Qualche puntata fa ho parlato della necessità di avere delle affinità e di vibrare in sintonia per potersi incontrare sullo stesso orizzonte e saperlo apprezzare allo stesso modo e goderne insieme. Ricordate Carducci e il povero “asin bigio” di infelice memoria? Ebbene, oggi vi voglio sorprendere con una domanda che scompaginerà qualche nostra certezza per gettarci in salutari dubbi. Già, perché le certezze sono i sonniferi della mente e del cuore, non ci fanno progredire, non ci spingono a cercare qualcosa di diverso, di migliore o peggiore non ha importanza, l’importante è cercare qualcosa di nuovo e di diverso che ci spinga a nuove riflessioni a nuove indagini e scoperte. I dubbi possiedono la magia di sorprenderci per non accontentarci mai di quanto scoperto e per provare a guardare dietro l’angolo. E dietro l’angolo potremmo scoprire qualcosa in grado ancora di stupirci e di farci porre ulteriori domande, così all’infinito. L’infinito nelle nostre tasche, dunque? Macché! Continueremo a rivoltare le nostre tasche per trovare sempre il calzino sparigliato che senza farci troppo caso abbiamo conservato nel luogo più a portata di mano.
E oggi voglio provare
con voi a cercare i calzini sparigliati nelle mie tasche per andare in un altrove,
più in là, dove ancora c’è qualcosa da scoprire. Per sorprenderci insieme. Ma
siamo proprio sicuri che affinità e
sintonie siano più importanti delle distonie?
Se rispondessimo che sarebbe possibile non rischieremmo di entrare in
contraddizione con quanto affermato prima? Ma non abbiamo parlato che la
contraddizione è aspetto fondamentale nella nostra vita e che supera persino il
“principio di non contraddizione” di aristotelica memoria? Simone Weil afferma appunto che “ogni realtà o verità include una
contraddizione” ed è quest’ultima che ci permette di conoscere. Ricordate? Non possiamo
distinguere il giorno se non entriamo nella notte, e così via.
E allora cerchiamo di
raccapezzarci, capovolgendo il nostro punto di vista e riproponendo all’incontrario
quanto affermato qualche puntata fa. Questa volta parliamo della bontà della “distonia”
che ci permetterebbe di avvalerci di una iniziale sconfitta per risalire la
china. La distonia iniziale con le persone (in famiglia, nella scuola, nella
comunità in cui si nasce o si vive, in un primo incontro con qualcuno che ci
entra nel cuore o con gli altri), potrebbe stimolare una salutare rivalsa per
una eventuale trasformazione, un cambiamento, un andare oltre. Il condizionale
è d’obbligo quando si esprimono convincimenti personali. Gli esempi potrebbero
essere tanti, legati anche a grandi autori della Letteratura italiana e
mondiale, oppure alle nostre quotidiane esperienze.
Esperienze della realtà, filtrate,
comunque, attraverso la personale sensibilità creativa, colma di tutti i sensi
e di tutti i significati possibili. “Asymptoton”
- per i greci - era “il punto che non
coincide”, la distonia, appunto,
vissuta come divergenza, diversità, universo fantastico in cui
la mente umana si perde con le sue approssimazioni
infinite, con le sue interpretazioni
insicure, incerte, ambigue, con i suoi chiaroscuri
sfumati e nebbiosi. L’ispirazione,
allora, si fa luce e coscienza del mondo, filtro con il quale l’anima colora il
suo sguardo sull’universo. Si parte da una visione particolare che procura
emozione, fa vibrare corpo e anima come “le corde di un’arpa” (don Giuseppe
Colombero). È il caleidoscopio della
nostra fantasia che si mette in movimento. Bastano pochi elementi reali,
filtrati dalla emotività fantasiosa e immaginativa di chi li guarda perché si
trasformino in magia in quanto
attraversati da una luce nuova, enigmatica, inconscia, misteriosa. Altre
infinite realtà si propongono nella loro “imprendibilità”
e “intoccabilità”, attraverso luoghi
sconosciuti, chiari solo a chi ha un’indole artistica. Non a caso, la persona
creativa scopre sempre “il volto doppio
delle cose” (Giuseppe Lasala) o “il
sublime possibile” (Leopardi), la meravigliosa/dolorosa
contraddizione della vita, perché una cosa è quella cosa, ma può essere
un’altra e un’altra ancora… Purché ci sia l’illuminazione. E LUCE
fu! (Si pensi ai poeti e ai pittori della luce, senza dimenticare architetti, scultori,
registi…).
La luce come esplosione di stelle. La
luce come colore, calore, amore, vita. Di qui la necessità di praticare la “disgiunzione come salvezza della nostra
vocazione perché diventa l’unica
“congiunzione” possibile con il mondo indefinito e mai allineato con la realtà
di tutti i giorni. Di qui “l’intelligenza
infinita e insicura del mondo”, con l’unica certezza possibile del non
“adempimento” (ancora Giuseppe Lasala).
Circa trent’anni fa Diego Dalla Palma, stilista
e scrittore di fama internazionale, mi parlò dell’importanza della iniziale distonia per scoprire, nel tempo, la “luccicanza” che spinge “ogni vero Artista a prenderne coscienza e a realizzarla
incamminandosi dal buio alla
luce, dalla invisibilità degli oggetti alla loro visibilità molteplice e
rinnovabile, dalla indecidibilità alla decidibilità delle situazioni e
atmosfere, dall’inaspettato all’attesa dell’‘accadimento’, dalla impalpabilità alla palpabilità
dei sentimenti. Epopea di epiche speranze di terre e di universi perché
contiene in sé tutti gli elementi vitali e propulsivi dell’umana esperienza. Di
volti di uomini GRANDI incisi nella Storia. Fulgidi esempi di rinascita
continua nella riproposizione di nuovi domani”.
Vi riporto quanto Diego Dalla Palma mi
scrisse allora su una mia agendina che conservo gelosamente perché mi dette la
spinta a prendere consapevolezza sempre più della mia “ri-nascita” come
scrittrice e poetessa dopo una iniziale “dolorosa sconfitta” in prima
elementare per la “distonia” totale con mio padre e con la maestra. Storia che ora
vado a raccontarvi:
<Babbo non poteva più tollerare che io non andassi a scuola a oltre sei anni. Questa decisione vi sorprese e vi addolorò, ne sono certa, profondamente. Ma babbo aveva già fatto l'iscrizione per me in prima elementare e per Lizia in terza perché anticipataria.
Ti lasciai. Col pianto in gola.
Ci separarono. Ci separammo.
E
andai via con mamma e babbo e Lizia e i due piccolini: Anna Maria e Pino.
‘Lasciai
la vostra tristezza e il vostro pianto soffocato, cancellato soltanto dalla
gioia di viaggiare in un treno lungo lungo che mi avrebbe fatto guardare il
mare, percorrere la pianura con alberi d'autunno, scoprire le montagne
(passa
il treno lungo lungo/ per le vie della città,/ lo vedete, lo sentite,/ avanti,
signori, per Roma si va.../ ciuciùuuuu...)
Non
eravamo diretti a Roma, ma in un paesino di montagna nel cuore del Gargano,
dove a ottobre faceva già freddo. Dove soffiava sempre un brutto vento di
tramontana e dove le maestre ci suggerivano di mettere le pietre in tasca per
diventare più pesanti e di afferrarci alle funi che c'erano lungo i bordi delle
strade perpendicolari come burroni, per evitare che il vento ci afferrasse e ci
portasse via nei suoi vortici pericolosi.
Io
avevo paura dei mille lupi che in quel vento ululavano soprattutto di notte, ma
desideravo che almeno una volta mi rapissero per farmi volare, un po' come
facevi tu quando ci sollevavi fino al soffitto per le capriole.
(Conflitti
insanabili di opposti desideri e pensieri, sempre presenti in me e
probabilmente presenti in tutti gli esseri umani. Perché io dovrei essere
diversa, sia pure nella mia scontata unicità?).
Il
paesino s’inerpicava lungo il fianco della montagna fino alla cima, tanto che
persino la corriera che vi arrivava e ripartiva due volte al giorno da Foggia e
per Foggia (alle 9 del mattino e alle 4 del pomeriggio in arrivo e a
mezzogiorno e alle 9 di sera di ritorno) ansimava come una vecchia signora alle
prese con mille acciacchi mentre arrancava su quelle strade simili a baionette
puntate contro il cielo.
La
scuola, molto grande e circondata da alberi e siepi, era a pochi passi dalla
piazza della caserma, dove noi abitavamo in un “alloggio” che aveva ampie stanze
e lunghi corridoi e ballatoi luminosi, con finestre e balconi sulla strada principale che portava al corso
giù in paese… (…).
Io, in verità, avevo
finito la prima elementare e non avevo imparato niente.
Mi sembrava di non capire
nulla. A stento, verso la fine dell’anno, avevo imparato a leggere e scrivere e
a contare fino a cento.
La signora De Benedictis
era stata in precedenza la maestra di Lizia. E non ricordo assolutamente come
mai fosse diventata poi anche la mia maestra.
Risalendo al suo cognome,
m’ero fatta l’idea che fosse straniera oppure vecchissima tanto da avere un
cognome latino, lingua di Dio, come mi aveva detto più volte don Mincucciouno,
e degli antichi romani, come un giorno mi aveva mostrato Lizia sul suo libro di
storia. Su quel cognome e sul suo aspetto fisico ricamai una serie di storie,
dalle più divertenti alle più cupe, che non mi permisero mai di valutarla come
insegnante.
Era alta, magra, rossa di
capelli (con una pettinatura alta che mi ricordava davvero le matrone romane e
ancora di più mi faceva sospettare che fosse millenaria); spigolosa di viso e
con un lungo naso rosso fuoco.
Era di volta in volta
pomodoro, fragola, quattro ciliegie (raggruppate in un unico gambo), un
peperone o un pomo (come quello della tua fiaba Del Pomo e della Scorza).
E anche su quel particolare, per niente irrilevante, inventavo storie
incredibili e inverosimili. Che mi distoglievano dall’ascoltarla. In realtà,
era paziente, distratta, ripetitiva. Io le ero anche affezionata ma non troppo
(a di amo a a a… bi di
bue bi bi bi… ci di ciliegia ci ci ci ma anche ca di cane…).
Con la bacchetta indicava
sulle immagini del vecchio alfabetiere, che aveva conosciuto generazioni di
scolari, l’amo, il bue, la ciliegia, il cane.
E… “bambini ripetete con
me”.
Io non ripetevo. Pensavo
che erano più divertenti le cose, gli indovinelli, che avevo imparato all’asilo
con suor Agnese e suor Crocifissa
(trenta giorni ha
novembre/ con april giugno e settembre/ di ventotto ce n’è uno/ tutti gli altri
ne han trentuno… lunedì vien pianino/ martedì gli fa l’occhiolino/ viene in
fretta il mercoledì/ e si mangia il giovedì/ venerdì piange di tristezza/ e
sabato gli fa una carezza/ poi ecco la domenica che a casa resta:/ tutti a
tavola a fargli una grande festa… son piccino cornuto e bruno/ me ne sto tra
l’erbe e i fior… sto sempre saldo e ritto/ su una gamba sola,/ proteggo zitto
zitto/ il nido che consola/ il mio silenzio pio./ D’inverno spoglio sono/
eppure a tutti dono/ il caldo focherello./ Chi sa l’indovinello?)
Sapevo subito
rispondere: il mese! la settimana! il grillo! l’albero!
Ora, invece,
quella cantilena di “a bi ci” mi annoiava e tutte quelle parole dell’alfabeto
le tenevo per me. Lei mi guardava. Io restavo muta.
Mi costringeva a scrivere
con la destra, ma a me risultava più facile usare la sinistra. E sempre in
silenzio, con enorme difficoltà e fatica, che le mie compagne di classe non
provavano, mi esercitavo a scrivere le aste, le letterine dell’alfabeto e le
prime sillabe che poi dovevo unire in paroline, col trattino tra una sillaba e
l’altra, per poterle leggere nel loro intero. Ma non le leggevo. Mi sentivo
diversa dagli altri bambini e mi vergognavo. Il pennino non obbediva al debole
comando della mano. Il polso s’irrigidiva, cercava di convincermi:
“passa la penna all’altra
mano, là sta mio fratello che è più forte e ti può aiutare. Ascoltami, non dar
retta a quella che non capisce niente. L’altra mano sa già scrivere. Perché si
ostinano a farti scrivere con la mano sbagliata?”.
Spesso mi scontravo con
asticciola pennino e calamaio, col quaderno con copertina nera e pagine bianche
orlate di rosso e righe grandi e spazi piccoli che non sapevo riempire: senza
sapere né come né perché, l’inchiostro dispettoso s’intestardiva a finire su
quei fogli prima delle aste e delle vocali o consonanti e dei trattini e subito
si allargava in macchie che diventavano buchi lacerati dal mio dito insalivato
a cancellarle e giù lacrime e disperazione che in quei buchi penetravano e
tentavano maldestramente di nascondersi… Se avessi potuto, avrei rinunciato
volentieri a scrivere e a leggere. Ma la maestra mi fissava mi fissava mi
fissava…
Mi rimproverava mi
rimproverava mi rimproverava…
‘Tutta colpa della mia
mano sinistra?’. Non mi sapevo rispondere.
Anche a casa ero costretta da mamma e babbo ad
usare la destra, soprattutto a tavola, quando vedevo i loro occhi severi
seguire i miei movimenti impacciati nell’usare le posate, il bicchiere e
persino il pane da portare alla bocca. Li guardavo
in silenzio e sempre in silenzio sentivo il solito polso che mi faceva lo
stesso discorso, invogliandomi ad usare le posate con la mano giusta anche se
per gli altri era quella sbagliata. Io mi attardavo ad ascoltare quella vocina
e, con le labbra semiaperte e gli occhi persi nei pensieri e aria niente
affatto intelligente (come oggi ricostruisco nella mente), perdevo tempo e
voglia di mangiare. E leggevo (oh, come mi riusciva facile leggere!) negli
occhi grandi e severi di babbo il pensiero ricorrente ‘ho una figlia che non è
tanto normale’. E non aveva tutti i torti. E io sentivo la mia testa
imbrogliata di nuvole mosche letterine cicale buchi. Sì, la sentivo. Quando vivevo con
te, era la nonna a rimproverarmi perché non dovevo usare la “mano del demonio”
ma quella di Gesù, ed io mi chiedevo come mai la mano destra apparteneva a Gesù
mentre quella sinistra al diavolo, visto che era stato Dio a crearci dalla
testa ai piedi. E anche con voi perdevo tempo a pensare e non riuscivo a
farmene una ragione. Come non mi facevo una ragione che fosse capitato proprio
a me di usare meglio la mano del diavolo. ‘Perché?’, mi chiedevo. Ma non c’era
verso che imparassi a fare le cose con la mano giusta. Facevo tutto con
maggiore rapidità ed efficienza con quella sbagliata.
‘Sono io tutta
sbagliata?’, mi tormentavo ad ogni rimprovero.
Sta di fatto che quel
dubbio non mi aiutò molto, soprattutto a scuola. Imparare a scrivere, e
imparare in genere, per me divenne un incubo.
(Oggi scrivo e mangio con
la destra, ma lascio il monopolio alla sinistra per tutto il resto. Sono in
pratica una mancina contrastata, come era normale ai tempi della mia infanzia.
Oggi per fortuna le cose sono cambiate!).
A scuola, perciò, non mi
sentivo a mio agio. Mi astenevo dal fare domande alla maestra per evitare che
concentrasse la sua attenzione su di me e anche perché temevo che non volesse o
non sapesse rispondermi. Quando mi azzardavo a chiederle di ripetere perché non
tutto mi era chiaro, lei mi guardava inebetita, quasi parlassi un’altra lingua,
quasi le chiedessi qualcosa che non stava né in cielo né in terra e io mi
vergognavo per non essere riuscita a spiegarmi bene, a farmi capire. Eppure,
dentro di me, ero certa di avere parole bellissime e luminose. Collane di
parole colorate e leggere che mi sembravano di cristallo, d’argento e di oro;
azzurre come l’acquamarina degli orecchini e dell’anello di mamma, dono di
nozze della sua nonna. Le mie parole erano per me verdi smeraldi e rossi
rubini, tutte le pietre preziose che avevo visto brillare sui gioielli antichi
di nonna Angelina, che li conservava in un enorme fazzoletto color ocra, chiuso
nel comò (non esistevano allora le casseforti nelle banche) e che tirava
fuori per matrimoni e feste importanti e sistematicamente perdeva. Anche mamma
perdeva spesso bracciali e collane di oro. E anch’io ho ereditato questa antica
iattura. Non ricordo più quanti monili di nonna, di mamma e miei io abbia
perduto nel tempo. Quanti passi a gambero lungo le strade percorse in
precedenza per un improbabile recupero, reso impossibile dallo scoramento
dovuto ai risultati sempre negativi. Dapprima mi disperavo, poi imparai a
trattenere le lacrime e a evitare recriminazioni e rimpianti
(pərdémə rə crəstiànə…) (perdiamo le persone…)
la tua giusta filosofia
nel dare importanza a ciò che realmente era importante.
E, come i gioielli da
adulta, così da bambina perdevo tutte le mie preziose e luminose parole!
Pomodororossofuoco non le capiva. Ed io, in quel primo anno di scuola, avevo
avuto sempre paura di pronunciarle con lei e con gli altri. Le avevo chiare
nella mente ma le perdevo prima che si facessero parola, suono, voce. Anche le
compagne di classe parlavano una lingua a me sconosciuta, il loro dialetto, e
spesso le sentivo ridere per frasi un tantino maliziose che riguardavano il
sesso, i baci e gli abbracci fra innamorati, le parti più nascoste del loro
corpo… (…).
Non ero riuscita ad
entrare nelle loro confidenze. Mi sembravano sconcezze che mi lasciavano dubbi
e curiosità e che mi portavo dentro come un fardello pesante, di cui non ero
riuscita a liberarmi e di cui non riuscivo a parlare con nessuno. Neppure con
mamma.
A fine anno, in prima
elementare, proiettarono nell’androne della scuola il film “Il mago di Oz” ed
io non ci capii assolutamente niente e ciò mi prostrò molto. Quella sera,
chiusa in un silenzio di buia tristezza, mi feci mille domande, come mai mi era
capitato prima:
‘Perché non capisco e non
so farmi capire? Perché non imparo? Perché la scuola non mi piace? Perché perdo
le parole? Dove vanno a finire le parole? Chi le raccoglie o dove si nascondono
quelle che perdo io? Perché non so più capire neppure le fiabe che con papà
capivo? Perché non me le racconta più nessuno? (…).
Questi i miei pensieri di tristezza,
dopo quel primo anno di incomprensioni, frustrazioni, delusioni. E nessuno a
sentirli i miei pensieri. Nessuno ad ascoltarli. Nessuno a farmi compagnia. (…).
Quella notte, stretta nel
buio che mi avvolgeva e mi soffocava, sentii tra le mani il caldo umido della
pioggia torrenziale delle mie lacrime.
O memoria, la terra è il tuo ritorno
negli occhi, le magnolie
in un torno di gridi dai cortili
traboccano, sui lividi ginocchi
spunta l’età più grande come un’alba…
(Piero Bigongiari, “Vetrata”,
da Autoritratto poetico)>
(da Le piogge e i
ciliegi, vol.II, op. cit)
E domani continuo perché desidero
parlarvi di come io sia giunta dalle avvilenti “distonie” alle più confortanti “sintonie”.
Per dare man forte al mio discorso tutto “a rovescio” (ma non troppo) di oggi! Angela
Nessun commento:
Posta un commento