martedì 29 aprile 2025

Martedì 29 aprile 2025: PAPA FRANCESCO e le mie e altrui PAROLE scritte per LUI... (seconda parte)

E oggi è martedì. Tre giorni fa si sono tenuti i funerali di Papa Francesco con tantissime Delegazioni di Regnanti, Capi di Stato, Sacerdoti di tutte le Religioni e Fedi, venuti da tutti i Paesi del Mondo, dai più lontani ai più vicini. Tanta emozione. Tanta commozione. Tante preghiere per Lui, depositato in una bara semplicissima, con le sue scarpe nere consumate nel “Suo fatale andare” in tantissimi pericolosi e sfiancanti viaggi in tutto il nostro Pianeta. E, se avesse potuto, avrebbe raggiunto Marte, la Luna, e tutte le galassie del nostro Firmamento a portare il suo Urlo, appena sussurrato con flebile e tonante voce, per farsi Viandante di Pace e di Speranza, Portatore di sogni ovunque vi fossero giovani e ragazzi ad attenderLo. Come più e più volte è accaduto a Roma, al Circo Massimo, ma anche in Macedonia e in Lussemburgo, dove, incontrando centinaia di migliaia di giovani, li ha sempre esortati a non “perdere la capacità di sognare”, a diventare “bravi scalpellini” dei loro sogni per “costruire insieme un mondo migliore, mantenendo viva la Speranza, la Gioia, e l’Amore per gli ultimi della terra, i più poveri, i più fragili, i più bisognosi, in nome della Pace”. Contro ogni guerra, “sconfitta dell’uomo e della sua umanità”… “La guerra è una sconfitta, un inganno, un sacrilegio e un controsenso della creazione. In sostanza, la guerra rappresenta una distruzione della fraternità umana e un fallimento della politica”… “La guerra è un inganno, la pace si raggiunge riconoscendosi nella comune umanità. La guerra è un inganno, la guerra è sempre una sconfitta, così come l’idea di una sicurezza internazionale basata sul riarmo come deterrente della paura”. Sono le frasi di papa Francesco ha più volte ribadito con chiarezza e senza fare sconti a nessuno, né all’interno della Chiesa, né all’esterno, rivolgendosi al mondo intero, con fermezza e con coraggio, conoscendo bene i suoi nemici e denigratori.

Per Lui, per i giovani da Lui tanto amati, per i più umili e fragili della Terra, tanto cari al Suo Cuore indomito, ho scritto una poesia, intitolata “Una Pasqua di Resurrezione”: Canto di campane nell’alba che sorge/ e ri-sorge nel silenzio commosso/ di cuori all’unisono con il sogno di Pace/ tra dita di preghiere e sorrisi di sole/ su volti amati e voci mai perdute./ Un rimpianto di assenze presenti/ ci batte dentro come squarcio di tuono/ come a tavola il posto vuoto il piatto/ il bicchiere, il pane e il vino./ La lettera mai spedita in assenza/ di tempo a segnare oggi il tempo mai arreso/ alla perdita della Speranza./ E il nostro abbraccio mai disperso/ nel segno dell’Amore/ che non dispera e sempre attende/ un ritorno, come dopo una notte/ di pioggia attende il sole che rimanga/ a sera a confondersi con le stelle./ A inondarci di luci che accendono/ il buio per scongiurare notti di ricordi/ all’assalto dei pensieri sul cuscino./ Esultanza di bambini/ e giovani ragazzi disarmati/ con catene di libertà/ a inneggiare ai sogni di Francesco/ per le strade sterrate dei loro desideri./ E di mia madre il sorriso ai balconi/ dei suoi giorni ad afferrarli per spargerli/ nei prati fioriti dei domani tutti da vivere/ con braccia tese e mani intrecciate./ Per i dimenticati su barconi di morte alla deriva/ di ogni sentimento di pietà./ Per i vinti mai vinti nel deserto di ogni dolore e perdizione./  Lasciati morire di stenti nonostante la Speranza di rimanere vivi./ Per quanti Francesco ha amato,/ portandoli sotto la sua Tenda di forza e di coraggio./ (I miei di casa a cantare Alleluia/   voci antiche e nuove   / di eterna umanità sorridono ai percorsi/   vissuti da vivere   /   perduti e ritrovati   /  come fili d’erba sbucati dal cemento).

Ma, alla mia voce, ecco l’eco di tante altre voci molto più autorevoli della mia: … L’ultima omelia di papa Francesco è stata l’omelia scritta per il giorno di Pasqua. A motivo della sua voce affaticata il papa non l’ha potuta leggere, ma ne ha affidato la lettura al cardinal Comastri. Un’omelia densa e breve, che si apre significativamente con il nome di Maria di Magdala e si chiude con una citazione della teologa e poeta Adriana Zarri. Maria, dopo aver visto la pietra scostata dal sepolcro, corre a dirlo a Pietro e Giovanni; e Pietro e Giovanni, a loro volta, subito si mettono a correre verso il luogo della sepoltura di Gesù. Quella corsa è, per papa Francesco, molto di più di un semplice dato narrativo: “La corsa della Maddalena, di Pietro e di Giovanni dice il desiderio, la spinta del cuore, l’atteggiamento interiore di chi si mette alla ricerca di Gesù. Egli, infatti, è risorto dalla morte e perciò non si trova più nel sepolcro. Bisogna cercarlo altrove”. Francesco ci consegna questo invito pressante, perentorio e questa responsabilità: bisogna cercarlo altrove, il Signore della Vita. Non dei sepolcri, nei musei del tempo che fu, nelle storie imbalsamate, ma nella vita, nei volti e nelle storie vive dei fratelli e delle sorelle che camminano con noi lungo le strade di questo mondo. dobbiamo cercarlo altrove, e cercarlo sempre: “Cercarlo sempre. Perché, se è risorto dalla morte, allora Egli è presente ovunque, dimora in mezzo a noi, si nasconde e si rivela anche oggi nelle sorelle e nei fratelli che incontriamo lungo il cammino, nelle situazioni più anonime e imprevedibili della nostra vita. Egli è vivo e rimane sempre con noi, piangendo le lacrime di chi soffre e moltiplicando la bellezza della vita nei piccoli gesti d’amore di ciascuno di noi”… “Come Maria di Magdala, ogni giorno possiamo fare l’esperienza di perdere il Signore, ma ogni giorno noi possiamo correre per cercarlo ancora, con la certezza he Egli si fa trovare e ci illumina con la luce della sua risurrezione”… “Non possiamo parcheggiare il cuore nelle illusioni di questo mondo o rinchiuderlo nella tristezza; dobbiamo correre, pieni di gioia. Corriamo incontro a Gesù, riscopriamo la grazia inestimabile di essere suoi amici. Lasciamo che la sua Parola di vita e di verità illumini il nostro cammino”. (…) L’omelia si chiude con una preghiera di Adriana Zarri: “Scrostaci, o Dio, la triste polvere dell’abitudine, della stanchezza e del disincanto; dacci la gioia di svegliarci, ogni mattino, con occhi stupiti per vedere gli inediti colori di quel mattino, unico e diverso da ogni altro”. Gli occhi di papa Francesco, questa mattina, hanno accolto con stupore e gratitudine un mattino davvero nuovo. (fonte Anita Prati - SettimanaNews)   

Le messe sono ritrovo di anziani, i seminari chiudono, catechismo è diventata una parola antica. Eppure si percepisce, in Italia, un sentimento sincero. Affetto, dispiacere, rimpianto. Anche da parte di chi, Francesco, l’ha criticato; o non l’ha mai ascoltato con attenzione. Una ipocrisia collettiva? No. Un lutto popolare, invece. Il lutto popolare è religioso, a modo suo. Nella devozione italiana s’intrecciano tradizioni, rispetto, timori, ricordi: ecco perché va presa sul serio. <A ogni morte di papa> è un modo di dire diffuso: indica un avvenimento memorabile, qualcosa che lascia il segno nelle nostre vite. Anzi, una traccia. Perché i segni, col tempo, sbiadiscono e si cancellano. Le tracce si possono seguire. Quella di Francesco è stata luminosa. Non perfetta: un Papa resta un uomo, con i suoi umori e i suoi abbagli. Ma non c’è dubbio che Jorge Mario Bergoglio abbia segnato questi anni complicati. È stato detto molto, talvolta a sproposito, sul personaggio. Ma alcune riflessioni sono giuste e condivisibili. A cominciare dal titolo di questo giornale: Il Papa degli ultimi. Questo è stato, Francesco. E chi sostiene che amare il prossimo sia incompatibile con l’adorare Dio non ha letto il Vangelo. (Beppe Severgnini, l’articolo prosegue sul sito del Corriere).

Guardatelo. Spogliato di ogni orpello, un uomo in abiti civili che varca la soglia di San Pietro. Un’immagine che grida la sua solitudine, la sua vulnerabilità, ma anche la sua titanica grandezza. In un’era di cinismo e opportunismo, dove la fede è merce rara, lui rimane un colosso. Un atto di ribellione silenziosa contro un mondo che ha tradito i suoi ideali. Ha predicato la povertà, ma ha visto l’opulenza. Ha parlato di accoglienza, mentre le frontiere si chiudevano. Ha invocato la pace, mentre il mondo bruciava. E, nonostante tutto, è rimasto in piedi. Perché quest’uomo è stato un gigante. Un faro di luce in un’epoca di tenebre. Le sue parole, a volte vuote promesse, hanno comunque scosso le coscienze, hanno risvegliato speranze sopite. Questa immagine, cruda e desolante, è il simbolo di un’epoca. Un’epoca segnata dalla sua presenza, dalla sua grandezza, ineguagliabile. Un uomo che, nonostante tutto, ha osato sfidare l’oscurità, un uomo che resterà unico, irripetibile, incomparabile… In questa immagine, un pugno nello stomaco, la consapevolezza che mai più i nostri occhi vedranno un Papa di tale grandezza e umiltà, un’eco di un’era irripetibile. (Gt)   

Condivido ogni parola fin qui riportata, non è possibile non farlo. Quest’ultimo testo, per esempio, si riferisce all’immagine di Papa Francesco, entrato in San Pietro, vestito con una specie di pigiama a difendere/ evidenziare la sua fragilità, il suo dolore fisico, la sua solitudine in “terra di lupi”. Come non rimpiangerlo nella sua grandezza e umiltà? E, per oggi, desidero concludere con i versi di un grande poeta del Sud, Mauro Contini, aventi per titolo “ANIME IN TRANSITO”: Chi pronuncerà le esatte parole/ e attraverserà la densità del silenzio/ chi sbroglierà la controversia/ una volta non per sempre/ gesti d’amore eludono/ il filo spinato i muri a secco/ l’insidia di un male ottuso/ nel pensiero e nel sentimento del mondo/ la pietà dovuta a quanto la violenza/ ha reso inerme e disadorno/ il canto che gridava un’accoglienza/ e sembrava a noi diretto/ aprile cielo terso di primavera/ luce più forte delle possibilità degli sguardi/ bagliori di sole alle finestre/ dietro le tende che seguono il vento/ care al cuore le anime in transito.

Continuerò nei prossimi giorni a postare altre voci famose che hanno parlato e stanno parlando di Papa Francesco, una eco che continuerà a chiamarci persino dal Cielo. Angela/lina

 

giovedì 24 aprile 2025

Giovedì 24 aprile 2025: SPERANZA e CORAGGIO: due parole care a PAPA FRANCESCO... (prima parte)

Ultimamente mi sono imbattuta in due parole, che ritengo meravigliose per tanti motivi, non sempre scontati e non sempre da tutti accettati. Ma io corro il rischio di parlarne perché sono fermamente convinta che possano lenire in qualche modo le nostre pene, le nostre inevitabili fragilità. E anche per un altro motivo, che mi sta molto a cuore. Sono due parole suggeritemi da Papa Francesco, perché le ha messe in evidenza dal suo letto di dolore, in questi ultimi giorni non facili per Lui: SPERANZA e CORAGGIO.

SPERANZA e CORAGGIO: due parole il cui etimo risale al latino. Bellissime. Soprattutto nei tempi bui e tristi che stiamo vivendo a livello planetario. Fondamentale è, per me, oggi, armarsi di Speranza, “ultima Dea” del nostro percorso di vita sulla terra. Dal latino “spes”, come già detto, ma anche dalla radice sanscrita “spa”, che a me piace di più perché significa “tendere verso una meta”, in quanto prefigura un “movimento verso”, ossia un viaggio con destinazione... non sempre scontata nelle modalità, difficile da ipotizzare, da accettare!

Nell’arco dei secoli, comunque, essa ha avuto un significato molto controverso: i greci la ritenevano una illusione; i latini la negavano; i cristiani la misero a fondamento delle tre virtù teologali. Per molti filosofi e scienziati essa è un momento di “debolezza” e di “squilibrio”. Per Biagio Pascal “non si vive, ma si spera di vivere”, dunque la speranza è indispensabile alla vita. Anche per me è una forza propulsiva decisamente positiva, come lo è stata per Papa Francesco che ha continuato a ripetercelo fino all’ultimo. Ma già qualche anno fa aveva pubblicato Ti racconto la speranza (San Paolo Edizioni, Roma 2021). E, ultimamente, il bellissimo Libro SPERA - L’Autobiografia - (scritto con Carlo Musso, Mondadori, Milano 2025).

Anche Coraggio = da cor-cordis, deriva da cuore, cioè dalla sua forza appassionata, che si fa audacia e determinazione e che risiede più nel palpitare di questo muscolo involontario vitale che non nel fegato che oggi si può anche sostituire. Per parlare di coraggio, però, occorre parlare di paura che non ha un’accezione negativa perché è proprio la paura che sollecita nell’essere umano, ma anche negli animali, una reazione di salvezza che si permea di coraggio. Ma a me piace abbinare il coraggio anche a cordata (non a caso hanno lo stesso etimo) perché è “l’unione” che fa la forza. Fare cordata in una impresa significa moltiplicare il coraggio del singolo e rendere più fattibile la realizzazione di quanto si ha in cuore di raggiungere. E quale impresa più grande della solidarietà tra gli uomini? Come ci ha insegnato, appunto, Papa Francesco?

L’estate scorsa sono stata per una settimana al mare in un luogo incantevole, in cui c’era una cura particolare per i disabili, facilitata da un’organizzazione speciale tra gli albergatori: tutti si davano una mano per rendere il soggiorno a tutti i clienti dei vari alberghi il più confortevole possibile. Bellissima cordata di angeli a far mettere le ali anche a noi che vivevamo in carrozzella. Siamo, dunque, tutti destinatari di questo tenero messaggio: aiutiamoci gli uni con gli altri per non perdere mai la le verdi vie della Speranza e del Coraggio! Ma i veri destinatari della Speranza e del Coraggio sono i giovani e giovanissimi, che oggi più che mai ne hanno bisogno. È questione anche di educazione a cercare sempre motivi di rinascita. Educare, del resto, è un bellissimo verbo che ha un duplice significato: da ex-ducere = tirare fuori, far venire alla luce, cioè tener conto e rispettare la personalità dell’educando, aiutandolo a realizzarsi con le doti innate che possiede; e da edo, ossia mangiare, prendersi cura dell’allievo nel tempo. Pare che la domanda più premurosa da rivolgere a chi ci sta a cuore sia: “hai mangiato?” perché, come sostiene Elsa Morante, “La frase d’amore più vera, l’unica è: “Hai mangiato?”. E, infatti, Oscar Farinetti, rifacendosi alla Morante dice “non è solo una domanda, ma un atto d’amore”.

Nessun educatore (genitori, insegnanti, adulti) può prescindere dal formare i giovani e giovanissimi a queste due grandi virtù. Oggi la scienza pedagogica, con le sue “scelte alternative”, ci viene incontro per riprendere a sperare di formare gli uomini di domani: onesti, solidali e liberi. Ma, per quel che mi riguarda, anche la Poesia può rappresentare una valida alternativa alla desertificazione del cuore dei nostri giorni. I ragazzi e i giovani sono essi stessi Poesia, perché sono portatori di sogni e i sogni sono desideri e i desideri sono le stelle in cui ruota il loro firmamento. Anche de-sidera può avere due accezioni: o “intorno alle stelle” oppure “mancanza di stelle” (con il “de” deprivativo). Quante speranze e quanto coraggio nei giovani che non si arrendono! Fu bellissimo il monito di Giovanni Paolo II a loro dedicato: “Prendete in mano la vostra vita e fatene un capolavoro”.

Sta a noi anziani e adulti, soprattutto amanti di Poesia, scoprire i loro talenti e prendercene cura perché i ragazzi siano i protagonisti “creativi” del prossimo futuro! Futuro che quanti hanno la mia età vedranno con i loro occhi, attenti e incantati.

E, intanto, non posso fare a meno di ricordare il sogno che ho fatto all’alba tre giorni fa: Papa Francesco in persona bussava alla mia porta. Quando aprivo, sorprendendomi enormemente perché lo sapevo ricoverato con prognosi riservata al Gemelli, mentre era venuto a piedi fino alla mia casa, balbettavo frasi di sorpresa, preoccupazione per la Sua salute, di ammirazione per la Sua audacia e il Suo coraggio. Lui mi rispondeva che in effetti non aveva tenuto conto che era appena l’alba e che faceva ancora freddo, nonostante fosse già   primavera inoltrata. Mi chiedeva di entrare, dicendomi che aveva sentito il mio richiamo e la mia preghiera-non preghiera-ma preghiera in grado di riscaldare i cuori di quanti mi conoscono o mi leggono. Soprattutto dei giovani che mi stanno molto a cuore. Perché desidero ascoltarli. Sempre. “Siamo almeno in due ad amarli, ascoltarli e proteggerli”, mi diceva. “Ma in verità siamo tanti di più a pregare per loro nell’intero pianeta, per scongiurare la guerra e realizzare progetti di Pace e di Speranza… E che nessuno deve mai arrendersi…”. Con le lacrime agli occhi gli dicevo di sì, di sì, di sì, ma ero già sveglia e con una nuova gioia nel cuore.

Certo, è stato solo un sogno, ma io mi sono svegliata, ricordando che in realtà non so più pregare ma ogni notte, nell’intimità silenziosa della mia anima e in silenzio, accarezzo Anna Paola che dorme accanto a me, e mi sento immensamente grata al buon Dio dei doni ricevuti e dell’amore che mi viene donato, molto di più di quello che io dono ai miei cari e agli altri. E mi sento una privilegiata. “Forza”, mi dico, “ti manca solo un pizzico di coraggio in più per sperare ancora”.

E, intanto, si diffondeva la notizia: “Papa Francesco è morto alle 7,35 di questa mattina…”. Incredulità. Dolore. Lacrime. Copiose. Inarginabili. Ma poi, piano piano, ho sentito scendere dentro di me una pace mai provata prima. E, improvvisamente, non più fiotti di lacrime, ma ricordi a fiotti delle Sue parole, pronunciate in più circostanze e sempre rivolte ai giovani:  Voi siete in piedi e io sto seduto. Che vergogna! Ma, sapete perché sto seduto? perché ho preso appunti di alcune cose che ha detto il nostro compagno e delle quali voglio parlarvi. Una parola si è imposta con forza: sognare. Uno scrittore latino americano diceva che noi uomini abbiamo due occhi, uno di carne e uno di vetro. Con l’occhio di carne vediamo ciò che guardiamo. Con l’occhio di vetro vediamo ciò che sogniamo. Bello, vero? Nell’obiettività della vita deve entrare la capacità di sognare. E un giovane che non è capace di sognare è recintato in sé stesso, è chiuso in sé stesso. Tutti sognano cose che non accadranno mai… Ma sognale, desiderale, cerca orizzonti, apriti, apriti a cose grandi…  (21 settembre 2015 a Cuba).  Il discorso del Papa fu molto più lungo e ricco di incitamenti a sognare e a desiderare un mondo migliore di Pace, di Speranza, di Gioia, di Solidarietà e di amorevole Cura per tutta l’Umanità. E, detto fra parentesi, è stato lo scrittore latino-americano del Guatemala Miguel Angel Asturias che ha proferito la frase che “noi uomini abbiamo un occhio di carne e un occhio di vetro. Il primo per guardare e il secondo per sognare”. Mi piace immensamente l’occhio di vetro per continuare a sognare e a desiderare, per non arrendermi… Fino a quando il buon Dio vorrà… Ed ecco una poesia che mi colma di Speranza e di Coraggio:

All’alba un sogno tra visione e realtà

a colmarmi di bianco e incredulità

nella brina luminosa del mattino

e silenzio protetto

dallo scialle antico della casa.

Mi abbraccia un sorriso colmo di Luce

che si fa preghiera calore tenerezza.

Tremo di gratitudine e di sorpresa

alla Sua carezza che sa di Cielo.

(Domani negli occhi di quanti amo

                   Riamata

accenderò lampade di Speranza

e di Coraggio per Ri-Sorgere insieme) Angela/lina

venerdì 18 aprile 2025

Venerdì 18 aprile 2025: i ricordi del periodo pasquale, sintetizzati da "Le piogge e i ciliegi" (I vol.)...

Riprendo a raccontare oggi, Venerdì Santo, perché è un giorno particolare nel ricordo delle Processioni come già in parte ricordato: dei Misteri, la mattina, con tutte le statue della Via Crucis, se non ricordo male; della Vergine Addolorata, della Urna dorata di Gesù morto e del Legno Santo, una struttura ricca di fiori freschi e di luci, in cui veniva/viene custodito un pezzettino del legno della Croce di Cristo. La piazza antistante alla Chiesa di San Francesco da Paola veniva/viene illuminata in maniera suggestiva e dolente, come già detto. Del Sabato Santo ho scarsi ricordi, purtroppo. Ma, sul tardi, la sera, andavamo in Chiesa per il commovente rito della gloriosa Resurrezione. Le campane a gloria della mezzanotte e le mille chiese del nostro paese a salutare “la Rəsòscətə”, (la Resurrezione di Cristo), e la nostra gioia per l'avvenuta riconciliazione tra Dio e gli uomini. Noi, di ritorno a casa, c'inginocchiavamo per ringraziarLo. La nonna batteva i pugni sul tavolo per scacciare il diavolo e fare entrare Cristo risorto. E ci baciavamo tutti in segno di rinnovato amore. Con tenera riconoscenza. A pranzo, il nonno benediceva l'abbondante tavolata e “u bənədìttə” (il benedetto) col ramo d'ulivo e l'acqua santa, che prendevamo dalla pila della chiesa e portavamo a casa in una bottiglietta (e mai il timore di un'infezione a sfiorarci e mai una malattia a colpirci per la nostra incoscienza, ben sapendo di tutte le mani, più sporche che pulite, a calarsi quotidianamente in quella pila per il segno della croce in ingresso e in uscita dalla chiesa!). Il benedetto era (e forse è) la specialità del pranzo pasquale nel nostro paese: uova sode tagliate a metà, arance con la buccia tagliate a fette (piccoli soli ad illuminare il giorno del perdono), ricotta dura e salata, salumi vari. E il ragù e l'agnello e la frutta secca e quella di stagione, e i dolci di Pasqua e il rosolio. E la lettera sotto il piatto come a Natale e tanta tanta ingenuità tra le mani negli sguardi nel cuore. Ci sentivamo davvero più buoni. Riconciliati con il mondo intero e con la vita (e… Buona Pasqua a Pasqualino/ Buona Pasqua a Nicolino/ Buona Pasqua anche a Peppino/ ah, sì, beh/ Buona Pasqua pure a te!/… Vedi poi che in fondo in fondo/ fa la Pace tutto il mondo/ fa i capricci/ fa i pasticci/ ma alla fine devi dir…/ Buona Pasqua al Polo Nord,/ buona Pasqua al Polo Sud,/ Buona Pasqua al mondo intero/ ah, sì, beh,/ Buona Pasqua pure a me… Ah, sì, beh/ Buona Pasqua pure a me!). Carosone dalla radio cantava anche per noi… Il giorno dopo era ancora un giorno di festa, condito di verde spensieratezza. Si andava in campagna per vivere “u pascəcónə” (la Pasquetta) con parenti e amici e lunghe tavolate con altri cibi tradizionali, l’immancabile “u vrədéttə” (non credo sia traducibile in italiano, forse “il brodetto”, ed era una sorta di pastina in ragù d’agnello allungato in brodo con dentro carne sfilacciata e uova rapprese e piselli…) e altro buon vino e chiacchiere e risate. Nonno Mincuccio raccontava...

Poi, giunse il tempo della Pasquetta con gli amici, perché i nonni rimanevano a casa in quanto non era più, per loro, tempo dei lunghi passi tra l’erba, delle inerpicate sui sassi, delle scampagnate faticose. C’era ormai la stanchezza di giorni lunghi da portare su spalle più curve e su gambe sempre più malferme. (‘na ròutə da rəpàrà u səllénə da səstəmà u manùbriə da addrezzà e u cambanìddə ca dəchiàrə allàrmə còmə a ‘na campàna ròttə e stənàtə… cə nə məttémə tùttə ‘nzìmə jndə a la màchənə pə fànnə abbəvèscə nàn jèssə jùnə bbùnə…) (una ruota da riparare il sellino da sistemare il manubrio da raddrizzare e il campanello che dichiara allarme come una campana rotta e stonata… se ci mettono tutti insieme nella macchina del restauro di tanti vecchi non ne viene fuori neppure uno sano…). Si spezzò l'incanto... Uno di quegli anni, proprio durante la settimana santa, il nonno era in chiesa e ad un tratto tentò di alzarsi perché dovevamo andare via, ma si accasciò sul banco con un dolore acuto alla schiena e alla gamba. Furono costretti alcuni uomini nerboruti a portarlo fino a casa con la sedia su cui lo avevano fatto sedere. Non si riteneva, a quei tempi, di dover chiamare l’ambulanza per situazioni del genere. Tutto si risolveva con la solidarietà di parenti, amici e conoscenti. Ma nonno Mincuccio rimase a letto a lungo e nonna Angelina gli faceva delle iniezioni che il medico gli aveva prescritto perché stesse meglio. Era probabilmente il nervo sciatico infiammato. La nonna commentò preoccupata e scontenta: “Chə cùrə sòrtə də chìtrə ca stèvə jndə alla chiésjə stémmə tùttə ‘ndəsàtə, pə ffórzə ca nə avèvəna scəcàttəscià rə rèumatìsmə, pórə jè mə səndèvə tùttə u pìttə chəstəpàtə e d’óssərə chjìnə də dəlórə e rə scənòcchjərə ca nàn zə chjəchèvənə. Fəgùrətə Məngùccə ca sóffrə də l’àrtrósəchə!”. (Con quel gelo che stava in chiesa stavamo tutti infreddoliti per forza dovevano risentirsi i reumatismi, pure io sentivo tutto il petto costipato, le ossa piene di dolori e le ginocchia che non si piegavano. Figuriamoci Mincuccio che soffre d’artrosi!”. Da anni il nonno andava a spogliarsi e a rivestirsi in quella che noi chiamavamo “la càmərə də rə mənènnə” (la camera delle bambine), cioè quella che avevate pensato dovesse essere la nostra camera; in realtà, mai abitata da noi perché era la più interna e umida della casa. Cominciò per nonno Mincuccio e per nonna Angelina il periodo degli acciacchi dovuti all’età. Nonno  minimizzava sorridendo: “Sono i dolori di quando mai”, diceva. “Oh, ma quando mai questo dolore! Non ricordo di averlo mai avuto prima!”. E si scherzava con un po’ di ansia e di amarezza. E “i dolori di quando mai” diventarono “i dolori di proprio sempre”. Ma non ne facevamo parola. Sfuggiva qualche ohi! inavvertitamente e capivamo: (màmme cè dəlòrə də véndə/ la véndə jè ‘na fəténdə,/ e cè dəlòrə də pèjtə/ u pèjtə sə facə arrèjtə/ e cè dəlòrə də vràzzə/ du vràzzə nan mə nə ‘mbórtə ‘nu cazzə/ e cè dəlòrə də còurə/ chə cùrə pòuə sə mòurə/ e cè dəlòrə də cùlə/ stàttə cìttə cìttə e səppurtàtìuə da sùlə…) (mamma che mal di pancia/ la pancia è una fetente/ e che mal di piede/ il piede si fa di nuovo/ e che mal di braccio/ del braccio non voglio saperne un tubo/ e che mal di cuore/ con quello poi si muore/ e che dolore di culo/ stai zitto zitto e sopportatelo da solo…). “Eh”, si rammaricava la nonna. “Jèjə da nu pìcchə d’ànnə ca jè ténghə la préssióna jértə e mə vèjnə pórə la sənzərénə e a Məngùccə u contràrjə. Cè amà fà: ièjə la vècchiama!…” (“Eh, è da qualche anno che io ho la pressione alta e ho anche attacchi di diarrea mentre Mincuccio soffre di stitichezza. Che dobbiamo fare: è la vecchiaia!”). Lei era più esplicita e ricca di particolari non richiesti, nonno su queste intime fragilità preferiva tacere. Scherzava. Sorrideva. Anche quando i dolori non gli davano tregua e noi glieli leggevamo tutti nella piega amara che si segnava, suo malgrado, sul viso magro e improvvisamente irrigidito e scavato. Ora si aiutava col bastone che mal sopportava. Lo avvertiva come un’offesa alla tua integrità fisica, ma piano piano non ne poté fare più a meno. La nonna si lamentava di più e si scusava sempre dicendo: “Nəsciónə sə làgnə ce nàn zə dòulə!”. (“Nessuno si lamenta se non si duole!”). E chiudo qui per non sentire tutta la malinconia che mi vince al ricordo. Buona Pasqua e Pasquetta a tutti di vero cuore. Angela/lina

  

lunedì 14 aprile 2025

Lunedì 14 aprile 2025: i ricordi del periodo pasquale, sintetizzati da "Le piogge e i ciliegi" (I vol.) (prima parte)...

Oggi è, intanto, il compleanno di mio cognato Gianni, marito della mia amatissima sorella Anna Maria, che ha raggiunto il 23 giugno scorso tutti i miei cari che stanno illuminando il Cielo. A lui, che ha condiviso con noi gli ultimi quarant’anni della sua vita, facendo da padre protettivo e attento alle figlie di Anna Maria e nonno amorevole con tutti i nipoti, vanno i miei auguri più affettuosi.

Ma, ritornando indietro negli anni, non posso fare a meno oggi di ricordare il periodo pasquale,    vissuto con i nonni materni, nella “casa del gelso e delle rose”, nella festosa atmosfera dei dolci fatti in casa e delle scherzose complicità tra adulti e bambini. C'erano “rə sasanéddərə” (i panetti schiacciati) con mandorle, vincotto, cacao e canditi e granellini di zucchero, se proprio si voleva abbondare in decorazioni. Zia Maria, la cognata di nonna Angelina, per Pasqua, era solita regalarci “rə scarcéddə”: bamboline, coniglietti, campane, angeli, gallinelle di pasta dolce con uovo sodo al centro e tanti minuscoli confettini bianchi, argentati, rossi, rosa, azzurri, dorati a ricoprirle. Una voluttà! Io le mangiavo con gli occhi e me ne tornavo a casa felice per quel ricco bottino.

Ma era la Pasqua vissuta nella nostra casa che ricordo con grande nostalgia dopo tutto il magro e triste periodo della quaresima, fatto di digiuni, rinunce, via crucis, preghiere, silenzi per purificarci del divertimento sfrenato (!) del Carnevale e diventare degni del perdono di Cristo risorto.

E, ancora prima della Pasqua, la Settimana Santa, di cui ho ricordi vividissimi. E dei suoi riti, perché rendono presente ai miei giorni la fede certa dei nonni. La loro fede di straordinaria umanità. Fede generosa e pura. Ricordo dolcissimo che si ripropone nelle nostre sporadiche o quotidiane chiacchierate. Dialogo mai interrotto tra me e i miei figli e i miei nipoti sul nostro paese, le case, le cose, il colore, il profumo, il sogno, le credenze, che caratterizzavano la nostra terra di quegli anni: quasi un canto antico, recupero di parole, di modi di dire, di voci mai spente.

La voce della nonna che ci esortava ad andare in chiesa per la messa delle sette per il primo venerdì del mese (con indulgenze plenarie annesse) (amà sciè alla mèssə də rə séttə ca jèjə la prìma mèssə u prémə pənzìrə àva jéssə a crìstə…) (dobbiamo andare alla messa delle sette che è la prima messa il primo pensiero deve essere rivolto a gesù cristo…). E io: “Ma è mai possibile che pure quando è festa a scuola ci devi costringere ad alzarci presto?”. “Ècchə jè sémbə jèddə ch’avà parlà cə sə nòn nàn ‘zə séndə chəndéndə sò dìttə a rə séttə e a rə séttə amà stà jndə a la chièsjə… pə guadagnànnə u paradèsə…” (“Ecco è sempre che lei deve parlare altrimenti non è contenta ho detto alle sette e alle sette dobbiamo essere in chiesa per guadagnarci il paradiso”…). Poi si doveva andare in chiesa per la via crucis, per i “sepolcri” e per tutti gli altri riti della Settimana Santa e della Santa Pasqua, attesa non soltanto per sfoggiare l'abito nuovo, inno alla primavera (trionfo di gonna a campana di panno-lenci azzurro come la lacca del cielo d’aprile e di gonna plissettata di un verde prato da far impallidire le siepi del nostro giardino e camicette bianche come leggere nuvole di orli ricamati), ma anche per rivivere quel mistero di morte e di resurrezione vecchio di millenni, e riscoperto ogni anno nella commozione del cuore, come esigenza di rinnovato perdono.

Per i veri cristiani la Pasqua era davvero una rinascita d’amore. Un atto di umiltà nella certezza del perdono. (Oggi il rito delle ceneri è per me solo un ricordo lontano. Una riflessione più o meno amara sulla nostra precarietà. Tutto passa, appunto. Il bene e il male. La gioia e il dolore. Considerazione banale ma non troppo. Oh se tutti pensassimo alla nostra precarietà e alla nostra fragilità, al nostro essere granelli di sabbia infinitesimali nei tanti multiversi che ci comprendono per lo spazio di un lampo appena… saremmo tutti migliori e affratellati in un unico credo: la solidarietà che è di per sé sinonimo di Pace! Di Alleanza tra Dio e gli uomini. E degli uomini tra gli uomini. E invece…).

Squarcio di festosa serenità era la Domenica delle Palme con gli ulivi benedetti e il bacio affettuoso di autentica rappacificazione tra parenti e amici. Nonno Mincuccio portava in chiesa, sempre alla messa delle sette, un gran fascio di rami d'ulivo per farli benedire e per poi distribuirli a parenti, amici, conoscenti, vicinato (la pace sia con voi… e con il tuo spirito!, ad ogni scambio di bacio con rametto di ulivo benedetto…). Nell'aria c'era il profumo di peschi, mandorli e ciliegi in fiore in netto contrasto con l'intenso odore d'incenso che respiravo nelle chiese: fuori, esplosione di sole e di vita a mettermi una pazza allegria nelle vene; in chiesa, la penombra silenziosa e incombente di un Dio punitore che piegava in ginocchio i miei pensieri di libertà. E fiati di donne e uomini che il digiuno rendeva pesanti. I miei atroci peccati? Qualche bugia detta a nonna Angelina per andare a giocare con le amiche o, più tardi, per poter uscire con gli amici, magari per andare al cinema oppure per fare quattro salti alla buona, così, tra noi ragazzi; i rari litigi con Lizia; “i pensieri cattivi” che cominciavano a frullarmi per la testa e, ancora, il disinteresse totale per la scuola e molti atti di vanità e presunzione che mi riconoscevo (sono bella, finalmente capisco tutto, non c'è bisogno di studiare tanto le cose ormai le so...) tante impennate di ribellione (non mi alzo… non ci vado… non lo faccio… non te lo dico… non studio non studio non studio…). Per quel perdono barattavo la mia libertà con una settimana santa densa di genuflessioni e giaculatorie e rosari. Ma era sempre nonna Angelina a sollecitare i miei pentimenti. La settimana santa era un susseguirsi di riti e di preghiere, a cominciare dalla via crucis, che metteva, quotidianamente, a dura prova la mia pazienza nell’ascoltare e nel seguire, con meditazioni suggerite dal sacerdote e rinnovate litanie dei fedeli, tutto il cammino di Gesù condannato a morte dal Sinedrio fino al Golgota. Un cammino, suddiviso in quattordici “stazioni” con altrettante genuflessioni, in una chiesa gremita e penitente (adoramus te christe et benedicimus tiiibi… quia per sanctam crucem tuam redemisti muuundum…) mi ero riconciliata anche col latino lingua di Dio… Il nonno e la nonna seguivano con profondo trasporto tutte quelle riflessioni e preghiere, che si dilatavano tra le navate in una sorta di cantilena ipnotizzante. Alla fine anche i fedeli più fedeli erano stremati tanto che alle Litaniae Sanctorum la folla, dopo un po’, cominciava a rispondere non più con “ora pro nobis”, ma con “nobìs” e, infine, “bìs”, pur non avendo alcuna intenzione di bissare… (kyrie eleison… kyrie eleison… christe eleison… audinos… exaudinos… sancta maria… ora pro nobis… sancta dei genetrix… ora pro nobis… sancta virgo virginum… ora pro nobis… … sancte petre… nobìs… sancte paule… nobìs… … sancte andrea… nobìs… … sancte stephane… bìs… sancte vincenti… bìs… bìs). Io mi annoiavo. Mi chiedevo che efficacia potessero avere quelle preghiere smozzicate di cui nessuno capiva un’acca. Vagavo con i pensieri, andavo lontano, fantasticavo, mi consolavo. Qualche volta mi distraevo sui volti dei vicini di banco. Cercavo d’indovinarne pensieri e colpe per capire il motivo di tanta sfibrante espiazione.

Durante la mattina del giovedì santo, poi, le strade del paese erano percorse dalla processione del “Misteri” con tutte le statue raffiguranti le varie torture inflitte a Gesù durante la via crucis. L’accompagnava la banda con le dolcissime nenie funebri di Carelli, Delle Cese, di Pasquale La Rotella, tutti i grandi musicisti del nostro paese; nenie, che creavano un’atmosfera di dolorosa attesa che la passione di Cristo si compisse. Il rito dei “sepolcri”, invece, era affidato al crepuscolo dello stesso giorno ed era un rito che mi piaceva molto: si andava in giro per le strade in un percorso che comprendeva almeno sette chiese da visitare in misteriosa e mistica penombra. Ai piedi dell’altare maggiore c’era il sepolcro con vasi colmi di delicati cespugli dorati con lunghi steli di germe di grano, illuminati da fioche lampade in grandi coppe di vetro ambrato, le cui fiammelle rosse dipingevano sui gradini e sui muri inquietanti arabeschi d’ombre guizzanti. Si sostava in raccoglimento e in preghiera per un bel po’. Il tempo di guardarmi intorno intimidita e incuriosita, persa nell’ammirazione della bellezza di quei vasi e di quelle luci in una disposizione artistica che differiva da chiesa a chiesa, secondo l’estro del sacerdote, del fioraio e delle bigotte che avevano provveduto all’allestimento. Le donne fuori dalle chiese commentavano: “Madónnə, cə jèjrə béllə cùssə ànnə u səbbùlcrə də sàn Səlvìstrə e pórə cùrə də rə Vìrgənə”… (“Madonna, quanto era bello il sepolcro della chiesa di san Silvestro e pure quello delle Vergini…”). “A mè na’ m’è piaciótə pə nnùddə cùrə də sànd’Andre’, asséjə misirìnə chə dùə strìppuə səccàtə scəchìttə”… (“A me non è piaciuto per niente quello di sant’Andrea, così misero con quei due rami secchi soltanto”…)

Dal venerdì, invece, si entrava nel vivo della settimana santa con i panni viola che coprivano tutte le nicchie con i simulacri dei santi nelle chiese, e tutti gli specchi (in cui di sicuro abitava il diavolo, secondo una teoria di nonna Angelina, derivatale da secoli di medioevo) nelle nostre case.

La mia vanità subiva un feroce colpo fino alla Domenica della Resurrezione. Il mio cruccio maggiore era non potermi specchiare per vestirmi e per pettinarmi a modo mio (jndə au spécchiə stèjə u diàvuə e tu sì scəchìttə ‘na məndòsə ca nàn zàpə pənzà a nnùddə àltəà dà scè drìttə drìttə au ‘mbìrnə…) (nello specchio c’è il diavolo e tu sei solo una vanitosa che non sa pensare a niente altro… devi andare dritto dritto all’inferno…). Ma mi consolavano di tanta rinuncia la processione della Vergine Addolorata della mattina e quella del Legno Santo della sera, rincuorandomi anche per il lungo silenzio delle campane, messe a tacere fino a Pasqua; silenzio, interrotto a intervalli da “rə tərròzzuə” (quei particolari arnesi molto strani che i ragazzini per strada facevano ruotare nell’aria con il polso e con la mano, perché emettessero il loro caratteristico suono cupo e greve, che sostituiva quello più squillante e morbido dei campanili) fino allo scampanio a distesa della mezzanotte del sabato santo. Le due processioni erano un capolavoro di tristezza, di bellezza, di fede. L’Addolorata era bellissima con il suo volto minuto e affilato, coperto dal pizzo nero e intriso di pianto. L’accompagnava una leggenda molto suggestiva. Pare che lo scultore, ad opera finita, venisse tramortito dalla voce della Vergine che lo ringraziava per tanta bellezza con le parole: “‘Ncìələ mə vədìstə ca ‘ndèrrə mə facìstə?” (“in Cielo mi hai vista ché in terra mi hai scolpita?”).

Era stato proprio nonno Mincuccio a raccontarci questa delicata leggenda la prima volta, lasciandomi incredula e incantata. E con la voglia di verificare di anno in anno la bellezza di quel volto in un canto d’anima che si univa al coro de “La Desolata”. E mi piaceva anche rivivere con lui il racconto tenerissimo, che non conoscevo e che non so se faccia parte della tradizione popolare o della sua fertile fantasia: sta di fatto che ci raccontava come, nella tristissima notte “du Scəvədìa Sandə”, il peregrinare della Madonna addolorata, nella ricerca spasmodica e dolente del figlio, avesse momenti di straordinaria crudezza e di meravigliosa pietà in quanto, uscendo dal paese, la Vergine dolente vedeva impiccato ad un albero il corpo di un giovane: quello di Giuda, il traditore di Suo Figlio, e con delicatezza gli si avvicinava, lo accarezzava, gli baciava la mano...

Quale perdono più grande, dunque: quello di un Dio immenso, che lascia crocifiggere Suo Figlio, fattosi uomo per redimere l’umanità, o quello di una madre del tutto “umana”, trafitta da tutto il dolore del mondo, che pure bacia con gesto delicato la mano di colui che proprio con un bacio aveva tradito Suo Figlio? Lei, minuscola donna come tante, con un cuore immenso più dell’immenso Suo Dio... (Probabilmente è per questo che noi tutti ci rivolgiamo a Lei perché interceda in nostro favore presso il Padre e il Figlio. Lei: Vergine madre, figlia del tuo figlio,/ umile ed alta più che creatura,/ termine fisso d’etterno consiglio..., come recitano i primi versi della preghiera di San Bernardo alla Vergine nel Paradiso dantesco).

<Nella mente si affollano ricordi, lacerti d’infanzia, spaccati di vita paesana, parole in vernacolo in disuso, ma straordinariamente colorite e dense di significato, tradizioni da salvare, da valorizzare perché fanno parte di noi, del nostro sangue e della nostra anima, della nostra cultura contadina e della nostra fede. Della nostra stessa vita. Fatta anche di paura. Quella paura che serpeggiava nell’anima di tutti noi bambini quando entravamo nelle chiese con “scarsa luce e poca aria”, ma piene d’incenso, di lumini rossi, di lupini appena in germoglio. (…) la paura del buio delle chiese con le statue dei santi coperte con i panni viola della penitenza spesso era vinta dallo stupore. Meno piacevole, invece, era la sensazione della “bocca amara di digiuno” durante i riti della Settimana Santa. “Eri bella come rosa...”: richiamo antico, che mi attanaglia il cuore, ancora oggi, al ricordo di quel volto come petalo lacerato che intensamente aspettavamo di guardare con un misto di venerazione, di pena e di curiosità per quella antica leggenda che voleva quel volto bellissimo causa della morte del suo scultore>.  

(eri bella come roosa,/ là di Gerico sul praato./ Or sì mesta, sì pietoosa,/ dal sembiante scolorato/ sembri al suol reciso fioore,/ ricoperto di pallore! …). E Vitino, ormai diventato il prof Pasculli, da tutti amato e apprezzato, ne era diventato il direttore musicale, ma io non ero più riuscita ad incontrarlo dopo i nostri anni della fanciullezza in via Maggiore angolo via De Rossi. A mezzanotte, infine, c’era la processione “du Venerdìa Sàndə chə la nàchə d’òrə də Crìstə mùrtə” (“del Venerdì Santo con culla dorata di Gesù morto”), “də l’Addóloràtə” (“della Vergine in pianto”) nella vana ricerca del figlio, e “du Légnə Sàndə” (“del Legno Santo”), tutto luci e fiori. La piazza alberata, antistante alla chiesa di San Francesco da Paola, era illuminata solo dai falò nei vasi di terracotta e dalla fede di quanti sin dal pomeriggio portavano da casa le sedie sul sagrato della chiesa per assistere a quella triste rappresentazione senza stancarsi, dato che “rə statuìrə” (i portatori delle statue), vestiti di nero, con camicia, guanti bianchi e papillon neri, procedevano con studiata lentezza perché le tre statue non si incontrassero mai lungo i rettilinei di quel quadrilatero. Dopo ogni simulacro con lunghe candele accese, la banda suonava musiche dolcissime e tristissime come lo Stabat Mater, canto funebre attribuito a Jacopone da Todi con musica e coro del nostro Tommaso Traetta, e altre sinfonie.

Anche io e Lizia portavamo le sedie per tempo perché i nonni potessero stare comodi fino alla fine della lunghissima processione. Qualche volta anche al riparo dal vento freddo, intabarrati in cappotti e sciarpe per l’atteso inevitabile gelo (dicevano) di ogni venerdì santo, difficilmente riscaldato dal sole (u vənərdìa Sàndə fàcə sémbə brùttə tìmbə, da quànnə ‘mbrè crìstə sòpə a la cròcə…) (ad ogni venerdì santo, da quando è morto cristo sulla croce, è sempre brutto tempo…)

Lacrime commozione preghiere incanto tradizione. Poi la festosa Pasqua…

 A domani o dopodomani la seconda parte. Grazie infinite a chi conserva la pazienza e la volontà di leggere quanto scrivo sul nostro blog. Angela/lina

 

 

sabato 12 aprile 2025

Sabato 12 aprile 2025: IL DONO DELL’AMORE DI RAFFAELE NIGRO (seconda e ultima parte)

Qualche giorno fa ho pubblicato sul nostro blog la mia recensione al libro di Raffaele Nigro, IL DONO DELL’AMORE, pubblicato solo qualche mese fa dalla Casa editrice La nave di Teseo (Milano, 2024, pp.423, £ 22). Ma, purtroppo, rileggendola, dopo la pubblicazione, mi sono resa conto di aver cancellato, involontariamente, una parte che ritengo importante per conoscere più approfonditamente la scrittura del nostro immenso Raffaele, quella riguardante il suo “realismo magico” e la sua visione politica della realtà, in netto contrasto con la magia, di cui sono intrisi tutti i suoi romanzi. Raffaele Nigro ha bisogno, dunque, costantemente di uncinarsi alla realtà e di sospendersi, funambolo e senza rete, sul filo della fantasia, visionaria e ricca di intrighi e di misteri.  

Occorre, pertanto, fare i conti innanzitutto col suo “realismo magico” in letteratura e con la sua partecipazione concreta alla politica dei nostri giorni.

Occorre, allora, ricordare che verso la fine dell’Ottocento si diffondeva in Europa un modo nuovo di dipingere, influenzato dalle prime teorie di Freud sui sogni e l’inconscio (la locuzione, “realismo magico”, infatti, fu coniata nel 1925 dal critico tedesco Franz Roh, per quei pittori che percepivano e dipingevano la realtà come sogno e magia). Dalla pittura alla letteratura il passo fu breve. Fu Massimo Bontempelli che usò per primo la stessa locuzione in letteratura per indicare il fiabesco, il mito, il sogno e il mistero, tra l’onirico e l’occulto, che, nei suoi racconti, avviluppavano la realtà. Bontempelli fu, in Italia, colui che, facendo tesoro della visione multipla dei comportamenti umani avanzata da Luigi Pirandello (si pensi a Uno, nessuno, centomila) si fece capostipite di altri grandi autori visionari come Tommasi Landolfi, e più tardi Dino Buzzati, Anna Maria Ortese, fino a giungere ai nostri giorni, percorrendo tutto il Novecento, a Italo Calvino e al nostro Raffaele Nigro, il quale nelle sue opere custodisce come preziose pepite d’oro le Opere di questi nostri famosi Autori, ma anche i romanzi di grandissimi scrittori ispano-sudamericani, come quelli di Gabriel Garcia Marquez e, in primo luogo, Cent’anni di solitudine (Premio Nobel per la Letteratura 1982, quando Marquez aveva quarant’anni, come quarant’anni aveva Raffaele quando vinse il Campiello). Mi piace ricordare che, grazie a questo romanzo, Marquez è diventato uno dei più accreditati “maestri” del “realismo magico” di quei Paesi. Ma occorre fare riferimento, a mio parere, anche a Jorge Amado, scrittore brasiliano, che seppe intrecciare il “realismo magico” alla vita quotidiana dei suoi protagonisti (vedi: Donna Flor e i suoi due mariti) o la stessa scrittura di Isabel Allende, con la sua Casa degli spiriti (Buenos Aires 1982) o Il mio paese inventato (il Cile) e l’ultimo: Il vento conosce il mio nome, è nelle corde visionarie di Raffaele Nigro...

Invece, in politica, non a caso, Raffaele parla dei politici della nostra Puglia per bocca dei protagonisti del suo romanzo: da Nichi Vendola a Michele Emiliano a Raffaele Fitto, nei loro diversi e molteplici impegni per risollevare le sorti della nostra Regione.

In pratica, mi piace ripetere: <da tutto il romanzo, emergono la stratosferica cultura del suo Autore, la sua sensibilità poetica, le innumerevoli esperienze che ne hanno fatto un “viandante” solitario, che fa della sua solitudine sguardo vivificatore di incanti e nostalgie, persino in presenza, almeno nel romanzo, dei compagni che quei viaggi vivono ciascuno col proprio modo di essere e di afferrare sogni e illusioni, fragilità e risorse>.

Ma l’intera recensione, con sapienti tagli e ricuciture, inevitabili per essere nello spazio consentito   alla pagina di un giornale, ha permesso a Mauro Massari, che tutti voi già conoscete, attraverso il nostro blog, di riuscire magnificamente nell’impresa titanica di dare maggiore respiro e intensità al mio lunghissimo testo, da lui oggi pubblicato su L’EDICOLA, un giornale molto importante e stimolante, gestito appunto dal mio giovanissimo amico, giornalista, scrittore, poeta e musicista di ottima caratura. Mi piacerebbe che Raffaele Nigro potesse leggere oggi quanto opportunamente sintetizzato dal bravissimo Mauro Massari, che ringrazio di vero cuore per la pubblicazione e per il lavoro svolto con tanta attenzione e passione che sempre mette in ogni sua “avventura” letteraria, musicale, umana. Grazie!

E, per concludere, siccome domani è la Domenica delle Palme, vi lascio, mie carissimi amici e amiche, con una mia poesia: Fioccano petali azzurri del glicine in fiore/ - azzurra neve di primavera -/ su rami fioriti ai miei occhi che amano/ le attese e attendono ali di rondini/ di ritorno ai nidi, appollaiati/ sulla quercia vecchia come me di anni/ e delle stagioni mai più contate/ ma mai stanche di voli per sognare/ e farsi prato dove primule e margherite/ sono in festa e sventolano petali/ in libertà come ramoscelli d’ulivi/ salutano la PACE per le strade di pietra/ di Gerusalemme antica e festante./ In caduta libera i rametti benedetti/ ridono con la mia libertà di sognare/ cieli azzurri d’aprile colmi di sole/ (vibra di cielo-prato il nuovo giorno/  e un senso di tenerezza mi vince  / come da bambina la preghiera/   all’angioletto del buon Dio   )

A presto. Angela/lina

domenica 6 aprile 2025

Domenica 6 aprile 2025: "IL DONO DELL’AMORE" DI RAFFAELE NIGRO

Conosco Raffaele Nigro da tanti anni ormai da non riuscire più a contarli. E conosco da altrettanti anni la sua scrittura lungo un percorso che non conosce confini spazio-temporali, ma solo accese, appassionate e meritate conquiste culturali e letterarie, che hanno scritto il suo nome a caratteri cubitali nella Storia della Letteratura Italiana e non solo perché le sue innumerevoli opere sono state tradotte in molte altre lingue.

Numerosissimi i premi e i riconoscimenti, a partire dal Campiello per I fuochi del Basento nel 1987 ad appena quarant’anni e già tantissime pubblicazioni alle spalle come scrittore, poeta, giornalista, saggista, autore di Teatro, ma anche regista. Amante di libri, di opere d’Arte, della Bellezza in genere, in tutte le sue innumerevoli forme. Sempre alla ricerca del “fatto storico”, riguardante la sua terra tra Puglia e Basilicata, ma anche lungo l’intero appennino per descrivere una identità “verticale” della nostra Italia, meta di tanti suoi viaggi, che riguardano anche “terre straniere e amate” come la Serbia e l’area balcanica. E potrei continuare all’infinito, come infinito è il suo viaggio tra le parole, le immagini, i suoni ancestrali, i rumori della terra, che ama visceralmente.

Ma oggi devo fare i conti col suo ultimo libro, almeno per il momento, Il dono dell’amore, (edito da La nave di Teseo, Milano, 2024, pp.423, £ 22).

È un romanzo che rispecchia in toto le strutture formali e contenutistiche di quelli precedenti, tutti incentrati su luoghi veri e personaggi veri e magici nello stesso tempo…, e veri sono i percorsi tra terre e mari conosciuti, fino a raggiungere luoghi lontani e ricchi di mistero e magia. Come sempre, continui sono i riferimenti colti a tutto quanto rende preziose anche queste pagine: i dipinti di Millet e il Realismo francese dell’Ottocento; i “fenicotteri rosa, saliti fin qui dall’Africa e sparsi tra gli sconquassi delle periferie”, che riguardano “un mondo sfuggente, parallelo, invisibile” (e bastano tre aggettivi per connotare le periferie di ogni Paese); i passaggi incantati e poetici che fanno sognare oltre la stessa storia dei protagonisti, che si aprono a mille altre storie per fare rientrare in un discorso di creatività e di politica un mondo di altro e altrove: “tentare sempre la scalata alla luna, osare dove altri non osano. Come Colombo e Magellano. Questa è la passione creativa. Dare un senso politico alla propria creatività. Per gli altri, i più deboli, basta puntare in alto, attraverso la via della semplicità…”. Non a caso, i riferimenti ai politici della nostra Puglia: da Nichi Vendola a Michele Emiliano a Raffaele Fitto, nei loro diversi e molteplici impegni per risollevare le sorti della nostra Regione.

In pratica, da tutto il romanzo, emergono la stratosferica cultura del suo Autore, la sua sensibilità poetica, le innumerevoli esperienze che ne hanno fatto un “viandante”    solitario, che fa della sua solitudine sguardo vivificatore di incanti e nostalgie, persino in presenza, almeno nel romanzo, dei compagni che quei viaggi vivono ciascuno col proprio modo di essere e di afferrare sogni e illusioni, fragilità e risorse.

L’inizio del romanzo è già la conferma di trovarci nei luoghi della Puglia che conosciamo molto bene, nei pressi di Foggia: “Tra Stornara e Borgo Incoronata” con una motivazione per i protagonisti dell’estate 2012: Marsilio dal Ponte (“pittore di talento, ma spiantato”, Beppe (detto Picasso), sempre in crisi esistenziale, e Michele (detto Chagall), che vede il mondo attraverso i colori delle sue immancabili tele. Sono suoi fedeli amici di mille avventure in “cerca di ispirazione”, dato che sono a corto di idee. In realtà, essi conversano a lungo, tra il serio e il faceto, tra un bicchiere di birra e una bestemmia, delle varie problematiche che emergono nel nostro Sud di ieri e di oggi: le migrazioni e i migranti; lo svuotamento dei nostri paesi verso il Nord in cerca di lavoro e lo svuotamento dei tanti Paesi extracontinentali, vessati dalla fame, dalla guerra, da varie pestilenze e tragedie, in cerca di luoghi migliori e più accoglienti; le nostre preoccupanti situazioni per “le distese distrutte di olivi, la Xilella li ha bruciati”, “L’Ilva con le sue cattedrali di laminati di acciaio”; l’annoso tema della partenza e del ritorno, ma anche quello più coraggioso delle “restanza”, affrontato, tra l’altro, magnificamente in ricordo del padre di Marsilio, un filantropo morto purtroppo precocemente per cirrosi epatica e massacrante lavoro al fianco dei suoi lavoranti.

Suoi compagni di viaggio, in tal senso, sono altri grandi poeti, scrittori e giornalisti del Meridione, dalle poesie del nostro imperdibile Lino Angiuli al grande saggista, storico e archivista Valentino Romano, ma potrei continuare ancora se non temessi di fare torto a qualche grande Autore che potrei involontariamente omettere.

E che dire, intanto, di Rocco Scotellaro? Così legato alla sua Lucania e ai suoi contadini da aiutare con ogni mezzo? Politicamente, ma anche con la poesia, con i suoi sofferti versi in dialetto e con i suoi romanzi, tra cui L’uva puttanella-Contadini del Sud, che gli valse, post mortem, nel 1954, il Premio Viareggio e Premio San Pellegrino, per la durezza della denuncia politica e per l’impegno etico-civile-sociale profuso nei brevi ma intensi anni della sua vita.

Ma, tornando a Raffaele Nigro e al suo romanzo Il dono dell’amore, il primo personaggio che si batte per la “restanza”, come già accennato, con aiuti concreti sempre più offerti a profusione nella sua Azienda di Putignano, in cui alleva bestiame, è Agostino, padre appunto di Marsilio da Ponte, uno dei tre protagonisti della vicenda. Un uomo, che s’incontra spesso in tutto il romanzo. Agostino è figura predominante fino all’ultima pagina, come vedremo. Come predominante è il Carnevale di Putignano con, alla base, tutta la sua metafora di vita e di morte: entrambe danno il senso della sorgente (iniziale scintilla di vita) e dell’idea primigenia che porterà al lungo lavoro degli “addetti ai lavori” per percorrere tutte le fasi di allestimento dei carri, come quelle esistenziali e giungere alla foce (a delta o a estuario a seconda del karma individuale). La sfilata è impegno, intrigo, consonanza e dissonanza di pensieri e azioni, aspettative e avventure amorose per spassarsela un po’ e dimenticare gli amori più seri, le donne realmente amate ma difficili da amare, da capire, da vivere. Sono legami tormentati e misteriosi, con malattie distruttive come quella di Agostino, o di Thenia e confessioni improvvise che nascono anche da sconfinate solitudini, imperiose fragilità, e la voglia di andare lontano, di attraversare il deserto per colmarsi di miraggi o di infelicità. Accade a Marsilio e Michele, ma soprattutto a Beppe, anima tormentata quant’altre mai. I tre amici, comunque, pur avendo continuamente intenzione di partire per terre lontane, non fanno altro che brevi viaggi per tutta la Puglia fino alla Lucania. Per evadere da tormenti e pensieri che pungono come lame conficcate nel petto. Ma la meta è andare oltre, in Grecia, come prima tappa, culla della nostra Civiltà e culla dell’armatore Stravos Asimakopulos, che ha fatto conoscere a Marsilio la bellissima Thenia, di cui si è immediatamente innamorato, forse corrisposto oppure… ma il viaggio alla fine comprende Tunisi, Tangeri, Marrakech, Bosaso per raggiungere l’India, che ha forma di cuore e fiabe e leggende antiche.

È qui che possono accadere tutti i miracoli. Qui che è possibile vivere “il dono dell’amore” in tutta la sua possanza. Qui la guarigione prodigiosa di Thenia e il loro amore senza più ostacoli e paure. Qui Marsilio può ritrovare suo padre da tempo ormai nel mondo dell’aldilà. E parlare con lui come quasi mai è accaduto in vita. E portare il suo saluto d’amore a sua madre ancora in pena, alle sue sorelle e suo fratello, che tanto lo rimpiangono. Ognuno col suo carico di rimorsi, rimpianti, aspettative.

Qui, nido di incontri e di emozioni e di luminosità di cieli, oltre il buio delle promesse perdute e delle vele ammainate sul Mediterraneo che si è fatto oceano, vissuto da ciascuno come sfida all’universo nell’attimo di un battito, mentre si disfa di nuovo nel Mediterraneo e sembra un gioco di specchi, un volo di nuvole e promesse d’amore e libertà di sognare il ritorno alle origini, che non separano, ma uniscono perché così è l’amore.

È qui, infine, che Raffaele Nigro riassume tutta la sua singolarità, sempre presente in tutte le sue Opere: Cultura, Storia, Letteratura, Visionarietà psicologica e sensoriale. Ecco, queste ultime si prendono tutte felicemente per mano, in un’Affabulazione, che tutta da sempre gli appartiene.

È qui che perde realmente il suo amico Beppe Labianca, a cui è dedicato il romanzo, perché deciso a cambiare rotta per cambiare il mondo, e si affratella ancora di più a Michele, altro amico reale, con cui, nella finzione del romanzo, desidera tornare a Bari, luogo senza radici, ma con tanti amici, tanto lavoro, tanto cuore.

Tra un miscuglio di realtà e fantasia È qui che l’Autore scopre l’ascolto della sua anima, quella più profonda e vera, quella della senilità ancora vibrante di creatività e di speranza, dove è più facile lasciarsi abbracciare dall’unica certezza possibile: “certe cose si fanno solo per amore”.  

Angela                                                      

martedì 1 aprile 2025

Martedì 1° aprile 2025: ancora per te, MAMMA...

Martedì 1° aprile 2025: ancora per te, MAMMA… (seconda e ultima parte)

La salutammo mentre la portavano in sala operatoria con l’ultima figlia che la seguiva passo passo, e mi sembrò un uccellino spaventato e tenero con quella sua cuffietta di lana rosa per non prendere freddo ed era una bimba alla prima passeggiata all’aperto. Aveva la stessa aria stupita, non d’incanto infantile per la scoperta del mondo, ma di disincanto per un mondo conosciuto amato ignorato perduto. Ci aveva raggiunto anche Mimmo, che porta il tuo nome modernizzato di nonno Mincuccio, a cui fisicamente somiglia molto. Ed ora eravamo tutti con lei e per lei a sperare e a pregare. Mancava solo Anna Maria, presente con continue telefonate. Il chirurgo-mago ci tranquillizzò, ci disse che potevamo tornare a casa perché di lì a qualche giorno sarebbe tornata anche lei. Avremmo dovuto usare accorgimenti e precauzioni, ma il peggio era scongiurato. Rincuorati, ripartimmo per preparare la sua camera con tutti i comfort ad accoglierla. Durante il viaggio di ritorno, facemmo progetti per lei. Io mi ripromettevo di esserle più vicina come non lo ero mai stata per tutti gli anni precedenti. Ora sarei stata più libera (il 2000 aveva segnato la interruzione a tempo indeterminato dei Concorsi nella scuola!) e mi sarei dedicata esclusivamente a lei. L’avrei portata in vacanza con me. Saremmo state finalmente insieme. Progetti che ebbero il respiro breve di quel raggio di sole in quei giorni di interminabili piogge di inizio primavera, che tardava a giungere come oggi, e che io sognavo per lei tiepida e con passi di rugiada. Il luminare avrebbe dovuto dirci che “il peggio sembra scongiurato”, non che “è scongiurato”.

Quella notte del ritorno sognai il nonno. Stavo camminando sull’orlo di un burrone di cui non vedevo la fine, tanto buio era il fondo da non distinguere se vi fosse un bosco fitto di alberi cupi o il mare con la sua nenia sommessa o la pianura con i suoi campi coltivati. Mi sentivo sola e disperata e non sapevo perché stesse camminando proprio sul ciglio della strada in quel silenzio spettrale e in quella oscurità così spaventosa. Ad un tratto, lo vedevo seduto proprio lì sul bordo di quell’orribile precipizio a guardare nel vuoto. Lo invocavo, dapprima senza voce. Poi, avevo preso a chiamarlo con voce sempre più forte e disperata, ma non si girava. Ostinatamente continuava a guardare verso l’abisso senza rispondermi e senza voltarsi. Sembrava insolitamente sordo ad ogni mio richiamo.

Mi svegliai sudata e spaventata con un brutto presentimento, confermato da una telefonata concitata che ci informava che stavano portando mamma in ambulanza con il pericolo che morisse per strada. Purtroppo mamma aveva avuto un improvviso repentino peggioramento. Una dottoressa, nostra carissima amica, Teresa Aresta, si assunse la responsabilità, con grande coraggio, di permettere il trasferimento, da quell’ospedale del Nord al profondo Sud della nostra casa, in un’autoambulanza privata, con lei sempre vigile al suo fianco e con nostra sorella, attento angelo a colmarla di carezze. Giunsero stremate entrambe, madre e figlia, tra lacrime brevi, e parole affaticate e non sempre lucide.

Due giorni appena rimase con noi tra spasimi che ci destabilizzavano e tenui sorrisi di affettuosi addii. Ci lasciò stanca di aspettare e di soffrire all’alba della domenica ed era il 1° aprile. Ci sembrò un pesce d’aprile, uno sberleffo atroce sul nostro pianto a lasciarla andare. Capii allora il perché dell’ostinato silenzio di nostro nonno. Era il suo modo di dirmi “non posso farci niente, questa volta non posso aiutarvi”.

Anche Teresa, la vedova di Filippo, procugino di mamma e “figlio acquisito” del nonno, quella notte aveva sognato suo marito che le diceva che era passato a salutarla perché era venuto a prendere comare Melina, la sorella che non aveva mai avuto e che aveva tanto amato. Per portarla in Cielo dove c’erano tutti gli altri e da tutti gli altri in attesa di riabbracciarla. Si affrettò a raccontarcelo tra le lacrime mentre stava lì con noi a darle l’ultimo bacio. E finalmente la sentimmo al sicuro tra le   Braccia amorevoli del Signore.   

E solo dopo, solo dopo ho capito molte più cose di lei. Della sua sofferenza silenziosa. Solo dopo ho sgranato i miei tanti rosari dei comportamenti sbagliati con lei, anche con lei. I lunghi silenzi. I rarissimi incontri. La solitudine dolente che le procuravo: - ti ho persa vivente… non ti preoccupare fai le cose che devi fare… vieni quando puoi venire… chissà se ti rivedo ancora… -

Ed ora che mi manca come il respiro, lei non c’è nella sua casa per andarla a cercare e coccolarla con tutte le confidenze mai più sussurrate, con i baci mai più dati, con le carezze che avrei voluto depositare sulle sue guance di pesca chiara. Mi conforta a malapena il ricordo dei nostri rari incontri nella sua casa e del mio prenderle la mano per coprirla di teneri tocchi leggeri con le labbra e i suoi occhi si slargavano di luminosa accoglienza in uno sguardo di illimitato perdono…

E oggi, martedì, è di nuovo 1° aprile. Non so se i ragazzi di oggi festeggiano il “pesce d’aprile” con scherzi e risate, come un tempo. So che quella notte tra il 31 marzo e il 1° aprile, lei era preoccupata per me, temeva che litigassi con Primo perché ero rimasta da lei, si agitava, mi costrinse ad andare. La lasciai, mio malgrado. Anche gli altri andarono un po’ a riposare. Con lei rimase, se non ricordo male, coraggiosamente e amorevolmente nostra nipote Isabella, la figlia maggiore di Nicola e Anna Maria, e fu tra le sue braccia che spirò.

E io sono qui a tentare di ricordare ogni attimo che mi riporta a lei, al suo AMORE incondizionato. E ancora una volta le dedico una poesia. Non so fare altro. Non posso fare altro: È un’agonia di ore il pendolo/ che mi separa da domani/ oltre un passare di anni senza tregua/ nella nostalgia di te che sei mio pane/ quotidiano e mio quotidiano rimpianto./ Domani è stato il primo giorno/ del tuo spegnerti al nostro sorriso/ per accendere un’altra stella nelle sere/ del nostro cercare una luce almeno,/ tra tanto pianto che mai ci abbandona./ E tu vieni a consolarci come un tempo/ con le tue mani di tenerezza e perdono/ per le nostre assenze sempre presenze/ nel tuo cuore/ INFINITO / come l’universo che attraversi con noi/ che ti abitiamo nel cuore come Tu/ abiti nel nostro, osmosi eterna/ giardino fiorito oltre la pioggia/ che non cancella primavera, ma sempre/ la precede e l’attende./ Noi attendiamo domani per dirti/ in silenzio che mai sei andata via,/ anche se il primo aprile ogni anno/ ritorna, ma porta con sé il tuo profumo,/ il tuo mai spento sorriso, la tua eterna/ giovinezza che sa di Primavera il canto.

TU ancora e sempre con noi!

A presto per ritrovarci come sempre. Angela/lina