e si sostanzia di pienezza e di unità. Riproporre la Poesia. E la poesia per William Blake è “vedere il mondo in un granello di sabbia/ e il cielo in un fiore di campo/ e l’eternità in un attimo”.
Se la poesia, dunque, è tutto questo e
molto molto altro ancora, allora è possibile abitare poeticamente il mondo.
Oggi più che mai. Non possiamo andare al fondo del fondo. Inevitabilmente si
torna a galla. Non ricordo più chi abbia detto che “l’ora più buia prelude alla
luce” e non può essere altrimenti. I primi segnali di rinascita ci sono.
L’amore per la lettura che lentamente rinasce. E la lettura è il volano della
conoscenza mediata dai libri: ampia e suggestiva. Profonda. Umana. Perché ogni
pagina può essere riletta, meditata, rielaborata. Assaporando lentamente ogni
parola, rileggendola se necessario. ad alta voce come più volte ha ribadito nelle sue opere poetiche il grande Vittorino Curci, perché si senta anche o soprattutto la sonorità, ossia la musicalità, insita nella voce di colui che recita, affascinando il pubblico con la sua musica interiore. E, poi, ci sono i giovani che stanno
riscoprendo l’impegno senza dimenticare i sogni. Sono i nostri giovani che
amano tornare sulle barricate, sporcarsi di fango e di sangue per salvare vite
in pericolo, per accogliere chi non ha più nulla. Non esistono solo i ladri i
violenti gli assassini che la cronaca quotidiana, i telegiornali, le “dirette”
(con i nostri politicanti), sui social appunto, ci sbattono sul viso per fare
audience. Ci sono anche i poeti, i nostri poeti rivoluzionari che cominciano a
ribellarsi contro un mondo che vorrebbero diverso, migliore, più giusto, più
corale e solidale, più vero. Ci sono. Esistono. Solo che non fanno notizia. Il
bene è silenzioso come la foresta che cresce contro il rumore dell’albero che
si schianta.
“Quando la gioia accade/ fatecelo sapere…”, ammoniva la grande poetessa serba, da me più volte incontrata in Italia e in Serbia, Desanka Maximovic, con il cuore pregno d’amore anche dopo i novant’anni. Ed io voglio concludere gridando che i miracoli accadono basta riconoscerli e gridarlo ai mille venti perché anche gli altri e gli altri e gli altri ancora ne abbiano contezza. E voglio cominciare dal miracolo dei giovani, che sono il nostro futuro, la nostra speranza. Guai se non sentissimo più germogliare nel nostro cuore questa tenera fogliolina, di cui prenderci cura perché continui a verdeggiare. Non è solo importante partorire un figlio o un’idea. È fondamentale “prendersene cura” e continuare a farlo fino a quando non ci abbandonano le forze. Certo, ci vuole coraggio e determinazione, ma abbiamo ricevuto in dono mente, mani e cuore. E con questi meravigliosi doni, gli uomini di “buona volontà” sono sopravvissuti ad un mondo ostile e pieno d’insidie e di cattiveria, e di violenza e di guerra e di catastrofi naturali e non. E sono sempre rinati. Perché ogni volta hanno scoperto dentro di sé quella Luce che ha rischiarato le tenebre ed ha annunciato una nuova alba. Delitto sarebbe stato e sarebbe ignorarla. Come lo sarebbe ignorare la memoria storica che ci riporta al passato e ci fa scoprire che il mondo non è nato con noi. Per evitare errori (e sono innumerevoli) e per far tesoro di chi anche in passato è riuscito ad abitare poeticamente il mondo. E i luminosi esempi non mancano: Mio nonno ce lo ha insegnato con i nostri giorni nutriti di fiabe, con le sue mani colme di fiori e di frutti, con il suo amore per noi, per gli altri, per la vita…>.
Grazie! Sono
felice di aver ritrovato e di riproporre una pagina che restituisce anche al
lettore sconosciuto una riflessione meritevole della mia gratitudine e dell’applauso
di ciascuno di noi. Ma, per evitare di sbagliare, facendo riferimento solo ad “Abitare
poeticamente il mondo”, desidero continuare, parlando di “Poesia”, riproponendo,
ancora una volta, quanto scrissi circa sette anni fa:
<Anche la poesia va vissuta e cambia pelle e cuore a
seconda degli anni e delle stagioni. E nel tempo rende universale ogni palpito
condiviso perché in essa ognuno può scoprirsi e ritrovarsi... Poesia,
compiutezza di sé nella disarmonia/armonia del proprio cuore più profondo, e
bellezza che si sprigiona da un’emozione e si fa canto d’infinito… incontro di
anime. Buona emozione!
Senza titolo
Giorni di pioggia nella mia casa
a cui mi arrendo fragile e insicura
perché il tempo non abbia di me ragione
e m’inchiodi alla sedia degli affanni.
Troppo lungo questo greve inverno
che ha messo radici nella carne
e geme e piange e urla la sua sorte
e non vuol morire con un ricordo di neve.
Ma d’improvviso il glicine è fiorito
e la rosa pure e la margherita da sfogliare,
il narciso, i tulipani, i nontiscordardimé.
Colorano di festoso arcobaleno
il grigio senza sorriso delle nuvole.
Il sole è uno squarcio dorato nell’azzurro
un cielo nuovo, un rinnovato incanto
di tersi mattini promette.
Sul terrazzo ancora spoglio esco
e offro il volto offeso dagli anni
alle carezze del vento innamorato…
(già è respiro di giovinezza dentro).
Una rosa nel vento
Turbine di vento nel giardino.
Una rosa rossa sfoglia il suo profumo.
Mi piovono tra mani deserte petali
di porpora e velluto e un sogno
a riportarmi primavera tra i pensieri
solo fino a ieri incatenati a cupi
giorni d’inverno vissuti dietro i vetri.
E nelle stanze vuote di sorriso.
Rosa sfilacciata prima di scoprire
l’incanto d’essere viva e bella.
Resta il sogno che non muore
tra velluto di tenero splendore
che custodisco tra dita innamorate.
… al vento dei ricordi
Bimba del mio tempo breve
ridammi
il tuo filo d'aquiloni al vento
dove legare risposte mai ricevute
ai perché del mare e del firmamento
e un ditale d’argento e d’oro fino
per ogni ago che mi ferì nell’andare.
Cantami una ninnananna
stammi vicino.
Il vento dei ricordi che mi culla
fa’ che mi salvi dal tempo e dal dolore
che serena mi faccia addormentare
tra stanche foglie
del mio quieto giardino
dove è più facile riprendere a sognare
Raccontami
della fiaba che non muore
dei verdi passi perduti nel cammino
della sera che di lucciole esplode
nel mio cuore di papaveri e gelsomini.
(di stelle s'illuminava il tuo prato cuscino)>
E per oggi va bene così. Buona lettura
a tutti, per ritrovarci ancora o per incontrarci per la prima volta e scoprire
di stare bene insieme, aprendo anche un bellissimo dialogo fra noi… Grazie a
tutti. Angela/lina
venerdì 21 febbraio 2025
Venerdì 21 febbraio 2025: Nel Ricordo di TEA DALMAS che il 21 febbraio 2024 raggiunse NICO MORI, suo marito, tra le stelle...
L’anno scorso mi è giunto questo messaggio di Manuela, amatissima figlia di Nico Mori e Tea Dalmas: Mamma Tea non c’è più. E ripropongo anche oggi quanto le scrissi l’anno scorso, quasi che il tempo si sia fermato in questo arco di tempo. Ormai non conto più gli anni. Conto le assenze fisiche che sono presenze vive nel cuore, nell’anima. E il riproporre quanto già scritto non è sfiducia nella memoria dei lettori del nostro blog, ma necessità mia personale di far rivivere, nei tantissimi ricordi, le tante persone amate e che amo perché vale la pena ricordarle per farle ri-nascere:
<Le ho scritto che il cuore è sempre più “straziato” ad
ogni nuova perdita e che solo pochi giorni prima avevo avuto un incubo in cui
mi sembrava di assistere da lontano a qualcosa di spiacevole che li riguardasse.
Svegliandomi di soprassalto avevo “sentito” un pianto che mi aveva messo
tristezza e ansia per tutto il giorno. E avevo concluso: Ora so perché.
E da ieri mi tornano alla mente i tanti episodi “del cuore” che
hanno costellato la nostra vita in oltre quarant’anni di grandissima sincera
affettuosa amicizia. Il primo incontro avvenne negli anni Ottanta del secolo
scorso in una saletta in cui si presentava il primo libro di Nico Mori Non chiamarmi superficiale: un elenco di
donne amate, da amare, da scoprire, raccontato con sottile ironia e autoironia
a rendere frizzante e coinvolgente la serata. La cosa che più mi sorprese fu la
risata di Tea, sua moglie. Tra i due si leggeva una incredibile complicità,
dovuta al forte amore che li legava. Nico e Tea conquistarono letteralmente me
e Primo. Mio marito, del resto, si ritrovò in perfetta sintonia con la
scanzonata autoironia di Nico. Stringemmo subito un sodalizio durato fino alla
morte. Alcuni giorni dopo, infatti, Nico era nella Sala degli Specchi del
Palazzo di Città di Bitonto a presentare una delle mie prime pubblicazioni, non
ricordo più quale, ma sicuramente una delle mie prime sillogi di poesie. Tea
era tra il pubblico ad applaudire. E non ci siamo più persi di vista. Ormai le
nostre pubblicazioni avevano le nostre prefazioni o presentazioni. E le nostre
famiglie con i figli piccolini avevano le nostre case come luoghi di
frequentazione in cui si parlava di poesia: sogni, progetti, incanti. E
fiorivano anche i nostri libri da pubblicare, da presentare. Anna Maria, mia
sorella, con la sua formidabile voce, ci accompagnava in ogni manifestazione
culturale e letteraria, mostrando la sua grinta e la sua determinazione a “rinascere”
dopo aver perduto il suo giovanissimo e innamoratissimo Nicola, che aveva solo
trentatré anni quando, per un assurdo incidente d’auto, la lasciò con due
bambine piccolissime, frutto del loro immenso amore. Poi, dopo oltre dieci anni
di vedovanza, Anna Maria incontrò Gianni, amante della scrittura pure lui, che
si rivelò ben presto ottimo marito e premuroso padre per le due bimbe di lei e
i suoi tre figli, nati da un precedente matrimonio. Purtroppo Anna Maria, dopo
un po’ di anni, dovette abbandonare la sua chitarra per alcune allergie che le
procuravano preoccupanti crisi d’asma. Ma si era sempre insieme. Si stava bene
insieme. Il primo a lasciarci per sempre, nel 2008, fu Primo e aveva soltanto
sessantasette anni, ma negli ultimi anni aveva trascurato molto la sua salute,
nonostante i nostri continui solleciti a prendersene cura. Saremmo dovuti
andare ad una visita di controllo solo un paio di giorni dopo…
E, intanto, il 2015 con grande gioia, con la SECOP, pubblicammo un libro di Tea molto importante per la sua famiglia e sicuramente di grande valenza storica per la nostra Casa editrice: Puse. Chi è Puse! Mi sembra importante conoscerla attraverso le stesse parole di Tea che vibrano in una sua lettera che precede tutto il libro: Miei cari, Ho custodito gelosamente questo diario scritto per mia madre e affidatomi dalla nonna Vinka, con l’intento, un giorno, di tradurlo in italiano, perché ne restasse memoria nella nostra famiglia. Ora il proposito è diventato realtà, grazie anche al grande aiuto di Nico e Manuela: Nico ha saputo trasformare la mia traduzione “letterale” in un testo più “letterario”, vivo, conservando ed esaltando l’ironia e la curiosità intellettuale che animavano lo scritto e le parole della nonna e tracciando utili riferimenti storici. Manuela è stata impagabile per il lavoro al pc, la correzione delle bozze e l’impaginazione.
Man mano che traducevo,
mi tornavano alla mente i tanti pomeriggi d’estate a Spalato, a casa della
nonna Vinka, dove trascorrevamo le vacanze estive. Seduta sulla sua poltrona a
dondolo, sul balcone, all’ombra dei rami di un grande fico mi raccontava della
nostra famiglia, degli zii Ivo e Branco e dei nostri antenati. In questo diario
sono citate delle persone che ho conosciuto da piccola, per cui tutto quanto
scritto dalla nonna mi è ancor più familiare. Aver tradotto questo diario è
stato per me un atto d’amore verso la nonna, i miei genitori, mio fratello, i
nostri figli. Per questo vorrei che i ragazzi avessero questo ricordo della
“none Puse” e del meraviglioso nonno Franco, che non hanno conosciuto, il mio
amato “papacci”, come lo chiamavo da piccola. Traducendo e rileggendo questa
storia, più di una volta i miei occhi si sono inondati di lacrime… ma non di
dolore, piuttosto di tenerezza e nostalgia. Spero che questo scritto abbia
anche per voi un grande valore sentimentale, come lo ha per me. Vi voglio bene.
Tea
La prefazione al libro è mia. E mi piace riportarne qualche
stralcio, per chiarire meglio chi è Puse e perché è così importante nella vita
di Tea e di tutta la sua famiglia:
Puse è innanzitutto un
atto d’amore di Tea Dalmas nei riguardi di sua madre Jelka, chiamata Puse, e di
sua nonna Vinka Sperac Bulic (e chiedo scusa per gli accenti giusti che non so
mettere), giornalista e femminista ante litteram nei primi anni del Novecento
in quella terra mittleuropea tra Italia, Croazia e Dalmazia, che ha, nella
storia di questa famiglia, come fulcro Spalato. (…). Si tratta, infatti, della
pubblicazione del diario, che sua nonna aveva scritto dalla nascita della
terzogenita, avvenuta nel febbraio del 2019, dopo parecchi anni da quella dei
primi due figli, al 1953, anno in cui con una lettera accorata Vinka, dopo
circa dieci anni di silenzio per aver chiuso il diario con le nozze della sua
amatissima Puse, lo riprende per cercare col suo amore e la sua tenerezza
materna di consolarla per la morte prematura dell’adorato Franco, stroncato da
una grave malattia cardiaca. (…). Ma Puse è anche la
straordinaria testimonianza di uno spaccato di vita che coinvolge sì due donne,
madre e figlia, quindi due generazioni a confronto, ma anche un intero popolo,
anzi più popoli con la loro tormentata storia che riguarda ideali di libertà e
soprattutto di rivendicazione di appartenenza ad un ceppo storico-culturale
piuttosto che ad un altro; ideali e rivendicazioni, che fecero di quegli anni e
di quei territori veri e propri campi di battaglie, acerbe e devastanti, a
volte anche cruente o di forte tensione propagandistica e sociale, senza
ottenere reali soluzioni di giustizia e di equilibrio tra le sacrosante
aspirazioni indipendentistiche, talvolta anche romantiche, dettate, soprattutto
in quelle terre, dagli “eroici furori” di tutto l’Ottocento e la prima metà del
Novecento (vedi l’impresa di D’Annunzio a Fiume e a Zara), e la concreta vita
quotidiana della gente comune e dei suoi sacrifici per affrontare nuove e
destabilizzanti situazioni famigliari e domiciliari come profughi o esiliati.
Esperienza che toccò anche a Puse e ai suoi figli Tea e Rafo,
che trovarono rifugio e ospitalità in terra di Bari.
*La “Storia di Puse” si conclude improvvisamente in una
fredda mattina di marzo del 1991, seduta in cucina davanti a una tazzina di
caffè, tra le dita una sigaretta mai accesa…*
Diciassette anni dopo Manuela Mori scrive di lei:
Mia nonna veniva
dall’altra parte del mare, suonava il pianoforte ed era una regina, sola e
straniera. Scappata dalla guerra, venuta nel profondo Sud del 1945. Fumava e
portava i pantaloni, ed era uno scandalo. Vedova a trent’anni e con due figli
da crescere, straniera, diversa. Capita da pochi, amata da pochissimi. A me è
toccato trovarla, una mattina di marzo. La sera prima le avevo promesso che ci
saremmo viste per stare un po’ insieme. Promessa non mantenuta. Per anni ho
sognato film dell’orrore, silenzi, distanze. Mai un sogno felice, mai un
abbraccio onirico, mai pace. L’ho amata tanto quanto mi manca. D’estate, quando
torno dall’altra parte del mare, il primo bagno in mare è per lei. È, lei.
Il mio primo incontro con la Fine.
Le medicine, la solitudine.
Una vita in salita, ladra di sorrisi.
La canzone di Natale, il pianoforte.
Il tè alla menta, le sigarette.
Il nostro ultimo capodanno insieme, solo tu e io.
Il
profumo di lavanda.
Le carte, i cruciverba, il corso d’inglese a 45 giri.
I libri
gialli e i film western.
L’italiano a modo tuo.
Il tuo
grande, sfortunato amore.
Gli occhiali rosa e la tinta peldicarota al battesimo di mio
fratello.
Il mare, i
cani.
Il pesce rosso
nella vasca da bagno perché stesse più largo.
Tu seduta sul wc a sferruzzare, che ridi mentre sguazzo nella
vasca col pesce, vestita di sana pianta.
Diciassette anni dopo, è solo ieri.
Non ti ho mai sognata, o almeno mai come avrei voluto.
Ti ritrovo nel volto di mia madre, e in un rito tutto mio.
Quando ogni anno torno dall’altra parte del mare, e davanti
agli occhi, all’alba, eccoti.
Con immenso amore,
Manuela
La Posfazione è di
Nico. Bella. Sincera fino in fondo. Esplicativa dei tanti momenti bui vissuti
in silenzio dalle due donne, madre e figlia, pur di non turbare il già scarso
equilibrio socio-economico- familiare che entrambe stanno vivendo; ed
esplicativa del travagliato momento storico che stanno vivendo l’una lontana
dall’altra:
La “Storia di Puse” si incrocia anche con la tremenda storia
dei popoli d’Europa in quegli anni: alla sua nascita, nel 1919, Zara è nel
territorio del regno di Jugoslavia ma nel 1921, secondo gli accordi
internazionali di Rapallo che ratificano il trattato di pace di Versailles del
1920, la città viene assegnata all’Italia e lei è già profuga con la sua
famiglia, a due anni, verso Spalato, in territorio croato.
Poi… poi… poi… tutti
gli avvenimenti si snodano fino all’adolescenza, la giovinezza, l’età matura di
Puse. La sua venuta con i figli a Bari.
Il resto è storia che
i nipoti conoscono benissimo e che Manuela ha sintetizzato con splendide parole
e una tenerissima poesia.
Valeva la pena di raccontarvi una storia con tanto amore e tanto dolore, vissuta da Tea, Manuela e gli altri di casa fino a ieri. Solo fino a ieri. Perché il pianto di Manuela, che ha tenuto tutta la notte tra le sue le mani di sua madre, perdendosi nei suoi occhi offuscati, diventi oggi la nostra preghiera, che raggiungerà, ne sono certa, Tea e Nico che si stanno abbracciando tra le stelle…> A presto. Angela/lina
domenica 16 febbraio 2025
Domenica 16 febbraio 2025: FRANCESCO SCOTTO ed ENRICA SIMONETTI: UNA SERATA DA RICORDARE...
Mi piace condividere, oggi, con tutti voi, dopo le poesie d’amore legate a San Valentino, il ricordo della memorabile serata vissuta giovedì scorso a Bari nella ricca di suggestioni letterarie e fornitissima Libreria Laterza per la presentazione del Libro di Francesco Scotto ACQUERELLI - Racconti per Immagini, pubblicato recentemente dalla SECOP edizioni, con copertina firmata dal talento del Graphic Designer della SECOP, Nicola Piacente, e retro-copertina con una bellissima frase riassuntiva di tutta l’opera dello stesso Autore e una sua biografia ridotta all’osso per evidenziare l’apporto significativo di alcuni amici di cordata. La mia presenza, presso la suddetta Libreria, è stata motivata dalla mia postfazione al Libro. L’Editore, Peppino Piacente, che è mio genero e che amo come un figlio perché lo ritengo il mio “angelo protettore” sempre, mi ha portata sulla mia sedia a rotelle, con sua notevole fatica e mia giustificata apprensione, per darmi la possibilità di conoscere il nostro eccezionale Autore, la sua vivacissima e accogliente moglie, e la mia carissima e preziosa amica di tempi migliori, Enrica Simonetti. È stato davvero un incontro di anime, che mi ha procurato emozioni e commozione straordinarie, e che mi ha permesso anche di abbracciare, dopo tante amare mie vicissitudini di salute, alcune mie carissime amiche del cuore: Letizia Cobaltini, Gheti Valente, Celeste Maurogiovanni…
Letizia, per esempio, ha scritto, dopo la meravigliosa serata: " Angela De Leo carissima. Ci siamo emozionate e abbracciate come sorelle, amiche, cuori e anime che si corrispondono. Grazie a Francesco Scotto per questa bellissima occasione! Il libro che abbiamo "ascoltato" è un piccolo miracolo frutto della maestria di Francesco e della instancabile volontà di Peppino Piacente, di suo figlio Nicola, tua cara Angela, di tua figlia Raffaella, di tutti i collaboratori della Secop. E Gheti Valente ha commentato: "Grazie a te carissima Angela e a Peppino. Con Secop sempre cose belle. E grazie a Francesco Scotto con i suoi intensi racconti accompagnati da deliziosi dipinti. Ed, infine, ecco cosa ha scritto proprio il nostro grande Autore: "Emozionato e grato per tutte le difficoltà affrontate pur di esserci. Le persone che si riconoscono negli stessi valori e nelle stesse passioni riescono ad attribuire a un'amicizia recente una frequentazione senza tempo. E' semplice quanto è vero e sentito. Grazie davvero di cuore per la stima e l'entusiasmo". Ma c'è da dire molto molto di più per la mia gratitudine verso tutti tutti i presenti in una serata magica quale è stata quella di giovedì scorso. E cosa dire di Enrica Simonetti? Quanto affetto e quanta stima ci legano dopo tanti anni ancora! Sempre è un riconoscersi!
Non ero a mio agio sulla carrozzella, ma ne è valsa la pena per tanti motivi, oltre alla postfazione: ho ricevuto da Francesco Scotto una dedica meravigliosa sul suo libro destinato a me; ho potuto ricevere da lui, da Enrica e dai tanti miei amici di vecchia data, presenti nella gremitissima sala, testimonianze di affetto e di stima, di cui, in un periodo così buio per me avevo e ho molto bisogno; ho potuto, seduta stante, riprendere il Libro tra le mani e rinfrescarmi la memoria, leggendo rapidamente i due racconti menzionati nelle “Tracce”, per sottolineare l’incidenza dell’ultimo racconto su tutto il tessuto narrativo e formale dell’opera di Francesco, e rilevare l’inevitabilità di ogni parola, ogni virgola, ogni puntualizzazione, ogni inciso, ogni virgolettato. Con delle cesellature invidiabili: “I posti riservati delle prime file erano occupati dai politici, di solito scarsamente interessati al teatro, che non si erano lasciati sfuggire una ghiotta occasione di presenzialismo; … Il loggione era invece invaso da turbolente scolaresche ‘deportate’ (notare il sapiente utilizzo di tale verbo, abbinato ad ‘arcigne insegnanti che minacciavano rappresaglie in caso di intemperanze caratteriali indomabili e desidero ricordare che la deportazione allontana dal luogo, dove viene commesso il reato. E il malfattore, deprivato di ogni diritto, è relegato in un territorio lontano dalla propria comunità di appartenenza, persino dalla propria nazione o patria che dir si voglia). E, ancora: “Mentre nel buio ‘residuavano’ gli schermi illuminati… un ‘insistito’ schiarimento della voce… ‘accompagnato da applauso trionfale… (a me suggerisce immediatamente la marcia di Radetzky, musicata magistralmente da Strauss - Radetzky che, come sappiamo è stato sempre mal ricordato da noi italiani per aver soffocato i nostri moti liberali contro l’Impero Austro-Ungarico del 1848 -). Anche “gesto imperioso” è inglobato nella marcia trionfale di prima. E, infine, “soppesandone lo ‘spessore’ (il ‘valore’ che si avvale del ‘ghigno ironico’ del protagonista… che alla fine ‘spalancò la bocca come un elefante in procinto di barrire ed emise un grido prolungato che si abbatté sul pubblico come uno tsunami’”.
La conclusione, ancora una volta, non è scontata, anzi sicuramente
“divertita”, non solo del protagonista, ma anche degli eredi!
Qualche altra mia riflessione: Bernard Berenson, ebreo lituano
naturalizzato americano e italiano di adozione, importante studioso di “Critica
d’arte” e grande esperto della pittura italiana del Rinascimento, ha teorizzato
su “i valori tattili”. Scriveva Berenson: “I
valori tattili si trovano nella rappresentazione di oggetti solidi allorché
questi non sono semplicemente imitati (non importa con quanta veridicità) ma
presentati in un modo che stimola l’immaginazione a sentirne il volume,
soppesarli, rendersi conto della loro resistenza potenziale, misurare la loro
distanza da noi, e che ci incoraggia, sempre nell’immaginazione, a metterci in
stretto contatto con essi, ad afferrarli, abbracciarli o girar loro intorno”. Si
tratta della stessa “coscienza tattile” (sempre Berenson) che si avverte nei
racconti di Scotto. Leggiamo, per esempio, “CODICI A (S)BARRE” oppure “EX VOTO”:
sembra di vivere in mezzo ai protagonisti, di percepirne pensieri, vibrazioni (“onde
sonore”) di strumenti musicali, il suono cadenzato della “mano tamburellante”, e
così via. I personaggi di Francesco Scotto, protagonisti o rapidi bozzetti,
sono di una straordinaria evidenza plastica: le ombre, le luci, le penombre,
persino i pensieri reconditi, che alla fine prendono sembianze di Poesia.
“Il tempo è un fiume
che mi trascina, e io sono il tempo; è una tigre che mi sbrana e io sono la
tigre; è un fuoco che mi divora e io sono il fuoco”: sosteneva il grande
poeta e visionario Luis Borges. Ritengo che la stessa percezione di identità
unitaria e frammezzata e di totalità temporale si avverta nei racconti del
nostro Autore: salti temporali s’intrecciano, si sovrappongono. Passato,
presente e futuro sono su una stessa linea di continuità/discontinuità. E ci
sembra di essere noi stessi immersi in un tempo che ci ingloba, ma si slarga in
innumerevoli direzioni, offrendoci nuove prospettive e possibilità di vite
altre.
Grata sempre a tutti gli amici del nostro blog per la pazienza nel leggermi e per l'attenzione prestata alle mie parole. A presto (spero non sia per voi una minaccia, ma una speranza di un nuovo incontro...). Angela/lina
venerdì 14 febbraio 2025
Venerdì 14 febbraio 2025: San Valentino: il Santo degli Innamorati dell'AMORE...
Oggi è un giorno particolare perché si festeggia, come noi tutti sappiamo, San Valentino, il Santo dell’AMORE. Io dedicavo sempre questo giorno a mia madre e lei, ogni volta, si schermiva: - che c’entro io - diceva. Ed io le rispondevo: - c’entri, c’entri perché hai sempre saputo darci tanto amore, educarci col tuo esempio ad amare -. Lei sorrideva con il suo sorriso tenero e malioso...
Poi, sono passati i giorni e gli anni, sono accaduti mille e mille avvenimenti a cambiare la nostra costellazione familiare: matrimoni, figli, nipoti. Un albero genealogico sempre più allargato. Ho continuato a dedicare questa festa a mia madre nel silenzio del mio cuore che Lei legge e conosce.
Ma, qualche anno fa, ho avuto un prodigioso dono da mio marito, Primo Leone, in una email a lungo ignorata per molte mie vicissitudini di salute, che ben conoscete e che non sto a raccontare. Si tratta di un grappolo di poesie a me dedicate dopo la sua morte: A LINA, DOPO
Capricorno Selvaggio
Sono nato prima di nascere
Assurdo capricorno
Di uno zodiaco senza cielo;
inseguivo tropici
con sangue di ghiaccio
lungo i confini del vento
che cerca la sua ragione
accusando le foglie
di bruciare l’autunno.
Per rincorrere
Briciole di sabbia
Colme di niente
Ho rischiato la mia dignità
E
Intanto ignoravo
La spiaggia immensa,
Come unico rifugio
Per le mie ansie
Che si apriva sui confini
Del mio cuore.
Mi son giocato me stesso
Con dadi truccati,
mi sono giocato il tempo
da scontare senza più equilibrio
-
Assurdo clown
Che insegue il suo segno zodiacale
–
Mi ritrovo selvaggio
Come sono nato
Inchiodato
Come un povero cristo
Dalle mani di pietra
Incapace
Di rovesciare la clessidra
E di sfogliare
I petali del vento
O inventare
Un natale di dolcezza…
Ti
vestirò di pane e fiori
E
di fragranza dolce
Di
prato e di fresco mattino
Ti
vestirò di pane
Per
sapere il tuo cuore
Ti vestirò di fiori
Per
sapere il tu amore
Per
mangiarti
Con
la mia fame di te
Per
coglierti
Petalo
su petalo
Mio pane quotidiano
Mia primavera.
Ti vestirò di pane
Soffice
e caldo
Per
i denti del mio cuore
Ti
vestirò di fiori
Per
le mie mani ansiose.
E
sulla mia pelle
Pane e fiori
La
festa non avrà mai fine.
Le conchiglie hanno sogni
Di acqua tenera
E di sole azzurro e verde
Lungo le orme
Di sabbia mai stanca
Mai vinta.
E il tuo canto
Ha vele di nostalgia
Per la gloria dei gabbiani in
volo.
Il tuo respiro
È un giorno profondo
Di luce e di stelle
Antico e immenso
Come un guerriero
Senza storia.
E la tua presenza
È un canto senza fine
Come specchio di tempo
E di memoria.
E tu
Scioglievi i rami
Dei tuoi sogni
Sulle note della nostalgia
Mentre il giullare
Inseguiva la noia
Alla Corte del Re
La notte era fredda
E tu
Fata e poi strega
Con fiori di luna
Nei tuoi capelli
Parlavi di pianto
E di amori perduti.
Poi, l’alba
Raggiunse il castello
Pietra su pietra
Fino ai tuoi occhi
Ciglia su ciglia
Fino al desiderio
Del Re
Tu Regina e Schiava
Con la tua pelle
Nuda di rugiada
Tra fiore e foglia.
Dormivano i cavalli
Con le criniere stanche
Come sogni lasciati
E mai vissuti.
E tu
Corda di mille chitarre
Tu la notte
Tu il giorno
Tu favola di ieri
Tu favola
Di sempre.
Si stancherà di noi
Trafugando foglie
Di stanca allegria
E la notte sarà un treno
Di rami e fiori
Non ci sarà traccia
Delle nostre mani
Ormai colme di nostalgia.
Il tempo è un colpo al cuore
Con radici nella pelle
E i giorni
Lasciano un segno
Di carta ingiallita.
La tua realtà è un’avventura
A trentacinque millimetri.
Schermi bianchi le tue mani
Per una corsa senza idee
Campione di solitudine
In fuga contro il vento
Per la tua ombra
Morta di paura.
Non serve rincorrere
I tuoi occhi
Con mille pazze ragioni
Di lucidi nonsense
A rime alternate:
Il divieto è sempre
Assoluto
per la Corte dei giullari.
E la festa è la tua Croce
E il Sogno la tua Angoscia
Incontrata per le scale
Nei rifugi dell’Amore.
Se l’azzurro è un sogno
Tutto di te
Sa d’azzurro.
La mia terra
È un sogno di spine
Ad una ad una
Nel fondo del cuore:
E tu
Nata nella mia terra
Con tutta la forza
Del tuo ostinato amore.
Hai frutti di dolcezza
E radici di splendore.
La mia terra
È un sole
Stanco di pietre
Senza ombra
Né acqua per le sue rughe
Selvagge
E mai ribelli:
E tu
Mio unico sole
Hai giorni di pietra
Sempre tenera e nuova
E radici nella mia pelle.
La mia terra
Ha gesti di antica pietà
E canti di dura fatica
E pianto mai risolto
Negli occhi di spenta allegria:
E tu
Sempre presente
Come ulivo secolare
Dai frutti sempre verdi
Mentre il canto delle cicale
Addormenta le zolle
Come un deserto
Stanco di sole.
La mia terra
Non ha più sogni nel cuore
Né rimpianti negli occhi
Ma ferite
Tra le ossa
E la cenere.
La corsa dei cavalli
Era una nuvola di pioggia
impazzita
Tu eri il cavaliere ed eri il re
E quando giunse il tuono
Il mare si fermò
E ti bagnò i capelli
Con un fascio di raggi d’oro
Fanciulla bianca e azzurra
Tra le onde del mare.
Come un sogno
Correvi sul grano
Cavaliere senza nido
Sulle tracce del vento
Cercavi un incantesimo
E il cuore si spezzò
Cercavi l’amore
E il cuore si fermò.
Farfalle d’oro
S’aprivano ai tuoi piedi
Nudi di pioggia e di sale
E baciavi i suoi occhi
Pieni di luna
E sceglievi il mare e la sua riva
Per il suo corpo bianco
Come un immenso fiore
Nudo e palpitante:
quante canzoni
tra i suoi capelli
di principessa addormentata
ed eri ancora il suo re.
Quando il sole raggiunse le spighe
C’era un grande silenzio di cicale
E l’incantesimo divenne ragione
Lo stupore ti raggiunse il cuore
E la sua mano era ancora nella
tua.
E vennero i soldati
E la luce si fece d’acciaio
Quando il mare distrusse la riva
E il gallo tre volte s’addormentò.
La sabbia ha mille spine
Per il tuo cuore di re
E mille rose
Per il suo cuore di fanciulla:
un solo richiamo ha la Morte
e il sogno
non è più tuo.
Hanno inchiodato l’assurdo
All’albero dell’inutile
Eliminato il rischio di sognare:
Ma la mia storia
Non ha parole
Stretta com’è alla tua
Quattro volte noi
E ancora noi
Al di fuori della mischia
E della falsa pietà.
Tu insegui ancora
Aquiloni e fiori
E mi trascini nel tuo cielo
Con la tua dolcezza
Mai stanca di primavera
E la notte
Respira i tuoi sogni
Inventati e mai vissuti.
E tu come sempre
Regina di cuori
Per le mie mani
Intrecciate alle tue
Sfinite e incredule:
Tu
Fra il sogno e la realtà
Ancora e sempre
A chiamarmi Amore.
Fiori di carta
Per le occasioni perdute
Per i sogni
Sulla scia dei pesci rossi
Per le tombe dei re decaduti
Per le marce dei soldati.
Fiori di carta
Da ritagliare
All’ombra dei tuoi occhi
Fiori di carta
Senza colore
Per conservare intatto
Il valore della notte.
Ho inseguito invano
Il viaggio delle nuvole
Per ricondurti
Alla mia presenza
Fiore di carta eterno
E sono già morto
Nel deserto delle ore.
Se un giorno ti diranno
di amarti tanto,
pensami e saprai
che ti amo più di tanto.
Se un giorno ti diranno
di amarti un mondo,
pensami e saprai
che ti amo più
di un mondo.
Se un giorno ti diranno
di amarti immensamente,
pensami e saprai che
ti amo di più
tanto di più
un mondo di più
immensamente di più …
Primo Leone