Per dirci PAROLE. Quali? Provo a fare un primo elenco:
Voci. A volte le voci
sono più importanti delle parole. A volte le parole si dimenticano per tanti
motivi. Le voci no. Rimangono impresse nella nostra anima: voci morbide acute profonde
bianche. Anche le parole possono essere bianche e profondamente morbide, ma
bisogna conoscerne il senso e il significato. Le parole possono ingannare. Le
voci no. Le parole possono essere incolori o policrome. Spetta a noi scoprirle:
una, tante, tantissime. Fiumi di parole. Gocce. Valanghe. Più nulla. Silenzio.
Parole: gioco di parole (invenzioni). Parole: pesanti, lievi, trasparenti,
opache, spente. Parole: ambigue (bugie come verità e verità che sembrano
bugie). Parole-pietra. Parole tristi,
allegre, solitarie. Un coro di parole in sintonia, distoniche. Parole tra la
folla. E parole che fanno follie. Parole soffocate. Accese. Vive. Parole tenere
e parole dure. Parole come abbracci e parole come addii. Sussurrate.
Trattenute. Urlate. Archiviate. Parole come maschere, parole vere. Perdute per
banale errore oppure volontariamente abbandonate. Perché superflue, inutili,
abusate. Un esempio? Resilienza. Termine più che mai abusato in ogni settore
del nostro vivere quotidiano. L’abuso ne diluisce la forza e l’intensità.
Occorre tingere di verde le parole per farle rifiorire. Parole da cercare,
dunque, da trovare, da riprendere, da reinventare. Non più parole come offesa,
ma parole come dono. Parole come progetto-idea. Da condividere. Per non essere
mai soli. Perché oltre il vuoto di ogni silenzio finisce il cielo.
Non a caso, Le parole in fondo al mare di Primo Leone: due. Inverno/ per rifugiarmi/ in fondo al cuore. Sette. Il grano,/ una
spiga/ e il suo desiderio/ di sole. Quattordici. In fondo al cielo./ Un
gabbiano ferito. Sedici. Una conchiglia di luce/ per l’onda che ritorna.
Ventuno. Un diavoletto anima.ramo d’illusione. Trentatré. Quattro gocce di
pioggia/ due vetri/ una finestra.
“Primavera” di Vito de Leo: Prima/ della verità/ tutto è sogno./ Poi l’inizio,/ solletico di
vento./ Passi leggeri, leggeri,/ sottile aria./ Colore nuovo,/
interpretazione,/ una forma/ si compie./ Azzardo di vita,/ passeggiata nel
cuore.; “Il molteplice” di Vito de
Leo: Si aprono scenari/
L’evanescente/ Può diventare memoria./ Tutto si può incendiare/ E la rosa
diventare/ Una sospensione/ Sul palmo della mano,/ Il deserto una via./ Nessuna
immagine/ prescinde dal resto/ delle cose/ Il tutto/ È molteplice,/ visione/ e
realtà.
Angela Aniello: Ancora quando la vita ti sorprende/
Slaccia i sandali e va’/ E se anche a cuor leggero/ narrerai delle tue
partenze/ Zampetterai più/ Armata di materia di luce.; Angela Aniello: Scivolerà il buio/ lo aspirerò d’un
fiato/ e sarà specchio il cuore/ e stringerò il punto luce/ onnipotente/ per
fissare la volontà/ di abitarmi felice.
“SONO” di Maria Concetta Giorgi: Io sono la pioggia,/ sono lo spicchio di
luna/ sono il ragno che tesse la tela/ la rugiada che bagna il mattino./ Sono
il muschio del nord,/ la punta di una matita rossa/ sono/ quello che dovrebbe
essere/ e non è./ Sono la domanda e/ la risposta./ Ti cerco/ ti trovo/ ti rubo,/
sono il soffio/ sono quell’arco,/ quella freccia./ Sono l’acqua/ che mette in
musica/ la mia e la tua/ anima.
“VOLEVO DIRTI” di Rita Bonetti: Volevo dirti,/ non andartene/ senza di te/ non ci sarà più la bella
estate/ e non imparerò l’assenza/ nella stagione che cambia segno/ ho giorni
scontrosi/ senza di te che li guardi/ la mia solitudine/ è l’anima di niente/
un garbino leggero/ dentro l’orizzonte
(da un Azzurro spietato di imminente
pubblicazione)
Ghiannis Ritsos: Non avevo da
aggiungere/ altro verso,/ altra parola./ Nel tuo corpo vivevo/ tutta la
poesia.// Mio blu - dicevi -/ mio blu./ Lo sono./ E anche più del cielo./
Ovunque tu sia/ io ti circondo.
“Tutti i sogni ancora
in piedi” di Anna Mininno: Avvolgo e riavvolgo il nastro/ con maestria/
e chiedo alla notte di cogliere il testimone.; Anna Mininno: Non mi fermo a
guardare chi passa/ Mi concentro su chi è passato/ Su chi ha lasciato impronte/
Su chi è semplicemente andato/ Su chi ha compreso e su chi non ha saputo farlo/
Non mi fermo a guardare chi passa/ fuori dalla mia porta/ Non più/ Da vecchi si
diventa egoisti, forse sì o forse no/ E non mi fermo a guardare se sei tu/ che
passi e non entri nella mia porta
Maria Pia Latorre: Sui miei palmi/ la
tua carezza che esule/ cade fuori dal nostro/ abbraccio/ custodirò in silenzio/
e lì nei palmi/ cresceranno roseti// Cammineremo sull’inferno/ senza esitare/
sposteremo il fiato del divino/ per ammansire la rabbia// Nemmeno un grano di
polvere/ sui nostri sandali/ quando andremo a cercare ciò che qui non è
Gianni Antonio Palumbo: Percepisco il
richiamo del mare./ Come un’anfora/ che ambisca a custodire il mio delirio./
Come una madre antica/ che pianga il nido vuoto./ Accogliere il soffio della
sua voce./ Con l’indolenza lieve/ d’un angelo/ per ignavia sbalzato via dal
cielo./ Io/ che degli angeli/ non veglio la luce.
Roberta Lipparini: Sono di quelle che
hanno scelto di restare./ Di essere tana, nido, casa per i ritorni./ Il letto
fatto. Il pane.// Sono di quelle che hanno scelto di aspettare./ Il fuoco
acceso. Il libro tra le mani./ Il cuore affacciato alla finestra
“L’aria intorno alle
altalene” di Marco Brogi: La vita è un incidente./ Può farti molto
male/ o quasi niente./ Scrivere è una richiesta/ di risarcimento danni,/ un
tentativo che pulsa/ nel ventre delle parole.
(poesia proposta da Angela Aniello)
“LA GELATURA DEI
MANDORLI” di Luigi Lafranceschina: Una iattura la siccita e la grandine/ Per il
lavoro del contadino/ E quando il sole di febbraio/ Si stringe nello scialle/ E
si copre la faccia/ Annacquata e abbottata/ Arriva la carogna della gelatura/ E
un languore si intrude/ Tra i rami della pergola/ Incinti dei piccoli germogli/
E dei grappoli che stanno dentro./ Capatosta il mandorlo/ Che mette a
repentaglio/ La prima fioritura/ Per fare bella figura/ Tra i fratelli ancora
abbottonati./ E quando la farinella/ Imbianca i tetti e l’anima/ Al sole gli
viene il crepacuore/ E il gelo ammazza foglie e gemme/ Ghiaccia le vene della
zucchina/ E al tempo della mia infanzia/ Mio padre taciturno e incazzato/ Non
aveva occhi per piangere./ Solo l’ulivo scorza dura/ Regge al cielo di
febbraio/ Ma brutta fine i fiori dei mandorli/ E le mandorle che stanno
dentro./ E quest’anno chiaconi senza mandorla/ E Natale senza mandorlato e
mostaccioli!
“Sabato” di Apulo Scriba (alias Mario Sicolo): Screpola la sera/ un muro di silenzio// E la pioggia cade/ come un
destino/ accende luci lontane/ come stelle solitarie.// È/ il cuore d’inverno/
un talismano perduto/ nella conta dei giorni
Vincenzo Mastropirro: Passerà l’epoca degli
orchi/ e ci ritroveremo di nuovo nudi/ ad ammirare il paradiso/ che si è
nascosto dietro l’angolo/ ed io, ogn-e tande squelquàisce/ spio, per vedere che succede.// Passerà,
sono sicuro che passerà/ l’età dell’invidia e dell’odio/ e ci ritroveremo
abbracciati/ sotto gli alberi di pioppo/ che si allungano sempre più/ verso il
cielo di Monet.// Passerà quel lasso di tempo sporco/ dove gli uomini non
sanno/ nan sapene cambò, non sanno
vivere e/ passeranno le genti che sanno si polvere/ nascosti negli anfratti di
terre lontane/ e passerà, deve passare/ ova passò cure timbe/ fermo come il chiodo nel palmo di Cristo.
(da Operette da sottoscala /Emersioni ed.
2020)
Carlos Ruiz Zafon: L’invidia è la
religione dei mediocri. Li consola, risponde alle inquietudini che li divorano
e, in ultima istanza, imputridisce le loro anime e consente di giustificare la
loro grettezza e la loro avidità fino a credere che siano virtù e che le porte
del cielo si spalancheranno solo per gli infelici come loro, che attraversano
la vita senza lasciare altra traccia se non i loro sleali tentativi di sminuire
gli altri e di escludere, e se possibile distruggere, chi, per il semplice
fatto di esistere e di essere ciò che è, mette in risalto la loro povertà di
spirito, di mente e di fegato.
(da Il gioco dell’angelo, Mondadori, Milano
2008).
Angela De Leo: Nel giardino
addormentato/ di mandorlo tre rami/ s’ingemmano di sole/ ai cancelli
dell’alba./ Salutano l’allodola/ che canta l’antica canzone/ fiorita
d’infanzia/ petali rosa di strana primavera./ E la gazza s’inazzurra di cielo/
ladra di perle di gelo./ I mici, gli scriccioli infreddoliti/ un lontano
latrare di cani/ la gatta col ventre gonfio/ dimentica dell’ultimo nato/
cappottino bianco come di neve/ occhi di verde smeraldo/ rapinato alle foglie
bambine/ e zampine nere/ rubate al buio della notte/ a un passo dalle stelle./ Di
rosso l’aurora accenderanno/ con i loro fanali appesi ai rami i sogni./
Nuvolette rosa già ricamano/ di pioggia il cielo di panna/ e zucchero filato/
che lacrima cristalli/ imbrigliati tra rami spogli/ al chiarore soffuso/ di
luna piena./ Al mandorlo strappano gemme appena dischiuse/ (l’argento del
sogno/ non ancora fiorito/ già lacerato…)
“Hai mai provato a
guardare il cielo?” di Arnoldo Foà(attore,
regista teatrale, doppiatore, cantante, scrittore, poeta – 24 gennaio 1916
Ferrara – 11 gennaio 2014 Roma): Hai mai
provato/ a guardare il cielo/ a stenderti su un prato/ accarezzare un fiore/ a
seguire con lo sguardo/ cime, foglie, aurore/ che spuntano di nuovo tra l’azzurro
e il sole.// Hai mai provato/ a guardare il mare/ come tu fossi un pescatore/
silenzioso sulla riva,/ a seguire con lo sguardo/ una scia che traccia rosso l’orizzonte/
scoprire che unisce l’oriente e l’occidente.// Hai mai provato/ a scegliere una
via/ come tu fossi un viaggiatore,/ lasciarti trasportare dall’istinto/ andare
in giro per il mondo/ tra mari, monti, pianure, deserti/ imbrigliato muto o
guidare un sentimento.// Hai mai provato/ a costruire un sogno/ come tu fossi
un costruttore,/ soltanto con l’aiuto del tuo cuore./ Senza avere per le mani
una città/ un progetto, un permesso, una licenza,/ grattacieli e grandi spazi
di speranza.// Hai mai provato/ a guardare il cielo,/ a lasciarti guidare da
una stella/ a far della tua vita un sogno/ lasciare ogni cosa che si avveri/
come nella favola più bella.
E per oggi mi sembra
giusto concludere qui. Ma c’è qualcosa che è altrettanto giusto ripetere per
non dimenticare: abbiamo assaporato insieme tante PAROLE poetiche, tanti VERSI
diversi eppure tutti catturanti, svettanti, rigeneranti. Di ciascuna possiamo
cercare, come già detto:
- La “derivazione” e
giungere alla radice, o a più radici che si sono sovrapposte e stratificate nel
tempo, o continuamente modificate (l’Italia terra di perenne conquista), senza
perdere, a mio parere, l’humus, che ne conserva la validità etimologica e
semantica.
- La “significazione”
che, come sappiamo, è molto di più del significato: è azione che penetra a
fondo nella parola per scoprire altri significati nascosti, e il senso più
misterioso e notturno del “linguaggio poetico”.
E, del resto, sappiamo
che la parola, nel suo significato certo e chiaro, si forma nell’emisfero
sinistro del nostro cervello, che presiede alla “razionalità”. È la “parola del
giorno”, essenzialmente maschile.
La parola nel suo “senso
smarginato e misterioso” si forma nell’emisfero destro, che presiede al lato
sinistro. È portatrice di emozioni (sentimenti, fantasia, immaginazione,
creatività, visionarietà). È la parola notturna, appunto, che riguarda
essenzialmente l’universo femminile.
Oggi i due registri
poetici tendono sempre più a contaminarsi. Ed è un superamento positivo di
stereotipi che hanno creato molte perplessità ed equivoci fino al recente
passato.
- “L’intonazione” che
ci permette di scoprire il “canto interno che dà il ritmo alle parole fino a
definire “lo stile” di chi parla e
di chi scrive.
Ma l’intonazione ci fa
ritornare alle diverse “VOCI”.
Giovanni Pascoli è stato il “cantore” in assoluto della suggestione, positiva
e negativa, delle VOCI: della natura (con tutti i suoi suoni onomatopeici,
definiti in maniera ossessivamente precisa); della vita quotidiana della gente
del paese o dei campi, in una solitudine mai stemperata del tutto, durante l’arco
della sua vita; le voci della morte, che attanagliavano le sue ossessioni
notturne. Un esempio per tutti è la voce della sua mamma (“Zvanì”), ma anche
quella del suo compagno di convitto che morì giovanissimo mentre giocavano tra
loro con gli aquiloni. Ed ecco le voci che puntualmente ricorda con straziante
memoria: Sono le voci della camerata/
mia: le conosco tutte all’improvviso,/ una
dolce, una acuta, una velata (…).
Altrettanto straziante,
ma più pacata, più matura e forse rassegnata, data la distanza di tempo, la
conclusione: … Ti pettinò co’ bei capelli
a onda// tua madre… adagio, per non farti male…
Parleremo ancora dell’importanza
suggestiva delle voci che ci portiamo nel “forziere” dell’anima.
Alla prossima. Angela
Nessun commento:
Posta un commento