mercoledì 23 gennaio 2019

23 gennaio: Castelnuovo di Porto presso Roma


L’altro ieri ho parlato del cielo che ci offre pur sempre uno squarcio d’azzurro anche quanto nuvole, pesanti come piombo, s’addensano sul nostro capo. Ed è già un respiro di speranza.
Oggi, che quelle nuvole sono diventate scure come nella “Tempesta” di Giorgione, oggi quel cielo mi è piovuto addosso, franando con le lacrime dei rifugiati del Centro di Accoglienza “Cara”, fatto sgomberare dalla Polizia di Stato. E la memoria mi riporta ad altri periodi bui della nostra Storia. Noi, esseri umani alla deriva. Si ha un bel dire: non è la stessa cosa. I tempi sono cambiati e non si può tornare indietro. Vico ci ha insegnato un’altra teoria. Quella dei “corsi e dei ricorsi storici”, in cui non sono i casi storici a ripetersi, ma l’uomo che è, purtroppo, sempre uguale a sé stesso.
Dove, in questo caso, il cielo?
Ancora luci ed ombre nel cielo, certo, proprio come stamattina. E ancora sagome scure di nubi ad attraversarlo. E, ad un tratto, mi accorgo che è un cielo solo intuito perché è, ancora una volta, coperto e lontano. Troppo lontano per poterlo afferrare ed offrire agli occhi grandi e innocenti di un bambino. E il bambino ha diritto al suo cielo azzurro con voli d’aquiloni ad assecondarne la necessità di spazi e di giochi. Anche i ragazzi hanno diritto ai loro spazi di libertà. E ancor più i giovani perché hanno più sogni da inseguire, più progetti da realizzare.
Già un Campo di Accoglienza ha dei recinti che ostacolano la libertà, impediscono ai sogni di percorrere un cammino possibile perché possano realizzarsi. E i bambini, i ragazzi e i giovani, di cui è fatta questa comunità di profughi, provenienti dalle parti più diseredate del mondo, sognano soprattutto quella libertà qui negata, che pure appartiene di diritto a ciascun essere umano. Domani saranno uomini che spezzeranno catene perché un uomo non può essere profugo a vita. Dovrà pur integrarsi e riconoscersi nella sua dignità di uomo libero, che appartiene ad una comunità e ad una terra. In cui sentirsi a casa. La casa: nostro primo bisogno e nostro rifugio per la protezione che ci offre, la libertà che ci concede. Ma, quando persino questa comunità viene smembrata e dispersa in nome di una legge, scritta dagli uomini che non conoscono le leggi del cuore, ma solo quelle dell’utile personale, contrabbandato per bene collettivo, allora anche quel minimo di libertà viene calpestata e i profughi tornano ad essere senza volto, senza nome, senza identità.
Si distruggono sogni e illusioni. Si frantuma il cielo. 
Due giorni fa, parlavo anche di fondali marini dove si inabissa quotidianamente il cielo, sconfitto ormai dai bambini che giacciono in fondo al mare, come la nostra vergogna di uomini che fingono di non vedere, di non sapere, di non essere colpevoli mai, perché i colpevoli sono sempre gli altri, i nemici sono gli altri.
Ci sono mille modi per assolversi, ma l’umanità è solo una ed è legata al nostro comune destino di esseri mortali, che hanno bisogno esclusivamente di solidarietà e d’amore per attraversare il mare/male della vita, e andare avanti, facendosi coraggio vicendevolmente e dandosi la mano per non cadere. Un po’ come la poesia di Rodari insegna: “se tutti i bambini si dessero la mano farebbero un girotondo intorno al mondo”.
E, invece, come possiamo vedere dai terribili fatti che stiamo registrando in questi giorni, a quanti bambini oggi è dato di stringersi la mano per fare un girotondo intorno al mondo? Persino la voce di un’educatore poeta è stata oscurata. E non esiste più neppure il cielo per i tanti bambini incolpevoli dei misfatti degli adulti. Non sempre un bambino è “il luogo della speranza”. Sempre più spesso è un “non luogo”: un luogo senza.
Sempre più spesso circolano sui social fotografie della disperazione, vestita con la carne di un bambino; della tristezza, con il volto triste di un bambino; dell’impotenza, con le braccia impotenti di un bimbo che non può più giocare. Alcuni bambini vengono fotografati contro un muro o su un gommone che fa acqua, dietro un recinto di ferro quasi fossero animaletti o, peggio, belve feroci. Per creare una maggiore distanza tra un bambino e un suo coetaneo.
Oppure tra le braccia di sua madre che non sa più dove andare e a quale santo o diavolo votarsi per sfamare il suo bambino.
Come si può voltare le spalle ad un bambino e dire “non m’interessa”, “non è colpa mia”, “non ci posso fare niente”, ed esibire leggi e decreti “salvapoltrone e prebende” dietro falsi proclami di onestà e scelte coraggiose in favore “del popolo e della gente bisognosa” e mandare allo sbaraglio centinaia di poveri cristi, che finiranno davvero per delinquere pur di trovare di che sfamarsi e sfamare i loro bambini?
Io trovo ingiusto tutto questo e nessuno può convincermi del contrario. Neppure chi mi parla di lotta agli scafisti, che vanno condannati e assicurati alla giustizia. E, se davvero si volesse, oggi i mezzi ci sarebbero. E non devo essere io, profondamente ignorante in materia, ad indicarli. C’è chi potrebbe farlo e non lo fa.
E nessuno mi venga più a dire, con uno slogan, alcuni anni fa, diventato anche di moda: “nessuno tocchi Caino”. Perché, allora, io urlo: “sì, è vero, nessuno tocchi Caino fino a quando nessuno più osi toccare Abele. Quanti Caini e quanti Abeli ci sono in questo nostro mondo desertificato di buoni sentimenti? Quanti sotto lo stesso cielo che ci vede nascere e morire? E perché Caino deve essere difeso con la sua mano armata e assassina, mentre nessuno difende Abele, inerme e fragile e indifeso?
Un bimbo è un bimbo e non un agnello sacrificale. Un bimbo è un progetto di vita e non un rimorso. Un bambino è attesa e non memoria.
Un bambino chiede solo amore.
Restituite ogni bambino all’amore che gli spetta, ed io restituisco ogni Caino alla pietà. E facciamo che nessun bambino si trasformi in Caino solo perché è stato privato dell’amore necessario, e ha conosciuto solo fuga, pericolo, solitudine, abbandono, povertà, soprusi, paura, dolore, lacrime, malattia, morte: Abele, in questa atroce disumanità, può trasformarsi in Caino. E in questo caso io non mi sento più innocente perché non so davvero chi vada salvato per primo.
Ecco perché occorre prevenire. Non in termini voluti da Caino, che non conosce più misericordia, ma in quelli attesi da Abele, che è ancora inerme e innocente.
“Pamoja Tunaweza!!!” (“Insieme possiamo!!!”) era scritto in un campo profughi a Nairobi in Kenia, alcuni anni fa. E, in tanta tristezza e solitudine, anche di bambini, era un respiro di speranza. Quello a cui aneliamo in questi nostri giorni di umanità dimenticata per riscoprire il cielo, con i suoi squarci d’azzurro.     

Ci sarà

Ci sarà mai un’alba giusta,
la legge che sovrasti piccoli intrighi
o dispiegate ali di falchi predatori,
e difenda i lenti passi di carni stracciate
verso il campo di grano riscoperto,
e la fatica del pane condiviso?
Ci sarà il canto dell’allodola
accanto alla sinfonia dell’usignolo
a benedire insieme l’universo
dei suoni e delle melodie
dei mattini di sole e l’ombra delle sere?
Non più la tristezza dei bimbi falciati
ancora e ancora sulla terra di nessuno
e un solo grido d’orrore levato al cielo?
Ci sarà un coro di guerrieri d’amore
a rivendicare, per tutti gli uomini inermi
e soli e poveri e diversi e mai estranei e mai
stranieri e mai ignorati umiliati offesi feriti
calpestati, il nome il tetto il sogno la dignità?
Su questo suolo livido d’inganni
germoglieranno fiori tra l’erbe ferite?
Proteggeranno intrecci di mano le siepi
dischiuse su confini di libertà e conoscenza?
Oltre le domande e la retorica d’ogni risposta
ho nell’anima una sola preghiera:
oh Signore di tutte le fedi, solo Tu puoi,
tra campane a festa e luminarie diffuse,
ridonare la perduta umanità all’uomo
e
sorridere al sorriso d’ogni bambino
fiorito sul cuore rappacificato del pianeta.

(Ci sarà, ne sono certa, la nostra prima zolla.
Accenderemo di stelle solchi di pianto
e trionfo di luce saranno giustizia e verità).
                                           



domenica 20 gennaio 2019

20 gennaio: tra la vita e la morte, il cielo


Gennaio. Mese di nascite e di morti, per me. Mio nonno, mio padre, mio marito, nati il 1° gennaio. Mio cognato Tonio il 16, mio nipote Mario il 20 (oggi compie cinquant’anni). La mia amica Mariella Bettarini il 31 compie i miei stessi anni anticipandoli di sei mesi.
Ma, poi, mio nonno, sempre lui, è morto l’11 e mia nonna il 22, e la mia consuocera il 19, ieri appunto, suggerendomi un’amara riflessione e pochi versi che vado a riportare: “Ancora un anno. E ogni giorno è un foglio di fogli strappati al calendario su foglie che cadono e ci lasciano un nuovo dolore e rami sempre più spogli e ricordi sempre più vivi e intensi. E oggi il mio pensiero va ad Anna, la mia consuocera, e al suo spento sorriso, sempre acceso nel cuore di chi l’ha amata e l’ama ancora… questi brevi versi sono dedicati a lei e a tutti quelli che mi vivono dentro:
Altre croci e altri chiodi
pianta il tempo
sui giorni che corrono a perdifiato
e lasciano scie di lunghi
inverni dove ogni perdita
è stata per sempre
(scrigno prezioso e mai colmo
almeno il cuore)”
Dunque, la nascita, che è l’accendersi alla vita, e la morte, che è il suo spegnersi. Ma stamattina, appena sveglia, ho guardato il cielo, come mi capita ogni mattina, perché è al cielo che rivolgo il mio primo “buongiorno”, che è forse una preghiera di ringraziamento per la nuova alba che nasce e si fa luce e si fa vita attraverso il cielo, che si va rischiarando sempre più. Nonostante le nuvole, la pioggia. Il cielo. Immenso. Intimo. Spietato, pietoso. Dilatato all’infinito. Piccolo quanto un quadrato azzurro (il mio lucernario, che mi dà un cielo di vetro). Non ha strade il cielo. Né spine né rose. Ha solo stelle, il cielo, e un mistero senza fine. Ma le stelle, come i sogni, muoiono ad ogni alba. Lasciano un’allegria di sole. La luce. Ma il giorno insegue presto il suo tramonto e una nuova notte sopravviene, invasa da una malinconia di luna, dal brulicare di riapparse stelle. Tentiamo di contarle, le stelle. Ci illudiamo di poterle afferrare con gli occhi e farle nostre perché ci facciano compagnia nel buio della notte, mentre da qualche parte nell’universo sono già spente. È come imprigionare tra le dita i desideri e vederli scivolare via, già colmi di illusione delusa. È un’ombra di cielo, il cielo senza stelle. Un’ombra di cielo, il cielo senza sogni. E i desideri, che dalle stelle prendono l’antico nome (de-sidera= intorno alle stelle, ma può essere anche un de deprivativo= privo di stelle), si tingono di vita già spenta.
Massimo Recalcati, ricordando il De bello Gallico di Cesare, riporta l’affermazione appunto del grande condottiero, che “dice che ‘desiderio’ viene da desiderantes. Chi sono i desiderantes? Sono i soldati sopravvissuti al campo di battaglia: sotto un cielo stellato attendono i propri compagni ancora impegnati nella battaglia, a rischio di morte” (M. R., La forza del desiderio, Edizioni Qiqajon, Magnano - Br 2014).
Mi colpisce il senso dell’attesa, sotto le stelle che sembrano vive e sono già morte, perché i compagni di battaglia facciano ritorno e si possa, insieme, continuare a vivere, a desiderare, a sperare. A cogliere la residua luce persino in quell’ombra di grigio (come oggi) che è il cielo senza sogni e senza stelle, colmando di tanti luoghi il suo non luogo di desiderio spezzato, deluso da quanti non sono tornati e non torneranno. E l’attesa si fa vana se non ci si riscopre, insieme, in quest’ombra di cielo sagomato, definito e finito nello spazio limitato di questa camera, della mia casa, e afferriamo con gli occhi un frammento di luce. Ma basta dare un’occhiata fuori, oltre i vetri e il giardino e un orizzonte lontano che la pioggia divide in righe verticali, come vite parallele ma compresenti, a ridare un segno e un senso alla vita che altri vogliono fitta di regole e confini, e che per me si dilata e sconfina ad abbracciare il Tutto.
Pura follia il cielo diviso in strisce di cielo, prigioniero e reo confesso di misfatti di barconi alla deriva, in un mare che dovrebbe ridare la vita e promette la morte, contro i nostri occhi assetati di cielo, come i loro occhi spenti per sempre al cielo. Mentre un’ombra più cupa di colpevole dolore che non ci rende innocenti si rischiara di luce. Perché, dopo ogni buio possibile, dopo ogni lunga notte, il Cielo ci regala sempre un raggio di sole “sulle sciagure umane”.
Ed è un cielo che si sfoglia quotidianamente come un fiore in un ricamo di intenzioni, progetti, emozioni, incanti e disincanti in quel ricamo di giorni/   calendario che si sfoglia e racconta la vita.
Un ricamo d’ombre e di sole… la vita.
Apparentemente semplice, la vita, come respirare sotto questo quadrato di cielo, che imprigiona il tempo, e ignorare il mondo.
Molto complicata la vita, quando quotidianamente si scontra con la morte e noi ci scopriamo in attesa di essere in tanti per contrastarla, facendoci un sol corpo, un solo desiderio, una sola volontà di resistere per riscoprirci innocenti quasi fosse il nostro primo giorno di vita. Ma leggi e confini e divisioni e confusioni tra mente e cuore (la mente che ordina e il cuore che scalpita) frantumano il nostro cielo e ne fanno scaglie impazzite di desideri alla deriva o colati a picco in fondali di sogni, rimasti impigliati in antichi galeoni che seppero l’avventura e il viaggio, l’assalto e la perdizione e un silenzio di pesci a farci coraggio per recuperare tesori di umanità sepolti in fondo al mare. In un imbroglio di cielo/mare sempre più difficile da capire, da districare.
Disperazione contro ogni speranza.
Ma è proprio allora che gli occhi si rivolgono al punto più alto del cielo per ritrovare la luce, nascosta da nuvole e pioggia e tempeste e naufragi. Anche se il cielo è sempre oltre. Inafferrabile e lontano. Come l’amore. La solidarietà. Il sogno di una umanità migliore.
Forse solo la parola, che si fa strada oltre il buio del cuore, per chi come me ne fa arma e carezza, quando il cuore è ottuso ad ogni richiamo, è in grado di afferrare il cielo, e di sfogliare i suoi petali di luce per farne lievito di stelle e credere che persino la notte ci possa offrire una lucerna o miriadi di lucciole per ritrovare la strada del ritorno… il nostro vero cuore “mai colmo” di tenerezza e di accogliente amore. 
Sì, tra la vita e la morte, il cielo immenso. Racchiuso nel nostro immenso cuore di piccoli uomini, infinitamente più piccoli del pulviscolo atmosferico che respiriamo…
Dobbiamo soltanto riscoprirlo, il cuore, per accorgerci che poi il cielo non è così lontano…  
(il testo comprende anche qualche stralcio, ricontestualizzato, di una mia pagina scritta in Un non luogo tanti luoghi DENTRO L’UOMO, SECOP Edizioni, Corato - Bari 2008).




martedì 15 gennaio 2019

15 gennaio 2014 - 2019: cinque anni senza Maria Marcone


Solo quattro anni fa, a distanza di circa un anno dalla morte di Maria Marcone, così scrivevo:
    “… Insomma, a distanza di quasi un decennio, eccomi qui a scrivere di Lei. Quasi un impulso. Quasi un richiamo, un comando. Quasi un desiderio. O una necessità.
Io credo nella invisibile ma reale comunicazione tra chi continua a vivere e ad amarci in un’altra dimensione e chi continua a vivere e ad amare in questa difficile tormentata esistenza. All’invisibile richiamo tra terra e cielo io ci credo. Non siamo fatti noi, come ci ha insegnato Shakespeare, “della stessa materia delle stelle”? Niente può andare perduto e dimenticato finché rimane la foscoliana “corrispondenza di amorosi sensi”, anche oltre la materia e la vita”.
Purtroppo, ad oggi non ho potuto realizzare il mio e Suo desiderio di pubblicare la raccolta di poesie inedite “Tempo naufragato… tempo ritrovato” né l’ultimo, inedito, romanzo “L’urlo”, affidatomi per la pubblicazione da Antonio Ricci, suo devoto e sempre attento compagno di vita fino alla fine, per via del silenzio dei figli. Silenzio per me incomprensibile che, però, rispetto.
Il mio intento era, appunto, restituire a Maria la totalità della sua esperienza artistica, culturale, letteraria, poetica, umana.
     E Antonio, allora, fu prodigo di aiuto e disponibile, oltre ogni mia previsione, a cooperare con me per la buona riuscita dell’opera.
A lui va, dunque, ancora oggi che non c’è più, il mio grazie sentito e profondo per la gioia che mi procurò nell’inviarmi altre poesie e fotografie di Maria, articoli e recensioni su di lei. Non fece in tempo, purtroppo, a firmare il contratto che era già nelle sue mani.
     E, così, le poesie di Maria e il suo ultimo romanzo sono rimasti sconosciuti ai suoi tanti lettori ed estimatori.
Per questo, a distanza di cinque anni dalla sua morte, sono qui a parlare ancora di Lei e della sua scrittura. Per il grande amore che le porto ancora.
“Anche nelle poesie, del resto, scopriamo nella nostra Autrice il senso fortissimo della ribellione alle regole che imbrigliano la sua libertà di persona e, nello stesso tempo, il suo accettare, senza piegarsi mai, con grande sofferenza e dignità, le leggi dell’Amore che la rendono capace di “infinita indulgenza” verso gli errori umani e di “estrema disponibilità” ad accettare l’altro e ad affrontare la realtà esterna con il coraggio che le proviene dalle sue certezze/incertezze e dalla sua crescente, anche se estremamente sofferta, fiducia in Dio. (…)
     Strane poesie, quelle di Maria Marcone. Anarchiche come lei. Non seguono i canoni “canonici” del poetare, non hanno una metrica o una rima. Non si possono collocare in una corrente letteraria. Non sono ermetiche o sperimentali. Non appartengono ad una scuola né fanno uso, se non in alcune occasioni, di figure retoriche. Sono, appunto, racconti di sé in versi. Sono pezzi di diario in righe che vanno spesso a capo, come direbbe Erri De Luca.
Esse, infatti, hanno un loro innegabile ritmo proprio per via di quegli spazi occupati dalle parole sul foglio in modo, solo in apparenza però, arbitrario. Versi spezzettati, che si dilatano ad occupare visivamente la scena per dare senso e significato alle parole, già di per sé chiare, lapidarie, forti. Senza ambiguità e senza simboliche elucubrazioni mentali. Sembrano lanciate nello spazio della pagina come lapilli incandescenti a ferire, percuotere, bruciare, oppure pietre impetuose e impietose, massacranti, che colpiscono duramente le coscienze. Ma sono parole che sanno anche lambire, accarezzare, levigare, quando si trasformano in onde che avvolgono, in ali che volano e che abbracciano e proteggono. E sempre senti che seguono il ritmo interiore dei pensieri di Maria, una loro particolare musicalità. Fascinosa. Trascinante. (…)
     Ad un’attenta lettura dei suoi versi che, zigzaganti, ricamano il foglio, si ha l’impressione che Maria Marcone abbia inventato un nuovo modo di fare e scrivere poesia. Un modo tutto suo, originale e catturante.
     Giuseppe Lagrasta definisce la scrittura di Maria “errante” e di “memoria partecipata”. Ebbene, ritengo che queste splendide definizioni, risalenti ad Italo Calvino, si possano riferire molto bene e molto di più ai suoi versi.
E sono erranti non solo perché “camminano” sulla pagina bianca, dimentichi di punti e di virgole, dimentichi di regole e di freni, dimentichi di “dimenticanze”, ma anche perché fanno un lungo viaggio all’interno e all’esterno del mondo di Maria, che va continuamente alla ricerca di sé e degli altri, in maniera spasmodica e accorata, altera e umile, semplice e complessa”.
     Molto tenera, come raggomitolata su sé stessa e in sé conchiusa è, per esempio, la poesia “Natale” che apre la raccolta.
Molto significativi gli ultimi versi.
È buio fuori è freddo/ e non ce ne stiamo dentro le case/ in mezzo alle luci ai colori alle grida/    E non sentiamo Gesù che passa
Quanto poetico e accorato rammarico per una festa che si ripropone ogni anno in famiglia e nelle case, con tante “luci”, tanti “colori” e tante “grida”, mentre ci sfugge proprio l’ospite atteso, Colui che passa inascoltato!    
     “È, però,  nella ‘Lettera ai figli’ che Maria Marcone rivela il suo grande senso di giustizia e la pienezza della sua umanità, non disgiunti da una cruda visione della realtà, sempre presente nella sua vita e nelle sue opere,  chiedendo reiteratamente perdono ai suoi due ragazzi per non aver esitato a dare loro il seme della vita in un mondo violento, rabbioso, indifferente, ingiusto, dove vige la legge del più forte, dove mafia e razzismo regnano sovrani, dove la droga è un fiume inarrestabile di dolore e di morte e dove dolore e morte sono presenze quotidiane incancellabili, inevitabili. Ma, al di là del dolente senso di colpa, i genitori sono fieri almeno di averli aiutati a costruirsi le corazze contro ogni male che potrà, malgrado tutto, assalirli e dilaniarli, mentre loro due saranno sempre pronti con braccia di tenerezza ad accoglierli per poterli, dopo ogni battaglia, dopo ogni ritorno, saziarli di quell’amore immenso, di cui essi hanno una sete/ furiosa/ d’amore.
E in questi due ultimi brevissimi versi c’è tutta la profondità poetica di Maria, la sua grandezza come donna, madre, persona, scrittrice. E c’è tutta la giovinezza che esplode nei suoi ragazzi, con la loro carica di incosciente voglia di afferrare la vita e di andare lontano nel fuoco d’artificio dell’assoluta libertà, ma anche con il bisogno altrettanto “furioso” di tornare a casa tra braccia/rifugio, che si protendono e si serrano, sicure e protettive, dove ci sono brandelli di carne da ricucire, sogni sbrindellati da rattoppare, frammenti di ideali da recuperare perché essi possano riprendere a volare, fortificati dall’Amore genitoriale, che oblativamente tutto dona quando si scopre ancora stilla di sangue. E il prendersi cura dei figli sempre è una realtà di quotidiano insaziato reciproco amore. (…)
Ecco, non ci sono metafore che possano adombrare la realtà, ma parole come lame acuminate per dire la verità, nuda e forte e vera”.
Il romanzo inedito, del resto, s’intitola “L’urlo” e si richiama al grido feroce di Maria in difesa della sua libertà, in una dichiarazione d’amore totale nella sua esplosione violenta, esasperata, sincera, quasi gridata a pugnalare e sbrindellare la sua lacerante e lacerata esperienza di vita di donna creativa, libera, “insolita” nelle sue innumerevoli espressioni e reazioni.
Spesso è un urlo d’amore nei riguardi dei suoi cari, preceduto da tutte le feroci proteste contro una madre matriarca, che avrebbe voluto condizionarla ancora con una cultura d’altri tempi che Maria aveva sempre mal sopportato e a cui mai si sarebbe sottoposta, nonostante tutto l’affetto per quella donna che pure aveva avuto una vita difficile e tanti figli da tirare su da sola come “argano” col carico pesante da riportare a riva.
Ciascuno deve vivere il proprio tempo nella maniera più libera e consapevole. Questo è l’assunto primario di Maria Marcone. E lo ha urlato con tutta sé stessa, e nelle sue furibonde ribellioni sia in prosa che in poesia. Sempre. Per quell’ansia continua di Maria di comunicare con gli altri, di protestare contro rapporti che non sono come vorrebbe, di denunciare ogni atto d’ingiustizia, di ipocrisia, di sopraffazione.
Lei, così impetuosa, passionale e appassionata; lei così attenta agli altri, nel rispetto dell’altrui libertà; lei così pronta ad evidenziare malesseri e contraddizioni per recuperare le “tessere” perdute della propria esistenza e rimetterle al posto giusto per salvaguardare la bellezza e l’armonia nel puzzle scompaginato della sua vita, spesso incrinato dai rapporti burrascosi con gli altri, con la società, con il mondo intero.
Lei, trasparente come lieve onda carezzevole alla battigia.
Lei, mare impetuoso con marosi devastanti in tempeste spaventose e uragani di totale distruzione.
Ecco, il mare è l’elemento primordiale, in cui Maria si identifica. Molte sono le poesie che cantano il mare in ogni sua cangiante realtà/verità.
     “Ma la poesia che più la rappresenta e la connota è quella che l’Autrice dedica a sé stessa e in cui si rivolge al suo alter ego, Alice, quasi fosse la protagonista della stupenda fiaba di Lewis Carroll, perché come lei s’inoltra nel Paese delle Meraviglie della creatività e, quindi, per quel che la riguarda, della scrittura, con rinnovato continuo stupore, struggente passione e infinito dolore. In ogni parola scritta Maria è sé stessa ed Alice sempre: viva, vera, palpitante, dolente, umana, divisa.
Sto percorrendo, dunque, le strade in prosa e in versi del cuore di Maria con lo stupore, il senso di mistero e l’angoscia che esse offrono all’esploratore dei meandri più nascosti e scoperti insieme della sua anima lacerata, profonda, tormentata, straordinariamente umana.
     E il mio stupore è grande di fronte all’altezza e all’umiltà, alla complessità e alla semplicità, alla ribellione e alla dedizione, all’intensità dei sentimenti di questa donna straordinaria e straordinaria scrittrice nel dono totale che di sé fa quotidianamente agli altri, alla scrittura e, infine, a Dio.
Per riscoprirsi continuamente nella luminosità della sua anima, per arrendersi e consegnarsi definitivamente a Lui, suo porto sicuro, sua dolce certezza, e non soltanto speranza”.
     La scrittura di Maria, in prosa e in versi, mi ha insegnato tutto questo ed altro ancora, confermando in me la fede, sempre del resto professata, nella libertà di essere sé stessi e nel sentimento che tutti ci unisce e ci salva, l’AMORE.
Ed ancora oggi io voglio ricordarla così: fragile e forte. Autentica sempre.
Come amica. Come donna. Come scrittrice.    

venerdì 11 gennaio 2019

11 gennaio 2019: i tuoi cinquantadue anni tra le stelle


Ancora un anniversario senza la tua presenza fisica, ma sempre più presente nel mio cuore e nel cuore di quanti ti hanno amato e ti amano, mia immenso “papà”. Nel cuore anche di quanti stanno imparando a conoscerti attraverso le mie parole che parlano costantemente di te. Non smetterò mai di raccontarti. Grande è la mia gioia nel saperti adottato come “nonno” da quanti hanno letto e ascoltato alcune pagine del mio romanzo “Le piogge e i ciliegi”, che sta percorrendo l’Italia ed è arrivato, per il momento, anche a Belgrado. 
A distanza di 157 anni dalla tua nascita si parla ancora di te. Tu vivi ancora. Ed io sono felice di aver contribuito a questo piccolo grande prodigio.
Stasera, nella nostra libreria Secopstore, parleremo delle tue fiabe e della tua fantasia accesa, della tua generosità e del tuo sorriso sempre pronto ad accogliere gli altri, a fare festa a tutti: grandi e piccini, parenti, amici e conoscenti. Estranei, solo per poco.
Quanta eredità di buoni sentimenti con il tuo esempio, le tue parole, il tuo sorriso! Anche i tuoi nipoti ne vengono illuminati. E tu continuerai a vivere ancora nel loro cuore, nei loro comportamenti, nel futuro che conoscerà i loro passi e i loro ardimenti e proponimenti per rendere più umana questa nostra società alla deriva.
Grazie, papà, per la tua meravigliosa presenza tra noi. Faro e Luce dei nostri giorni…

Se non fosse per te
Cosa avrebbe un senso
Sotto a questo cielo immenso
Niente più sarebbe vero
Se non fosse per te
Come immaginare
Una canzone da cantare
A chi non vuol sentirsi solo
Se non fosse per te
Crollerebbe il mio cielo
Se non fosse per te
Sarei niente, lo sai
(…)
Chiudo gli occhi e già volo
D'improvviso la malinconia se ne va
Dai pensieri miei cade un velo
E ritrovo con te l'unica verità
Solamente tu sai
Anche senza parole
Dirmi quello che voglio sentire da te
(…) 
Una pioggia di stelle
Ora brilla nell'aria
Ed il mondo mi appare
Per quello che è
Un oceano
(stralci della canzone “Tutto quello che un uomo”
 di Sergio Cammariere)Sergio CammariereSergio
  
                            (a mio nonno,
                                       faro dei miei giorni bui)

Sei silenzio e canto
orma che incanta occhi stanchi
sul confine indistinto delle cose
Luce lontana che squarcia il cielo

Sei latte d’innocenza che mi nutre ancora
e gesto di tenerezza che sazia di spine
il roseto mai spento di petali a primavera
in un tramonto di vene che dilata il mare

Sei acuto imbroglio d’abbandono
e dolore sei più d’ogni altro dolore
Io con te esploratrice di terre bambine
assetata d’incanti ora smemoria di canto

Sei ala d’aquilone a raccontarmi l’azzurro
tormento e perdita d’ogni altro incontro
Tornano fiabe di ciliegi innamorati
in panieri di rossi respiri colmi d’amore

C’è sempre una preghiera a raccomandarti
alle stelle che mi parlano ogni notte di te
E la tua voce ancora a farmi compagnia
richiamo di confidenze e rose nel cortile

(nei momenti di sgomento
mai assenti le tue mani fiorite di prodigi)
(“Sei silenzio e canto” 
da L’ora dell’ombra e della riva)                                                







lunedì 7 gennaio 2019

7 gennaio 2019: una riflessione sulla Epifania


Ieri ho ricevuto molti messaggi augurali per la… Befana. Con molta autoironia mi sono divertita a vedermi nei panni della nonnina bitorzoluta e con il naso adunco, brutta come lo spavento, ma generosa e tenera di cuore. Molte amiche mi hanno inviato foto, anche di bellissimi ragazzi in sostituzione della Befana e con didascalie molto promettenti (!?!). E molto divertenti. Con tante frasi consolatorie sulle Donne che, anche da Befane, sono in grado di portare il mondo in volo sulla scopa per migliorarlo. Un esempio?
Ti regalo questa scopa affinché tu possa spazzare via dalla tua vita la tristezza, il dolore, la rabbia, il risentimento, le bugie, i pianti, l’odio e tutte le cose brutte che in passato ti hanno fatto soffrire… quindi afferra questa scopa ed elimina tutta la spazzatura dalla tua vita. Cit.”. Con foto della befana, questa volta bimbetta e molto carina, che sorregge la scopa, non la cavalca. Mi piacciono molto immagine e messaggio. E molto mi hanno fatto sorridere, ma anche riflettere.
Occorre essere bambini per non avere a che fare con la “spazzatura della vita”, che purtroppo si accumula con gli anni, soprattutto nella società attuale (ho visto Roma sommersa da spazzatura negli ultimi giorni del 2018, e ho dovuto, mio malgrado sostituire alla mia convinzione di “Roma, Museo di ogni Bellezza a cielo aperto” con “roma, museo di ogni schifezza sotto un cielo di cupo abbandono”). Per questo la vecchia Befana è così brutta e rugosa e ha spalle curve e un cappellaccio a impedirle di vedere il mondo tra cielo e terra?
Endimione rimase giovane sul monte Latmos perché dormì per trent’anni e non poté essere scalfito dalle brutture del mondo…
Ma io non sono più bambina e non riesco quasi mai a dormire. Per questo sono invecchiata male come una vecchia befana?
Mi conforta e mi dà speranza, però, un messaggio dell’ultima ora che la mia carissima amica Anna Ferrara mi ha inviato, riportandomi al significato vero e luminoso di Epifania: “Un grande abbraccio a Te e tanta Luce dalla manifestazione del Cristo all’umanità”, con emoticon di stelle e lingua ardente di fuoco.
Sono rimasta anch’io folgorata. Dunque, Epifania ha solo un significato “a latere” di befana (termine derivato indubbiamente da epifania) nel senso di dono da mostrare, come fece il Bambino Gesù, mostrandosi (e facendo dono di sé) ai pastori che avevano seguito la stella cometa (e avevano portato una pecora o una capretta, unico sostentamento dei loro giorni di fatica), come pure ai Re Magi, venuti, a loro volta, dall’Oriente, seguendo anch’essi la stella cometa, con doni ben più preziosi e di non semplice interpretazione, quasi una ricchezza del cuore, quasi preghiera, quasi un vaticinio di sofferenza, ma anche di cura: oro, incenso e mirra.
Una rivelazione, certo, ma anche una illuminazione.
Una luce che scende dall’alto a illuminare le tenebre del mondo, della mente, del cuore. E tutti noi avremmo bisogno di luce per scoprire, vedere, conoscere, sapere. Terribile è la cecità della mente, del cuore e dell’anima. Molto di più di quella fisica. Chi non ha letto “Cecità” di Saramago? È davvero illuminante. Quanta cecità ammantata d’amore… che alla fine si rivela soprattutto amore per sé più che dell’altro, a cui si professa amore per chiedere amore. Ma l’amore oblativo non chiede davvero nulla per sé e tutto dona. Ogni attesa, ogni pretesa, si rivela un bluff in amore perché l’altro è solo una proiezione di sé, anche in termini negativi. Il nostro buio, le nostre ombre (C. G. Jung) le proiettiamo su chi amiamo per sentirci vittime e innocenti…
Ecco, allora, la necessità della illuminazione perché nessuno saprebbe leggere in sé stesso se non venisse illuminato. Il nostro cuore sarebbe la caverna più oscura della nostra esistenza se non venisse illuminato dalla luce della vera comprensione che è data dall’Amore per l’altro/a, senza attese e senza calcoli di sorta. Bello sarebbe l’appagante scambio reciproco come dono di sé all’altro, che è di per sé pienezza e gioia.  
 Uno scambio di doni, dunque, è anche l’Epifania, umile inno alla Reciprocità e all’Amore. Alla Luce. Alla visione chiara di sé che comprende anche l’altro, simile a sé, ma anche tanto diverso da sé.
Inno alla premura e alla cura. Inno alla salvezza reciproca.
Ma la cura sottintende, come ieri ha affermato Antonio Serlenga, altro mio carissimo amico e sensibile interlocutore, il “conservare” perché nulla di quello che siamo e diamo agli altri vada distrutto o dimenticato. E lui ne è un bellissimo esempio.
Già, il “conservare” contrasta con il vivere l’“attimo” come se fosse un “eterno infinito”. Folgorazione di un istante. Bellissimo a dirsi, ma poi sarebbe davvero possibile vivere l’attimo di ogni attimo e basta? Cosa conserveremmo davvero di noi e degli altri senza il “prenderci cura”, che è dono e, quindi, azione continua, giorno dopo giorno, di premura, attenzione, protezione verso la persona amata o verso qualsiasi altra persona (senza mai chiedere nulla in cambio che non sia dono inatteso e gratuito nella sua autenticità), se non conservassimo sentimenti, emozioni, doni ricevuti e dati, memoria e storia di sé e degli altri?
Occorrerebbe davvero fermarci a riflettere sulle tante tematiche e problematiche individuali, amicali, relazionali, psicologiche e non solo, che si aprono a ventaglio alla nostra attenzione perché questo Nuovo Anno ci porti davvero una epifania di Luce, (ognuno attingendo al proprio credo, ma facendo spazio anche alle convinzioni o, meglio, ai dubbi di ogni altro da sé), a rendere più chiaro il nostro cammino di uomini sempre più alla deriva…
Sarebbe davvero la “fine” di ogni egoismo, di ogni violenza, ipocrisia, invidia o indifferenza e l’“inizio” di altri noi, con una veste nuova di altruismo, reciprocità, solidarietà, empatia, assertività, resilienza. Sogni, bisogni, valori. Nella nostra imperfezione, certo, ma anche in una nuova e più luminosa veste di autenticità.

giovedì 3 gennaio 2019

3 gennaio 2019: il tempo passa o passiamo noi nel tempo?


Tempus fugit
Tempo virgiliano tempo oraziano. Il mio il tuo tempo, che dell’eternità ci regala l’attimo, eterno presente in cui siamo ciò che mai siamo stati e mai più saremo.
In ogni attimo l’Io nella sua pienezza di ESSERE in quell’istante.
Pure, il tempo ha passi di viandante a percorrere strade e vie e sentieri tra case addormentate e un risveglio d’alba che sa l’aurora e preannuncia il giorno.
Lascia orme sui percorsi innevati dei monti e passi incauti tra campi di ulivi alla collina. E tralci di viti ubriachi di sole.
Ha un incedere attento tra l’erba dei prati e lucertole e sassi di ogni possibile inciampo.
S’annida nella casa, tra serti di braccia di chi si ama, e spine dolenti di chi si odia e nasconde coltelli in sotterranei anfratti del cuore. E si sgomenta.
Il tempo, accogliente o diffidente, incontra gente amica o sconosciuta, si gira indietro al richiamo nostalgico del pianto dell’amato perduto e del sogno irrealizzato.
Segue un destino di mete e di realtà sognate e spesso vanificate dall’inganno di un miraggio nel deserto dell’anima in disuso e prigioniera di rancori mai spenti, che ravvisano un nemico nello straniero della porta accanto. E lo straniero guarda cupo il traguardo azzerato, la casa abbandonata, la terra, la culla… e il miraggio della terra straniera, luogo d’incanto per bellezza e forza e promessa di lavoro e libertà.
Vola il tempo sulla disperazione e il rimpianto, sul pianto che fora l’azzurro per raggiungere il Cielo e ritrovare una voce che non ha più voce…
Vola tra aerei e aquiloni e stelle e pianeti. Gira intorno al sole e s’incanta di luna. Sfiora universi e galassie e ride di misteri gravitazionali e quantici.
Precipita in buchi neri.
S’impiglia tra le antenne sui tetti delle case e s’aggrappa alle code degli uccelli in migrazione.
Pigola tra passeri e pulcini e chiude gli occhi al canto del gallo e al terzo tradimento. Svetta sul volo dispiegato di falchi e poiane, e canta tra le ali della paradisea e dell’airone.
Plana lento sul grido strozzato dei gabbiani, e si tuffa negli oceani da cui ebbero origine i mari.
Naviga tra lo scintillio di acque calme a specchiare zaffiri e smeraldi e diamanti di cielo e s’infuria tra i marosi in tempesta e gli scogli appuntiti di ogni dolore.
E conosce il segreto delle maree.
S’inerpica sui pensieri che dondolano d’altalene tra gli alberi spogli e quelli in fiore. Rischia gli abissi tra fondali insondati di coralli e velieri e tesori nascosti in galeoni affondati, depredati e distrutti dalla mano rapace dell’uomo che non teme coscienza e sacralità dell’eterno andare per conoscere e sapere.
Prega tra le mani del Cristo degli abissi e s’inabissa tra tormenti e trasalimenti, tra schianti dell’anima alla deriva di ogni perché.
Risorge sulla schiena inarcata dei delfini e medita tra guglie di cattedrali gotiche e s’insuperbisce di castelli federiciani e archi di trionfo.
Versa lacrime lungo i muri del pianto e rinasce negli occhi immensi dei bambini alla prima fiaba, al primo gioco con le manine, al primo sguardo della mamma, al primo germoglio in fiore che annuncia il risveglio nel pudore rosato di mandorli e ciliegi baciati dalla primavera (Neruda). E s’innamora di un canto d’amore.
Si colma di sole nei secchielli di sabbia tra mani bambine e nenie di barche addormentate nei porti, che sentono la tristezza della solitudine del faro e lo schianto dei gommoni alla deriva di una estate che ignora storie di fughe e di fame di guerre e di abbandoni sulla pelle abbronzata dei turisti multimiliardari.
Piange con le piogge di settembre e s’infilza sulle cime acuminate dei cipressi che vegliano urne di morti abbandonate o protette da crisantemi e cespugli di rose. Sorride alla stella cometa che sfida il gelo e indica agli “uomini di buona volontà” la meta e la divina culla. La rinascita alla Speranza.
Dove c’è un bambino c’è una fogliolina verde che fremita di futuro…
Il futuro, un eterno ritorno!
Passano gli anni e le stagioni. E dei mortali gli amori e le generazioni.
Immortale resta il tempo e si eterna nella Volontà di una Energia d’Amore che lega i sottilissimi fili dell’ordito e della trama di ciascuna Creatura in forte attrazione, e connette ogni particella del Creato al suo Creatore. Che sa l’aurora e il tramonto, lo spuntare del filo d’erba e il maturare del frutto, lo scorrere dei fiumi e il disgelo delle nevi. Il tempo giusto di ogni accadimento.
E vigila sul buio della notte accendendo sogni come stelle sul misterioso canto della Vita…
Sereno Nuovo Anno a tutti gli abitanti della Terra. Di questa grande comunità di uomini nonché “bella d’erbe famiglia e d’animali” (Foscolo).
E, senza retorica, nella speranza di un risveglio della nostra Umanità più vera!
A conferma di questi pensieri mi piace riportare dei versi che ho scritto a Roma nel Cimitero acattolico

30 dicembre 2018

...tra un verde d'alberi
e suono lontano di campana triste
la collina s'inerpica fino al cielo
di nuvole e stridii di corvi
Silenzio di contraddittorie urne
con angeli e croci
tra nomi stranieri che cantarono
la Poesia di terre lontane
alla sconfitta di sogni e parole
 acerbe e sconosciute
Pure un'urna di dreamers
s'insinua tra l'erba e il canto
                del cuore
alla speranza del caldo risveglio
           nella Luce di Dio
(bistrattato sconosciuto ignorato)
che sogna il loro sogno e prega
tra le rime di Keats e il rimpianto
di Schiller per la Grecia antica 
e i suoi cantori
E i dreamers continuano a dormire
      vegliati da quel Sogno
   nella speranza di rinascere 
  alla Bellezza incontaminata
              alla Luce...