mercoledì 28 febbraio 2024

Mercoledì 28 febbraio 2024: Ma siamo sicuri che le SINTONIE siano più efficaci delle DISTONIE?...

Qualche puntata fa ho parlato della necessità di avere delle affinità e di vibrare in sintonia per potersi incontrare sullo stesso orizzonte e saperlo apprezzare allo stesso modo e goderne insieme. Ricordate Carducci e il povero “asin bigio” di infelice memoria? Ebbene, oggi vi voglio sorprendere con una domanda che scompaginerà qualche nostra certezza per gettarci in salutari dubbi. Già, perché le certezze sono i sonniferi della mente e del cuore, non ci fanno progredire, non ci spingono a cercare qualcosa di diverso, di migliore o peggiore non ha importanza, l’importante è cercare qualcosa di nuovo e di diverso che ci spinga a nuove riflessioni a nuove indagini e scoperte. I dubbi possiedono la magia di sorprenderci per non accontentarci mai di quanto scoperto e per provare a guardare dietro l’angolo. E dietro l’angolo potremmo scoprire qualcosa in grado ancora di stupirci e di farci porre ulteriori domande, così all’infinito. L’infinito nelle nostre tasche, dunque? Macché! Continueremo a rivoltare le nostre tasche per trovare sempre il calzino sparigliato che senza farci troppo caso abbiamo conservato nel luogo più a portata di mano.

E oggi voglio provare con voi a cercare i calzini sparigliati nelle mie tasche per andare in un altrove, più in là, dove ancora c’è qualcosa da scoprire. Per sorprenderci insieme. Ma siamo proprio sicuri che affinità e sintonie siano più importanti delle distonie? Se rispondessimo che sarebbe possibile non rischieremmo di entrare in contraddizione con quanto affermato prima? Ma non abbiamo parlato che la contraddizione è aspetto fondamentale nella nostra vita e che supera persino il “principio di non contraddizione” di aristotelica memoria? Simone Weil afferma appunto che “ogni realtà o verità include una contraddizione” ed è quest’ultima che ci permette di conoscere. Ricordate? Non possiamo distinguere il giorno se non entriamo nella notte, e così via.

E allora cerchiamo di raccapezzarci, capovolgendo il nostro punto di vista e riproponendo all’incontrario quanto affermato qualche puntata fa. Questa volta parliamo della bontà della “distonia” che ci permetterebbe di avvalerci di una iniziale sconfitta per risalire la china. La distonia iniziale con le persone (in famiglia, nella scuola, nella comunità in cui si nasce o si vive, in un primo incontro con qualcuno che ci entra nel cuore o con gli altri), potrebbe stimolare una salutare rivalsa per una eventuale trasformazione, un cambiamento, un andare oltre. Il condizionale è d’obbligo quando si esprimono convincimenti personali. Gli esempi potrebbero essere tanti, legati anche a grandi autori della Letteratura italiana e mondiale, oppure alle nostre quotidiane esperienze.

Esperienze della realtà, filtrate, comunque, attraverso la personale sensibilità creativa, colma di tutti i sensi e di tutti i significati possibili. “Asymptoton” - per i greci - era “il punto che non coincide”, la distonia, appunto, vissuta come divergenza, diversità, universo fantastico in cui la mente umana si perde con le sue approssimazioni infinite, con le sue interpretazioni insicure, incerte, ambigue, con i suoi chiaroscuri sfumati e nebbiosi. L’ispirazione, allora, si fa luce e coscienza del mondo, filtro con il quale l’anima colora il suo sguardo sull’universo. Si parte da una visione particolare che procura emozione, fa vibrare corpo e anima come “le corde di un’arpa” (don Giuseppe Colombero). È il caleidoscopio della nostra fantasia che si mette in movimento. Bastano pochi elementi reali, filtrati dalla emotività fantasiosa e immaginativa di chi li guarda perché si trasformino in magia in quanto attraversati da una luce nuova, enigmatica, inconscia, misteriosa. Altre infinite realtà si propongono nella loro “imprendibilità” e “intoccabilità”, attraverso luoghi sconosciuti, chiari solo a chi ha un’indole artistica. Non a caso, la persona creativa scopre sempre “il volto doppio delle cose” (Giuseppe Lasala) o “il sublime possibile” (Leopardi), la meravigliosa/dolorosa contraddizione della vita, perché una cosa è quella cosa, ma può essere un’altra e un’altra ancora… Purché ci sia l’illuminazione. E LUCE fu! (Si pensi ai poeti e ai pittori della luce, senza dimenticare architetti, scultori, registi…).

La luce come esplosione di stelle. La luce come colore, calore, amore, vita. Di qui la necessità di praticare la “disgiunzione come salvezza della nostra vocazione perché diventa l’unica “congiunzione” possibile con il mondo indefinito e mai allineato con la realtà di tutti i giorni. Di qui “l’intelligenza infinita e insicura del mondo”, con l’unica certezza possibile del non “adempimento” (ancora Giuseppe Lasala).

Circa trent’anni fa Diego Dalla Palma, stilista e scrittore di fama internazionale, mi parlò dell’importanza della iniziale distonia per scoprire, nel tempo, la “luccicanza” che spinge “ogni vero Artista a prenderne coscienza e a realizzarla incamminandosi dal buio alla luce, dalla invisibilità degli oggetti alla loro visibilità molteplice e rinnovabile, dalla indecidibilità alla decidibilità delle situazioni e atmosfere, dall’inaspettato all’attesa dell’‘accadimento’, dalla impalpabilità alla palpabilità dei sentimenti. Epopea di epiche speranze di terre e di universi perché contiene in sé tutti gli elementi vitali e propulsivi dell’umana esperienza. Di volti di uomini GRANDI incisi nella Storia. Fulgidi esempi di rinascita continua nella riproposizione di nuovi domani”.

Vi riporto quanto Diego Dalla Palma mi scrisse allora su una mia agendina che conservo gelosamente perché mi dette la spinta a prendere consapevolezza sempre più della mia “ri-nascita” come scrittrice e poetessa dopo una iniziale “dolorosa sconfitta” in prima elementare per la “distonia” totale con mio padre e con la maestra. Storia che ora vado a raccontarvi:

<Babbo non poteva più tollerare che io non andassi a scuola a oltre sei anni. Questa decisione vi sorprese e vi addolorò, ne sono certa, profondamente. Ma babbo aveva già fatto l'iscrizione per me in prima elementare e per Lizia in terza perché anticipataria.

                Ti lasciai. Col pianto in gola. Ci separarono. Ci separammo.

E andai via con mamma e babbo e Lizia e i due piccolini: Anna Maria e Pino.

‘Lasciai la vostra tristezza e il vostro pianto soffocato, cancellato soltanto dalla gioia di viaggiare in un treno lungo lungo che mi avrebbe fatto guardare il mare, percorrere la pianura con alberi d'autunno, scoprire le montagne   

(passa il treno lungo lungo/ per le vie della città,/ lo vedete, lo sentite,/ avanti, signori, per Roma si va.../ ciuciùuuuu...)

Non eravamo diretti a Roma, ma in un paesino di montagna nel cuore del Gargano, dove a ottobre faceva già freddo. Dove soffiava sempre un brutto vento di tramontana e dove le maestre ci suggerivano di mettere le pietre in tasca per diventare più pesanti e di afferrarci alle funi che c'erano lungo i bordi delle strade perpendicolari come burroni, per evitare che il vento ci afferrasse e ci portasse via nei suoi vortici pericolosi.

Io avevo paura dei mille lupi che in quel vento ululavano soprattutto di notte, ma desideravo che almeno una volta mi rapissero per farmi volare, un po' come facevi tu quando ci sollevavi fino al soffitto per le capriole.

(Conflitti insanabili di opposti desideri e pensieri, sempre presenti in me e probabilmente presenti in tutti gli esseri umani. Perché io dovrei essere diversa, sia pure nella mia scontata unicità?).

Il paesino s’inerpicava lungo il fianco della montagna fino alla cima, tanto che persino la corriera che vi arrivava e ripartiva due volte al giorno da Foggia e per Foggia (alle 9 del mattino e alle 4 del pomeriggio in arrivo e a mezzogiorno e alle 9 di sera di ritorno) ansimava come una vecchia signora alle prese con mille acciacchi mentre arrancava su quelle strade simili a baionette puntate contro il cielo.

La scuola, molto grande e circondata da alberi e siepi, era a pochi passi dalla piazza della caserma, dove noi abitavamo in un “alloggio” che aveva ampie stanze e lunghi corridoi e ballatoi luminosi, con finestre e balconi   sulla strada principale che portava al corso giù in paese… (…).

Io, in verità, avevo finito la prima elementare e non avevo imparato niente.

Mi sembrava di non capire nulla. A stento, verso la fine dell’anno, avevo imparato a leggere e scrivere e a contare fino a cento.

La signora De Benedictis era stata in precedenza la maestra di Lizia. E non ricordo assolutamente come mai fosse diventata poi anche la mia maestra.

Risalendo al suo cognome, m’ero fatta l’idea che fosse straniera oppure vecchissima tanto da avere un cognome latino, lingua di Dio, come mi aveva detto più volte don Mincucciouno, e degli antichi romani, come un giorno mi aveva mostrato Lizia sul suo libro di storia. Su quel cognome e sul suo aspetto fisico ricamai una serie di storie, dalle più divertenti alle più cupe, che non mi permisero mai di valutarla come insegnante.

Era alta, magra, rossa di capelli (con una pettinatura alta che mi ricordava davvero le matrone romane e ancora di più mi faceva sospettare che fosse millenaria); spigolosa di viso e con un lungo naso rosso fuoco.

Era di volta in volta pomodoro, fragola, quattro ciliegie (raggruppate in un unico gambo), un peperone o un pomo (come quello della tua fiaba Del Pomo e della Scorza). E anche su quel particolare, per niente irrilevante, inventavo storie incredibili e inverosimili. Che mi distoglievano dall’ascoltarla. In realtà, era paziente, distratta, ripetitiva. Io le ero anche affezionata ma non troppo

(a di amo a a a… bi di bue bi bi bi… ci di ciliegia ci ci ci ma anche ca di cane…).

Con la bacchetta indicava sulle immagini del vecchio alfabetiere, che aveva conosciuto generazioni di scolari, l’amo, il bue, la ciliegia, il cane.

E… “bambini ripetete con me”.

Io non ripetevo. Pensavo che erano più divertenti le cose, gli indovinelli, che avevo imparato all’asilo con suor Agnese e suor Crocifissa

(trenta giorni ha novembre/ con april giugno e settembre/ di ventotto ce n’è uno/ tutti gli altri ne han trentuno… lunedì vien pianino/ martedì gli fa l’occhiolino/ viene in fretta il mercoledì/ e si mangia il giovedì/ venerdì piange di tristezza/ e sabato gli fa una carezza/ poi ecco la domenica che a casa resta:/ tutti a tavola a fargli una grande festa… son piccino cornuto e bruno/ me ne sto tra l’erbe e i fior… sto sempre saldo e ritto/ su una gamba sola,/ proteggo zitto zitto/ il nido che consola/ il mio silenzio pio./ D’inverno spoglio sono/ eppure a tutti dono/ il caldo focherello./ Chi sa l’indovinello?)

Sapevo subito rispondere: il mese! la settimana! il grillo! l’albero!

Ora, invece, quella cantilena di “a bi ci” mi annoiava e tutte quelle parole dell’alfabeto le tenevo per me. Lei mi guardava. Io restavo muta.

Mi costringeva a scrivere con la destra, ma a me risultava più facile usare la sinistra. E sempre in silenzio, con enorme difficoltà e fatica, che le mie compagne di classe non provavano, mi esercitavo a scrivere le aste, le letterine dell’alfabeto e le prime sillabe che poi dovevo unire in paroline, col trattino tra una sillaba e l’altra, per poterle leggere nel loro intero. Ma non le leggevo. Mi sentivo diversa dagli altri bambini e mi vergognavo. Il pennino non obbediva al debole comando della mano. Il polso s’irrigidiva, cercava di convincermi:

“passa la penna all’altra mano, là sta mio fratello che è più forte e ti può aiutare. Ascoltami, non dar retta a quella che non capisce niente. L’altra mano sa già scrivere. Perché si ostinano a farti scrivere con la mano sbagliata?”.

Spesso mi scontravo con asticciola pennino e calamaio, col quaderno con copertina nera e pagine bianche orlate di rosso e righe grandi e spazi piccoli che non sapevo riempire: senza sapere né come né perché, l’inchiostro dispettoso s’intestardiva a finire su quei fogli prima delle aste e delle vocali o consonanti e dei trattini e subito si allargava in macchie che diventavano buchi lacerati dal mio dito insalivato a cancellarle e giù lacrime e disperazione che in quei buchi penetravano e tentavano maldestramente di nascondersi… Se avessi potuto, avrei rinunciato volentieri a scrivere e a leggere. Ma la maestra mi fissava mi fissava mi fissava…

                       Mi rimproverava mi rimproverava mi rimproverava…

‘Tutta colpa della mia mano sinistra?’. Non mi sapevo rispondere.

Anche a casa ero costretta da mamma e babbo ad usare la destra, soprattutto a tavola, quando vedevo i loro occhi severi seguire i miei movimenti impacciati nell’usare le posate, il bicchiere e persino il pane da portare alla bocca. Li guardavo in silenzio e sempre in silenzio sentivo il solito polso che mi faceva lo stesso discorso, invogliandomi ad usare le posate con la mano giusta anche se per gli altri era quella sbagliata. Io mi attardavo ad ascoltare quella vocina e, con le labbra semiaperte e gli occhi persi nei pensieri e aria niente affatto intelligente (come oggi ricostruisco nella mente), perdevo tempo e voglia di mangiare. E leggevo (oh, come mi riusciva facile leggere!) negli occhi grandi e severi di babbo il pensiero ricorrente ‘ho una figlia che non è tanto normale’. E non aveva tutti i torti. E io sentivo la mia testa imbrogliata di nuvole mosche letterine cicale buchi. Sì, la sentivo. Quando vivevo con te, era la nonna a rimproverarmi perché non dovevo usare la “mano del demonio” ma quella di Gesù, ed io mi chiedevo come mai la mano destra apparteneva a Gesù mentre quella sinistra al diavolo, visto che era stato Dio a crearci dalla testa ai piedi. E anche con voi perdevo tempo a pensare e non riuscivo a farmene una ragione. Come non mi facevo una ragione che fosse capitato proprio a me di usare meglio la mano del diavolo. ‘Perché?’, mi chiedevo. Ma non c’era verso che imparassi a fare le cose con la mano giusta. Facevo tutto con maggiore rapidità ed efficienza con quella sbagliata.

‘Sono io tutta sbagliata?’, mi tormentavo ad ogni rimprovero.

Sta di fatto che quel dubbio non mi aiutò molto, soprattutto a scuola. Imparare a scrivere, e imparare in genere, per me divenne un incubo.

(Oggi scrivo e mangio con la destra, ma lascio il monopolio alla sinistra per tutto il resto. Sono in pratica una mancina contrastata, come era normale ai tempi della mia infanzia. Oggi per fortuna le cose sono cambiate!). 

A scuola, perciò, non mi sentivo a mio agio. Mi astenevo dal fare domande alla maestra per evitare che concentrasse la sua attenzione su di me e anche perché temevo che non volesse o non sapesse rispondermi. Quando mi azzardavo a chiederle di ripetere perché non tutto mi era chiaro, lei mi guardava inebetita, quasi parlassi un’altra lingua, quasi le chiedessi qualcosa che non stava né in cielo né in terra e io mi vergognavo per non essere riuscita a spiegarmi bene, a farmi capire. Eppure, dentro di me, ero certa di avere parole bellissime e luminose. Collane di parole colorate e leggere che mi sembravano di cristallo, d’argento e di oro; azzurre come l’acquamarina degli orecchini e dell’anello di mamma, dono di nozze della sua nonna. Le mie parole erano per me verdi smeraldi e rossi rubini, tutte le pietre preziose che avevo visto brillare sui gioielli antichi di nonna Angelina, che li conservava in un enorme fazzoletto color ocra, chiuso nel comò (non esistevano allora le casseforti nelle banche) e che tirava fuori per matrimoni e feste importanti e sistematicamente perdeva. Anche mamma perdeva spesso bracciali e collane di oro. E anch’io ho ereditato questa antica iattura. Non ricordo più quanti monili di nonna, di mamma e miei io abbia perduto nel tempo. Quanti passi a gambero lungo le strade percorse in precedenza per un improbabile recupero, reso impossibile dallo scoramento dovuto ai risultati sempre negativi. Dapprima mi disperavo, poi imparai a trattenere le lacrime e a evitare recriminazioni e rimpianti

(pərdémə rə crəstiànə…) (perdiamo le persone)

la tua giusta filosofia nel dare importanza a ciò che realmente era importante.

E, come i gioielli da adulta, così da bambina perdevo tutte le mie preziose e luminose parole! Pomodororossofuoco non le capiva. Ed io, in quel primo anno di scuola, avevo avuto sempre paura di pronunciarle con lei e con gli altri. Le avevo chiare nella mente ma le perdevo prima che si facessero parola, suono, voce. Anche le compagne di classe parlavano una lingua a me sconosciuta, il loro dialetto, e spesso le sentivo ridere per frasi un tantino maliziose che riguardavano il sesso, i baci e gli abbracci fra innamorati, le parti più nascoste del loro corpo… (…).

Non ero riuscita ad entrare nelle loro confidenze. Mi sembravano sconcezze che mi lasciavano dubbi e curiosità e che mi portavo dentro come un fardello pesante, di cui non ero riuscita a liberarmi e di cui non riuscivo a parlare con nessuno. Neppure con mamma.

A fine anno, in prima elementare, proiettarono nell’androne della scuola il film “Il mago di Oz” ed io non ci capii assolutamente niente e ciò mi prostrò molto. Quella sera, chiusa in un silenzio di buia tristezza, mi feci mille domande, come mai mi era capitato prima:

‘Perché non capisco e non so farmi capire? Perché non imparo? Perché la scuola non mi piace? Perché perdo le parole? Dove vanno a finire le parole? Chi le raccoglie o dove si nascondono quelle che perdo io? Perché non so più capire neppure le fiabe che con papà capivo? Perché non me le racconta più nessuno? (…).

Questi i miei pensieri di tristezza, dopo quel primo anno di incomprensioni, frustrazioni, delusioni. E nessuno a sentirli i miei pensieri. Nessuno ad ascoltarli. Nessuno a farmi compagnia. (…).

Quella notte, stretta nel buio che mi avvolgeva e mi soffocava, sentii tra le mani il caldo umido della pioggia torrenziale delle mie lacrime.

         O memoria, la terra è il tuo ritorno

         negli occhi, le magnolie

         in un torno di gridi dai cortili

         traboccano, sui lividi ginocchi

         spunta l’età più grande come un’alba

             (Piero Bigongiari, “Vetrata”,

                  da Autoritratto poetico)>

(da Le piogge e i ciliegi, vol.II, op. cit)

 

E domani continuo perché desidero parlarvi di come io sia giunta dalle avvilenti “distonie” alle più confortanti “sintonie”. Per dare man forte al mio discorso tutto “a rovescio” (ma non troppo) di oggi! Angela

  

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