domenica 22 settembre 2024

Domenica 22 settembre 2024: Una Maestra ma non Troppo: ancora qualcosa da dire...

Con l’equinozio di settembre siamo in pieno autunno. Da domani i giorni saranno sempre più brevi. Sento l’autunno come tempo di ritorni e non so spiegarmi perché. E, per non pensarci più di tanto,   ritorno a scrivere del libro di Raffaella perché mi piacciono tantissimo le storie che racconta, rendendo protagonisti i suoi alunni che, in ogni tempo, hanno vissuto sulla propria pelle “fatti e misfatti” nella scuola, ma prima ancora nella famiglia, nella comunità di appartenenza, nell’intera società.

E parto dalla parola Handicap che, nel suo libro, assume significati diversi e sempre nuovi.

Handicap:

Hai con me

Ali

Nuove

Da

Inventare

Come

Aquiloni

Per volare

Mamma mia, che rivoluzione! Ho cambiato

persino il significato di una parola.

Che disastro!

Il fatto è che i vocabolari sanno tutto, ma

insegnante

Io e te

Noi

Siamo

Entusiasti

Gioiosi

Nonché felici di

Apprendere facendo

Nuove

Trionfanti

Esperienze

Raffaella è nella terra dei vocabolari, dove ogni parola ha un suo preciso significato che non ammette la creatività, l’immaginazione, la fantasia. È quello e basta. I vocabolari non hanno il suo stesso entusiasmo nel cercare il significato delle parole: non te lo sanno comunicare con entusiasmo, con una piccola vibrazione, un afflato. Eppure, ci sono gli esempi, i sinonimi e i contrari, l’etimologia, i vari utilizzi, i contesti, ecc., ma tutto è offerto in modo asettico, da sala operatoria. Purtroppo, le regole mi sono sempre state strette, non ne trovo mai della mia taglia, proprio come i vestiti! Le definizioni dei vocabolari sono nate per chiarire o così dovrebbe essere, se non hai bisogno come me di fare giochi con le parole per cercare altri suoni, altri gusti.

Mi piacciono le certezze, ma credo sempre nell’azione benefica del dubbio, che scompagina e ti mette altra strada da fare sotto i piedi. I vocabolari, invece, per natura eliminano i dubbi e stabiliscono i confini dei termini. Ogni parola, lemma, vocabolo ha il suo territorio. Abita un contesto preciso. Significa esattamente qualcosa. Non ci sono margini di errore. Gli errori nascono dall’uso sbagliato dei vocaboli. Possono essere sbagliati i contesti, le circostanze, in cui le parole si adoperano. La loro esposizione può essere poco chiara o poco coerente, ma il loro significato è preciso, dettagliato, studiato in ogni suo aspetto. Possiamo dire che ci sono parole belle e altre decisamente brutte, ma abbiamo la certezza che ognuna ha il suo ben preciso scopo comunicativo

Una volta cercavo di dare ad un mio meraviglioso alunno la possibilità di ampliare il suo lessico, perché la sua povertà lessicale, appunto, lo costringeva in un isolamento sociale e scolastico notevole. E così ogni giorno gli proponevo liste di nomi a cui attribuire aggettivi adatti, per non usare sempre i tre termini che conosceva. Quella fu la volta, dopo lunghe trattative in cui mentre gli prospettavo l’opportunità di cambiare le parole che lui mi indicava con altre più idonee, alla parola maestra lui associò il termine “cattiva” e prima ancora che io potessi chiedergli di cambiarlo, lui mi bloccò la mano e, in dialetto, mi chiese senza possibilità di replica di lasciarlo così com’era. Lo scopo comunicativo era stato perfettamente raggiunto, e la parola non aveva altri sinonimi o poteva essere sostituita da altre. La maestra era cattiva punto e basta.

Domenico era intelligentissimo e mi ha regalato punti di vista o di svista sulle cose, le persone, gli avvenimenti assolutamente unici e originali, come quando nel desiderio di giustificarsi per le sue difficoltà di apprendimento, mi disse: “Che vuoi da me io sono nato in dialetto”.

A lui e al ricordo del mio mitico professor Sossi ho dedicato poi il racconto che vi faccio leggere, mentre cammino tra le parole della Lingua Italiana, qui nella Terra dei Vocabolari:

Dragongomma

Io in terza elementare mi vedevo ancora. Cioè, mi spiego: io mi vedo sempre, sono gli altri che non mi vedono più. Tutta colpa di Dragongomma. È lui che mi sta cancellando, un po’ per volta, fino a quando, ne sono certo, non mi farà sparire del tutto. Dragongomma è un drago mostruoso, che vive nascosto nel mio borsellino. Tutto è cominciato quel giorno che, all’inizio di novembre di quest’anno scolastico, sono andato a comprarmi una nuova gomma per cancellare. La signora della cartoleria mi stava dando una di quelle solite gomme bianche e blu, ma sullo scaffale più polveroso, io ne vidi una molto più grossa delle altre, verde con una striscia rossa al centro. Mi sembrò bella. Che ne potevo sapere io che era anche cattiva! Beh! Non ho prove per dire che Dragongomma sta facendo tutto da solo, ma non ho più molto tempo per scoprirlo, ormai. Di sicuro, però, il giorno dopo che ho comprato quella gomma infernale, la maestra mi ha cambiato di posto. Mi ha messo da solo. Ero così triste di aver perso il mio unico compagno di banco che, quasi quasi, mi mettevo a piangere. Ho strizzato gli occhi così forte che ho cacciato le lacrime indietro ma poi, quando li ho riaperti, ho visto quella gommaccia che si muoveva. Lo so che le gomme non camminano, ma sono pronto a giurare che, da quel momento, quella gomma verde con la striscia rossa è diventata un drago. Dragongomma, come lo chiamo io. Io non so cosa gli ho fatto, ma lui ce l’ha con me. E da quel giorno mi cancella, come uno che si vuole prendere il mio posto. Prima che arrivasse lui, la maestra mi mandava a fare le fotocopie o mi chiamava per distribuirle, oppure mi faceva raccogliere i quaderni per la correzione, dopo, invece, piano piano ha incominciato a non chiamarmi più. Ora, io lo so che ci sono gli altri bambini e che tutti dobbiamo fare qualcosa, però, io non ci sono più, neanche quando la maestra interroga. La maestra, in prima, seconda e terza, qualche volta quando alzavo la mano, mi faceva pure a me le domande. Lo so che non rispondevo bene e che non dicevo tutte le cose. Un po’ me le scordavo, qualche volta rispondevo con eee, mmm. Oppure le dicevo solo in mente, ma dalla mia bocca non usciva niente. Ma è che io, però, ci ho un problema… e… em… Vabbè: io sono nato in dialetto. A casa mia parliamo la nostra lingua. E che comunque non è che parliamo tanto... comandiamo. Mia nonna comanda a mio padre, mio padre a mia madre e mia madre a me. Io non tengo nessuno da comandare e sto sempre zitto. Forse la maestra si è accorta che noi stiamo come in un mondo a parte, però lei, prima, mi diceva “Corrado, devi studiare un po’ di più. Mi raccomando”. Ora, anche se io alzo la mano, lei non mi chiama più. Io avrei tante cose da dire! Prima di tutto vorrei chiedere a lei: - Perché mi hai spostato dal mio amico Gianni, che io ancora non l’ho mica capito? - Io sono uno che non parla mai e Gianni mi capisce lo stesso. Ora non posso più chiedere aiuto a nessuno. Io a Gianni l’ho sempre avuto dalla prima. Lui è come una linea che mi unisce agli altri. E poi ci ha la pazienza d’impararmi l’italiano. E poi vorrei anche dire: - Perché non mi vedi più, maestra? E soprattutto, perché non comandi a Dragongomma di lasciarmi in pace? Prima, alzavo un dito e lui l’ha cancellato. Poi ho aperto tutta la mano e lui l’ha cancellata. Così ho alzato tutto il braccio più in alto che potevo e la maestra non mi ha visto neanche e ho capito di aver perso anche il braccio. Il fatto è che ora più si cancellano parti di me, più diventa grosso lui. La mia cartella è diventata pesantissima e la mattina proprio non ce la faccio a portarla fino sopra. Così un giorno, Tommaso, il bidello, mi ha detto dietro: - Ma cosa porti in quello zaino? Io gli volevo gridare: - DRAGONGOMMAAAA! - ma non lo posso dire a nessuno che nel mio zaino tengo un drago di 45 chili, che prima era una semplice gomma ed ora è pronto a divorarmi. La mattina è sempre più difficile per me andare a scuola, anzi faccio tanti capricci per non andarci e invento un sacco di scuse: mal di pancia, mal di denti, mal di gola. E mentre mamma non mi crede, io sento che Dragongomma mi ride addosso. Mia madre a scuola mi manda sempre, pure che ci ho novanta di febbre! Perché dice che a scuola si deve andare per forza, altrimenti vengono i carabinieri, come erano andati a suo padre, nonno Ciccio, che stava in campagna a raccogliere le olive e sono andati a prenderlo. Mio nonno, poi, quando ha finito di andare a scuola è andato di nuovo a raccogliere le olive e si è dimenticato tutto. Anche se le poesie le sa ancora e a Natale le diciamo insieme. Io le mie e lui le sue. Prima di Dragongomma, io tenevo solo il problema del dialetto. Adesso, invece, non so più cosa fare. Se non mi vedranno più per niente a scuola penseranno che sto a raccogliere le olive! Ma ditemi se sbaglio, se a scuola non mi vede nessuno, che ci vado a fare? La maestra non si accorge neanche che è da tanto tempo, ormai, che non prende i miei quaderni per correggere. Lo so che si stancava a segnare tutto rosso, ma almeno io capivo che avevo sbagliato. Adesso il quaderno è tutto bianco, neanche un po’ di rosso e neppure nero, perché da quando c’è Dragongomma che mi cancella, manco mi sforzo di scrivere. La maestra era l’unica adulta che pure se non capivo tutte le parole che diceva, la capivo lo stesso. Maestra, sono ancora qui, per poco, non sono completamente sparito o non ancora, almeno, perché una volta mi è sembrato che Carlo, un compagno di classe, mi stava sorridendo. Volevo chiedergli: - Allora tu mi vedi? - ma dalla mia bocca non mi è uscito niente. Forse Dragongomma mi ha già cancellato la lingua. L’altro giorno poi, entrando nel portone, per errore ho fatto cadere il cartellone degli avvisi. E Tommaso si è messo a gridare: - Chi è statooo? Ma come chi è stato? Sono stato io! L’hanno visto Tutti! Maccè! Non mi ha visto nessuno! E allora sarà proprio giunto il mio momento! Oggi non volevo venire a scuola, ieri non ho fatto i compiti. Non li voglio fare più! Salgo le scale che un vecchietto di cento anni le fa prima, mi trascino. Dragongomma, ormai, sarà diventato almeno di 450 chili! Uff! Sto per sparire e mi dovevo pure caricare sto bestione di drago! Ho cercato di buttarlo tante volte nel cestino, ma ogni volta non riuscivo a trovarlo. Quello si nascondeva. Quando entro in classe non se ne accorge nessuno. Mi siedo da solo nel mio banco all’angolo. La maestra, ormai come ogni mattina, comincia a parlare con tutti tranne che con me. Addio, mondo! Appena apro lo zaino Dragongomma mi farà sparire anche la testa! Con un ultimo colpo di coda mi cancellerà tutto. Sono l’ultimo ad arrivare e per forza ho salito a 1 all’ora! La maestra non c’è. In classe stanno facendo chiasso… Mi siedo e aspetto l’ultima scancellata definitiva. - Ehi tu? - una voce maschile entra nell’aula - Tu, nell’angolo! - Chi? Io? Mi sono girato verso la porta - Sì tu, come ti chiami? - mi ha domandato un uomo alto alto con la barba e una giacca rosa. - Mi chiamo Corrado - ho risposto appena. - Senti, Corrado, vieni qui, fammi una cortesia. Vai a chiamarmi il signor Tommaso, per favore. Digli che il supplente non ha firmato il registro e se mi fa la cortesia di portarmelo, posso firmare ora, così non vi lascio soli. - Sì, vado subito! - gli ho risposto felice. Sono andato spedito come un fulmine. LUI MI HA VISTO! LUI MI HA VISTO! Penso, ma poi mi è presa la paura di Dragongomma. E se, quando torno, mi cancella di nuovo? Ho paura. Ritornato, mi fermo un po’ dietro la porta semiaperta. Fermo, che mi tremano le gambe ad entrare dentro. Il nuovo maestro sta dicendo - Aspettiamo che torni Corrado e poi vi spiego cosa faremo in questi giorni che staremo insieme. Cosa? Mi vuole aspettare? Ho guardato bene prima di entrare e non ho visto Dragongomma. Così, entro e il maestro alto alto con la barba gentile mi ha sorriso - Grazie, Corrado, puoi sederti. E a proposito sposta il banco accanto agli altri. Gianni, allora si è alzato e ha detto - Maestro, si può mettere vicino a me? - Certo, perché no? - gli ha risposto lui, alto alto, con la barba gentile e con la giacca rosa. Sono confuso. Ho spostato il mio banco... forse mi vedevano di nuovo. Gianni mi sorride e mi dice in silenzio che è contento di avermi di nuovo accanto a lui. Andrea che sta vicino a Gianni, dalla parte della porta, mi ha dato una pacca sulla spalla, guardandomi negli occhi. Elisa che sta seduta dietro di noi, mi ha fatto il cuore con le dita. È che a me lei è sempre piaciuta sin dalla prima. Mi sento più coraggioso ora! Apro il borsellino e… Dragongomma è… È sparito! Sono tornatoooooooooo. Ben trovato, mondo!

Quanti bambini si perdono nell’invisibilità di occhi poco attenti, di occhi indaffarati a cercare la conclusione di una strada, quella in cui c’è scritto: finito il programma! Ma quale programma? Eppure, anche nella Scuola Primaria, dove si lavora con tante esigenze formative diverse, si insegue l’arrivo ad una identica meta. Sentirete sempre un gran numero d’insegnanti che dicono di essere indietro, di non farcela a finire, di avere una mole di programma ancora da svolgere. Ma chi arriva alla meta? Tutti o qualcuno? E chi arranca? Resta indietro e forse alla meta non arriverà mai? Intanto mi ritorna in mente il COME di cui parlavo prima, oggi, più che mai ci serve molto di più il come s’insegna rispetto al COSA s’insegna. E andare a rilento rispetto a un come significa, appunto, non lasciare nessuno lontano dalla possibilità di apprendere, mentre andare a rilento rispetto a un cosa significa, obtorto collo, non perdere tempo a seguire tutti. Tutto si gioca tra un come e un cosa e nel mezzo ci sono un mare di opportunità per essere migliori, migliorabili, più felici sicuramente! Intanto, ritornano le parole e il loro specifico significato e il loro preciso scopo. Sono loro che ci determinano. Sostanziano le nostre azioni, ci differenziano, ci rendono capaci di rimodularci, ci portano verso la ricerca di riflessione, verso la conquista del valore aggiunto, verso la possibilità di comprensione, di chiarezza, di scoperta. Prima di lasciare la Terra dei Vocabolari, voglio fare un ultimo giro nei pressi di un altro termine che mi è particolarmente caro e che verso Consapevolezza mi sembra giusto andare a rileggere: Talento. talènto1 s. m. [dal lat.talentum, e questo dal gr. τάλαντον]. - Nella Grecia antica, unità di misura di massa e peso […], 2 Ingegno, predisposizione, capacità e doti intellettuali rilevanti, spec. in quanto naturali e intese a particolari attività: avere molto, poco t.;essere dotato di grande t. […] La predisposizione è fondamentale e si va a posizionare proprio in mezzo a come e cosa, migliorando il primo e mortificando il secondo. Tutto si può imparare, ma bisogna fare i conti con la predisposizione e un mucchio di altre cose che non posso analizzare ora, perché il capostazione sta fischiando, si riparte. Risalgo sul treno con mille parole che gironzolano libere alla ricerca di definizioni. Possibilmente un po’ sparigliate come le increspature del mare quando s’infrange sugli scogli, ma non ne aveva ancora voglia. Guardo dal finestrino: i prati, le case, gli alberi corrono con me e trovo che l’albero insegni all’erba che per arrivare al cielo non sempre servono fusto e rami; che le case si sostengano a vicenda senza starsi addosso, e tutto appare uguale ma diverso allo stesso tempo, e il peso delle cose difficili appartiene a tutti, come il fiume ora in piena e subito dopo in secca.

Sono nel posto giusto per cercare libri, sull’argomento che sto cercando di approfondire. Così, vado a cercare la mia amica Alma, la libraia. Eccola è lì, ve la presento…

Alma, la libraia, né bella né brutta né giovane né vecchia né alta né bassa né magra né grassa né bionda né bruna magari un po’ bionda e un po’ bruna, a volte castana, forse rossa, ma di sicuro mai fuxia, era una donna normale. Media, direi, banale. Forse uguale. Beh, almeno simile... molto simile a tante altre persone. Ovviamente, se la guardavi di giorno, perché già di pomeriggio fiabe sulle guance. Un vento d’avventura tra le ciglia. Un filo bianco di paura tra i capelli. Polvere di leggenda sulle palpebre. Imperlate di filastrocche alle orecchie. Un indaco poetico sulle labbra. Profumo di favole sotto i tacchi degli stivali. Appariva più saggia e molto, molto più misteriosa. I suoi abiti diventavano più romantici e si riempivano di tante, tantissime tasche. Tasche storiche, geografiche, scientifiche, musicali. Fiorite, profumate, scucite o abbottonate, con merletti o a quadretti. Alcune erano a righe o di carta. Altre di stoffa. Alcune di bosco. Di pianeti e di stelle. Le più grandi erano case per i sogni: quelli già sognati, ancora da sognare o in attesa di un sognatore. Tasche colme e tasche ancora da riempire. Per ogni cosa esistente al mondo, ma anche per ogni cosa che al mondo non esisteva ancora. Chi l’aveva, così, trasformata? Il vento? Il sole? La magia? La verità sul suo aspetto cangiante era semplice e affascinante: dipendeva dai libri. Tutti i libri da lei letti e riletti e fatti leggere. I libri amati, ma anche studiati e venduti. Quelli descritti e quelli cercati. Anche quelli spolverati, sistemati o riordinati. Tutti i libri della sua libreria, tutti i libri che riempivano la sua mente e il suo cuore. Quando tornava a casa, Alma, la libraia, si trasformava ancora: piano piano svuotava quelle strane magiche tasche sulla sua piccola scrivania di vecchio ciliegio; prendeva una scatola di penne di tutti i colori e una pila altissima di fogli di carta di ogni forma; si sedeva sulla sua vecchia sedia di quercia millenaria e... diventava una scrittrice. E scriveva scriveva tante, tantissime storie. Nate dai libri e pronte a diventare altri libri. Altri libri per altri lettori, altre librerie e altri librai. Storie un po’ vere, ma anche fantastiche, realistiche, verosimili o sognate. Piccole o infinite. Tristi o tristissime, con una lacrima o cento. Oppure divertenti, molto divertenti, divertentissime con mille risate e un maldipancia. Storie di persone, di popoli, ma anche di personaggi, di animali e di oggetti e paesaggi. Di luoghi, di sentimenti o emozioni, di sensi e pure sensazioni. Di cieli e di mare, di acqua e di fuoco, terra e vento e neve, ma anche senza neanche un po’ di bianco. Storie di colori, quelli che tutti vedono e quelli dei gatti e dei cani, ma anche quelli delle formiche e tutti quelli non ancora inventati. Storie già adulte o ancora da cullare. Storie con tutti i denti o neanche uno, con tutti i capelli o con gli occhiali. Storie per bambini, bambine, mamme e papà e pure per nonni e persino per dottori, per i signori che non fanno nulla e per tutti quelli che sanno pescare. Storie senza confini, ma anche brevi che stanno in una tazza da caffè o così corte che assomigliano a briciole di pane. Dolci come le fate e verdi e fresche di zucchine e fiori d’arancio. Storie da ogni stagione e ogni borsetta. Rotonde da pallone o a rombo aquilone, ma anche quelle da rettangolo per ogni porta e ogni angolo. Storie senza date e con tanti numeri, con tante lettere oppure una soltanto, con tanti nomi e verbi e avverbi, ma anche tanti aggettivi e molti moltissimi punti interrogativi. E con quelle storie riempiva fogli di fogli su fogli fino all’alba, senza stancarsi, senza avere né sonno né fame. Fino all’ultima storia, l’ultima parola, l’ultima lettera, l’ultimo punto, finché, quando il sole entrava nella stanza, e lei non tornava ad essere … né bella né brutta né giovane né vecchia né alta né bassa né magra né grassa né bionda né bruna, forse un po’ bionda, o un po’ bruna, a volte castana, ma anche rossa, ma certamente mai fuxia. Una donna normale. Media, direi. Banale. Forse uguale. Beh, almeno simile... molto simile a tante altre persone. Ovviamente se la guardavi di giorno, perché già di pomeriggio cambiava e verso le otto di sera era proprio un’altra. Diversa, anzi diversissima

 E, infine, ecco una perla meravigliosa:

Ogni racconto parla di un bambino o una somma di bambini. Il mio diario è un annotare nell’annotare. Un racconto nei racconti, che all’improvviso vengono a sedersi tra i miei pensieri e non se ne vanno finché non li scrivo. Il mio diario è un bambino che ha i vestiti di tanti bambini. È un volto che fa la somma di tanti volti. Ci sono tutti. In un modo o nell’altro i miei alunni sono in queste pagine e mi ricordo di ognuno. Sono vissuti vivi che mi hanno dato tanto e li porto con me nei racconti come nelle poesie come questa dedicata alla mia dolcissima alunna che ogni giorno mi chiedeva di diventare la sua mamma, lei che di mamme ne aveva troppe.

 Arianna tante mamme

Arianna tante mamme

ha una mamma vestito stretto stretto

e una mamma vestito largo largo

e neanche una mamma

da indossare.

Arianna tante mamme

ha una mamma grande grande

che ai suoi occhi

di rovo e bosco

non sa arrivare.

Arianna tante mamme

ha una mamma piccola piccola

che le sue mani

vuoto carezze

non sa cercare.

Arianna tante mamme

ha una mamma inverno

parole di ghiaccio

silenzio assordante

neve che cade.

Arianna tante mamme

ha una mamma primavera

parole di vento

ronzio incessante

pioggia che cade.

Arianna tante mamme

ha tante sorelle

e neanche un fratello

gioco bambino

canto di more.

Arianna tante mamme

ha tante mamme

e neanche un papà

regola fiaba

voce sicura.

Arianna tante mamme

ha una frangetta corta corta

forbici e squadre nette nette

capelli troppo lunghi

per pensieri troppo brevi.

Arianna tante mamme

ha tanti sogni e non sa sognare

canta e balla

sotto l’albero Fato

cuore di legno orecchio annodato.

Arianna tante mamme

è goccia di cielo

strappata dalla nuvola caso

carta stropicciata

bimba sospesa corsa senza fiato.

Arianna tante mamme

ha tante mamme

e un sogno bambino

che dice piano

quando cresco e

divento grande

sarò una sola madre

per il mio piccino

da chiamare piano

senza parole

che saprà a memoria

solo il mio nome.

Non ho voluto, con i miei interventi, interrompere il flusso magico dei racconti di Raffaella. Solo qualche esempio tra i tanti che arricchiscono di sapidità e di motivi di riflessione questo libro, ma ho sentito forte l’impulso di farlo per accendere di luce questo giorno autunnale, che mi mette malinconia perché lo sento presagio di inverno, la stagione che meno amo per via del freddo, del buio che aggredisce i giorni, degli alberi spogli che spogliano anche i sorrisi, delle notti lunghe che allungano anche la mia insonnia e il conto dei miei lunghi anni. Ma… non mi dilungo. Mi fermo qui. Sottolineando il punto fermo con un abbraccio. Ma non finisce qui, lo sappiamo. Autunno o non autunno, è bello ogni volta scoprirci insieme. E tanto basta! Alla prossima. Angela/lina

 

 

 

venerdì 13 settembre 2024

Venerdì 13 settembre 2024: settembre senza più mare e un ritorno che sa di scuola...

Ed eccomi qui, non più a fine agosto, ma con i primi temporali di settembre, simili a quelli estivi, brevi ma intensi, con subito un raggio di sole a regalarci l’arcobaleno e un sorriso del cielo, dopo la scomparsa della luna blu che ha riempito i nostri occhi di meraviglia e di sogno. Stamattina un cielo di panna ha salutato alcuni uccelli in volo. Subito ho scritto su Note del mio cellulare per non perderne l’incanto: Settembre/ ombre lunghe s’affacciano/ sul tempo del ritorno/ in una fuga di rondini verso il sole/ e malinconico ricordo di mare./ La promessa azzardata di un ultimo saluto/ si è infranta sulle ali di un gabbiano perso/ chissà dove/ nelle lantane aggrovigliate dei pensieri/ sulla strada della monotonia di giorni/ in debito con l’estate dal sapore d’autunno/ con piogge e temporali e foglie di lacrime e sangue/al trionfo di grappoli tra le mani./ E un richiamo allarmato di ore di scuola/ mute delle voci dei bambini in attesa/ dell’allegria della campanella/del compagno da ritrovare/ del mare al tramonto da raccontare/ come fosse uva rossa a riflettersi nel lago o tra i monti/ e negli occhi che sanno l’arrivederci/ e il suo sorriso/ (ci sono fondali di corallo a ricordare il sogno/  e tramonti brevi a salutare la sera/   imminente nella fragilità del giorno).

I ricordi di scuola si affacciano prepotenti nella mente: scolara difficile e senza parole… ragazzina consapevole di amare la scrittura e di detestare la scuola, con i suoi voti, le sue regole, i suoi richiami inutili e demotivanti… insegnante, mio malgrado, in una scuola che mi voleva tuttologa e da cui fuggire appena possibile… docente di scuola per preadolescenti in cerca di una identità provvisoria prima di scoprire, tra crisi e turbamenti, il primo amore e fughe da modelli poco amati di insegnanti restii al cambiamento… io alla ricerca di una dimensione di ascolto dei giovanissimi allievi in cerca di essere compresi e guidati con dolcezza e coraggio per affermarsi nella libertà di scegliere il proprio percorso di conoscenza e di socializzazione, per scoprire intese affettive ed emotive, per riconoscersi, realizzarsi, tra facili errori e dubbi, tra faticose conquiste e poche certezze di sé e del sé. E classi difficili da affrontare quotidianamente e singoli alunni da ascoltare singolarmente per aiutarli nella crescita e maturazione in tutte le direzioni della vita.

Ho, ancora oggi tantissime perplessità sulla mia attività di insegnante, e conservo ancora oggi la consapevolezza di non aver mai amato la scuola, ma di aver amato tutti i miei alunni, uno per uno, singolarmente, dialogando col ciascuno, per aiutarli ad affrontare il mondo e la vita con i propri mezzi, le proprie inclinazioni, le proprie passioni. Ancora di più questo è stato possibile come preparatrice, per oltre un trentennio, dei candidati ai vari Concorsi per entrare di ruolo nella scuola di ogni ordine e grado e… persino per dirigenti scolastici. Un controsenso? Sì, certamente, nella consapevolezza, però, di comunicare le mie conoscenze pedagogiche, metodologico-didattiche e matetiche con continui approfondimenti per trasmettere, con tutta la passione possibile, la necessità e la gioia di svecchiare l’istituzione scolastica e renderla sorridente, accogliente e concretamente inclusiva, realizzando con i miei allievi un rapporto affettivo molto forte ed empatico al di là di quello professionale che non va oltre il periodo della stessa preparazione. Rapporto che dura ancora oggi. E di cui vado fiera, come mi avessero appuntato sul petto una medaglia al valore.   

Non ho mai voluto prendere, però, una specializzazione come insegnante di sostegno perché convinta di non essere in grado di affrontare situazioni di disagio di alunni con particolari problemi di apprendimento, comportamentale e, quindi, anche di socializzazione. In realtà, spesso mi sono trovata a gestire, mio malgrado, casi molto difficili in collaborazione con le insegnanti di sostegno presenti nella mia classe. Ma è acqua passata. Oggi è mia figlia Raffaella “Una Maestra ma non Troppo”, come si è autodefinita, essendo insegnante di sostegno in una scuola primaria del nostro paese (Corato-Bari), in un suo recentissimo libro, con questo titolo straordinario, suggeritole, senza saperlo, da due suoi alunni molto curiosi, attenti, e dall’intelligenza acuta e sorridente. E, come mamma-ex docente, mi piace parlarne.

È un libro particolarissimo oltre che simpaticissimo, che già dalla grafica di copertina ci invita a sorridere del precario equilibrio che comporta essere, appunto, “una maestra ma non troppo”, sempre alle prese con mille difficoltà dentro e fuori la stessa istituzione scolastica che, dopo oltre cinquant’anni dalla Legge n. 118/1971 e la successiva Legge 517 del 1977 fino alla Legge 104 del 1992, non ha risolto, in tutte le loro sfaccettature, i molteplici problemi che l’inclusività ancora oggi comporta. 

Lo fa Raffaella Leone già con una dedica tutta particolare: Ai miei alunni/    senso vero/ del mio essere maestra/ senza farlo… A tutte le insegnanti e gli insegnanti/ che ogni giorno sono e fanno la differenza… A chi desidera diventare insegnante/   con convinzione e entusiasmo

Poi, ecco una sorta di Prefazione:

Nella mia vita sono andata a scuola due

volte: la prima da alunna, la seconda non è

ancora finita.

Da alunna ho imparato che per imparare

avevo bisogno di capire i meccanismi interni

ad ogni fonte di conoscenza. Le cose stanno

tutte una dentro l’altra, anche le più lontane

tra loro e tutte si possono comprendere.

Da maestra ho imparato che per insegnare

ho bisogno di capire i meccanismi interni

ad ogni stile di apprendimento di ciascun

bambino e tutti, ma proprio tutti, i bambini

si possono comprendere

Con una logica stringente Raffaella comincia il suo racconto, partendo dalla sua esperienza di scolara che scoprì che “per imparare” aveva “bisogno di capire i meccanismi interni ad ogni fonte di conoscenza”. Con la loro consequenzialità, che ne favorisce la comprensione. E dalla sua esperienza, ancora in atto, di maestra che ha scoperto da sola che “per insegnare” aveva “bisogno di “capire i meccanismi interni ad ogni stile di apprendimento di ciascun bambino…”, sapendo che non si può mai scindere la “didattica” (scienza e arte dell’insegnamento) dalla matetica (scienza e arte dell’apprendimento) per poter poi applicare la “metodologia” (ossia l’arte di scegliere i metodi più opportuni in riferimento alle aree di forza e di debolezza di ciascun alunno, comprese le individuali inclinazioni, per scegliere insieme il percorso o i percorsi per giungere alla conoscenza “motivata e desiderata” a sempre più vasto raggio. Percorsi personalizzati, di gruppo, collettivi. Per imparare insieme, maestri e alunni, in una pluralità sempre più inclusiva di presenze e di voci interne ed esterne alla scuola. Seneca ha scritto: C'è un vantaggio reciproco (nell'insegnare), perché gli uomini, mentre insegnano, imparano. (L. A. Seneca, Lettere a Lucilio)

Poi, ecco un modo originalissimo per definire i capitoli che, oltre alla dicitura iniziale, si snodano attraverso i racconti di vita scolastica o di classe, vissuta con gli alunni o con i colleghi in un ipotetico viaggio che li porta a cercare di raggiungere il Paese di CONSAPEVOLEZZA.

I suoi improvvisati mentori (ma non troppo) Gabriele e Federico, compagni di banco, curiosi, attenti, intelligenti, l’hanno dapprima messa in crisi con le loro osservazioni pertinenti e impertinenti sul suo essere, in qualità di insegnante di sostegno, “maestra ma non troppo” e poi, le hanno regalato su di un “vassoio d’argento” il titolo del libro che ho tra le mani. E scopro anche che Gabriele e Federico sono quelli che le hanno comprato e donato due biglietti e sono diventati i suoi compagni di viaggio, insieme a tutti gli alunni, tutti proprio tutti: quelli di oggi e di ieri, ciascuno con una storia raccontata (da raccontare). E ogni capitolo ci regala una sorpresa, un imprevisto, un bisogno o un sogno, che gli occhi visionari (ma non troppo) di Raffaella (sa essere anche razionale, quando occorre) vedono e prevedono, “nel fatale andare”. Ma anche tanti dubbi, tante incertezze, tante amarezze. Tante voci registrate, come un colpo al cuore: essere insegnante di sostegno cosa significa idealmente e cosa comporta realmente? L’ascolto non sempre è facile tra tante voci discordanti che perlopiù ignorano il vero senso e significato di essere, appunto, INSEGNANTE DI SOSTEGNO: come, dove, quando, perché. Anni di studio, esami, confronti continui con varie Commissioni, punteggi, immissione in ruolo… E poi? Quelle voce e l’amarezza che ne consegue. Bisogna fare i conti solo con l’ignoranza di alcuni o dei più? Bisogna imparare a gestire anche tutto questo e il viaggio è ancora lungo. Disperde e aiuta. I ricordi anche. Ma la gratitudine è sempre presente nell’Autrice che, soprattutto in passato ha avuto dei bravi Maestri in famiglia (vedi Zia ANNA MARIA), e nella scuola (ANNA PESCE, nella Scuola dell’Infanzia, e RAFFAELLA PAGONE, nella Scuola Elementare), fino all’indimenticato LIVIO SOSSI, “dall’inconfondibile voce, immenso esperto di Letteratura per l’Infanzia e dell’Illustrazione”. E, insieme alla gratitudine, ecco i racconti salvifici che ricordano le amate figure, e le relative voci, della famiglia: “Nonna Arina”, tra le tante.

E, infine, una maestra, e in particolar modo la maestra di sostegno, deve avere, per saper guardare lontano e anticipare il futuro: “uno sguardo lungo”, “uno sguardo atipico”, uno sguardo asimmetrico”… perché? A questo punto sono io a fermarmi, altrimenti il lettore cosa altro dovrà scoprire? Ci sono persino tanti errori lasciati con nonchalance qua e là… perché? A voi le tante ipotesi di soluzione. A me Non resta che augurarvi Buona e Proficua Lettura! E… alla prossima. Angela/lina.