Una pausa per festeggiare Carnevale che quest’anno è volato via, sfiorandomi appena per i tanti impegni culturali che vado srotolando in questo periodo e per qualche problema di salute di troppo, che a me ormai non mancano. Ma voglio spolverare qualche ricordo per conservarne la magica follia che ha caratterizzato i miei spensierati anni di ragazzina ribelle. Mi ritorna prepotente il ricordo del Carnevale del ’56, anno della memorabile nevicata.
È un ricordo di orme lontane
danzanti come fiocchi di neve
col principe ormai perduto
(e sotto altri cieli ritrovato)
mani di rose volto senza spine
e una risata allegra e ciarliera
a raccontarmi ti amo e poi ti amo
con labbra di fumo e fuoco di parole
sui miei quattordicianni appena.
1956
Anno di fiaba bianca
colorata di sogno e ballerina
tenerezza di canzoni perdute
e una luna di lana
per pensieri da riscaldare
con mani di gelo
e un gioco da inventare
per fingersi un amore
svanito coi primi raggi di sole…
(io che guardo il cielo anche di
notte
e immense galassie di sogno
scopro
in quell’amore ragazzino
che colma il tempo di noi…
io che conto le stelle e penso e
scrivo
e chiacchiero con i ricordi)
(a.d.l. “Questo cielo di neve”, da L’ora dell’ombra e della riva)
1956
<Fu l’anno della
grande nevicata e l’anno delle mie prime cotte, divise in ugual misura tra
Franco primo e Franco secondo. Il primo, snello, biondo, occhi cerulei e “testa
da condottiero romano”, lo incontravo nei corridoi della scuola e gli lasciavo
in pegno lunghi sguardi languidi per farmi ricordare durante le altre ore di
lezione; il secondo (il Franco bruno, alto, elegante, bellissimo, che si era
innamorato, appena tredicenne, della mamma di Cappuccetto rosso, cioè io)
consumava quotidianamente il marciapiede parallelo a quello della nostra casa,
nella speranza di vedermi al balcone, dove mi affacciavo quando andavo a
suonare il pianoforte, oppure nel cortile. Lo incontravo anche in chiesa alla
messa delle sette o durante le feste da ballo in casa di Zettina, la nostra
comune amica.
Zettina aveva qualche
anno più di noi e una lunghissima treccia corvina, lunga quanto la lunghissima
fila di fratellini, di cui si prendeva cura soprattutto lei che era la
maggiore. Il padre era emigrato in Arabia Saudita e la madre, una bellissima
donna ancora giovane, ma sfiorita di gravidanze e di lunghe stagioni di
“vedovanza”, aveva un sorriso triste e mite sul volto pallido e stanco. Con noi
era affettuosa e materna. Dolcissima. (Mi chiedevo spesso come avesse fatto a
collezionare tanti figli con il marito lontano. Poi, mi feci due conti e
scoprii che l’uomo veniva giusto il tempo per ingravidarla e andava via.
Intuivo l’intimo dolore e la grande rinuncia di quella splendida donna che
conosceva forse attimi brevi di passione e sicuri tempi lunghi di fatica nel
crescere da sola i suoi piccoli. Per fortuna aveva Zettina, già matura e
avveduta per la sua età).
Quell’anno, sotto quella sognante favolosa nevicata,
io vissi il carnevale più romantico della mia adolescenza. Ero accerchiata da
Franco primo e Franco secondo e Peppino e Mimì, il fratello maggiore di
Zettina, altissimo, bello e geniale, già studente universitario e pieno di
sincera premura nei riguardi di noi “ancora uccelli di nido”. Mimì era solito
dirmi che sarei fiorita splendidamente e che mi avrebbero presto rubata. Ma
Franco secondo era il più innamorato. Quell’anno inscenammo per carnevale un
matrimonio tra noi due. Lui indossò l’abito scuro dello sposo ed io quello
meraviglioso di pizzo bianco, che una zia di Rosa (dai fulvi capelli) aveva
ricevuto in uno dei grossi pacchi mandati periodicamente da una sua sorella
suora (“la zia suora”) che viveva in America. Erano favolosi vestiti da sera,
che zia Santa dava a noi ragazzine in affitto per poche lire nel periodo di
carnevale. Per qualche anno io avevo indossato gli splendidi abiti neri di
nonna Carmela, tua madre. Erano di pizzo lavorato a mano con fantastici ricami
di coralli e perline, nero su nero. E con tacchi alti per poterli indossare
senza inciampare. Ma quell’anno, per l’abito da sposa, mi rivolsi a zia Santa.
Signorina anziana ma di belle speranze, morta poi quasi centenaria, era un
pozzo inesauribile di abiti estrosi e fantastici che noi facevamo a gara a
scegliere per avere il primato dell’eleganza e della bellezza. (Spesso mi chiedevo come facesse una suora ad
avere simili vestiti e a lungo fantasticai di scrivere un romanzo su una famosa
ballerina che viveva le sue erotiche avventure di notte e che si fingeva suora
pudica, e fedele sposa di Gesù, di giorno. Ma, poi, in mancanza di notizie più
dettagliate sulla vita in America, sul mondo delle ballerine e delle suore,
sulle erotiche notti di chicchessia, desistetti. In compenso, per un concorso
letterario su <Sorrisi e Canzoni>, scrissi un racconto che, con la
complicità delle mie amiche, inviai al giornale con lo pseudonimo di Elodie, e
che di lì a poco venne pubblicato con mia grande gioia. Era ispirato al tema
della canzone di Umberto Bindi: “Arrivederci”. Da quel momento in poi non mi
stancai più di cantarla. E Bindi divenne il mio cantante preferito.
Ma, durante quel carnevale di neve, tra me e Franco
secondo venne celebrato quel matrimonio, che lui avrebbe ricordato per tutta la
vita e che io avrei presto dimenticato, anche se ci fu il rinfresco in onore
degli sposi e il ballo che ci vide felici e tremanti quasi fosse vero. Di
Franco secondo e di quel carnevale, oltre alla neve alta per le strade e al
turbinio di piume bianche nel cielo, ricordo un episodio tenerissimo che mi
fece regalare il cuore a lui incondizionatamente. Ma solo per poco. Prima della
cerimonia, vedendo le mie mani arrossate per i geloni (che io e te curavamo
insieme, sfregandovi sopra uno spicchio d’aglio, quando, sicuri di non dover
uscire, ammorbavamo la casa col suo caratteristico odore), si allontanò per
andare da un suo cugino, sotto quel vorticare furioso di bianche e gelide
farfalle, e mi portò un manicotto di pelliccia sintetica bianca, non senza
avermi prima procurato una bacinella con acqua calda, dentro cui immergere le
mani di fredda neve e di rosso dolore perché si riscaldassero al tepore delle
sue calde premure. Dolcissimi gesti a dimostrarmi la profondità del suo amore. Io
ero Mimì della Bohème. Ero Anna Karenina. Lara del Dottor Zivago. Ero tutte le
eroine con manicotto di pelliccia e sogni di neve intrecciati tra capelli e
pensieri.
Anno di bianco
candore e di morbido incanto
Anno di scuole chiuse a
lungo e di lunghe passeggiate con Franco secondo sotto arabeschi di neve a
disegnarci di stupore il viso tra i rari passanti che borbottavano vedendo una
ragazza passeggiare con un ragazzo. Noi non ci sfioravamo neppure per timore di
un sentimento sconosciuto e carico di incognite. Più grande di noi stessi e dei
nostri pochi anni. C’era solo il desiderio di essere insieme in quel paesaggio
fiabesco e irreale.
Tempo di gesti incompiuti e di compiutezza di sentimenti e sogni
L’assoluto tra le mani
Un vago sapore di attese
e di scoperte a infrangere certezze e verità.
L’assoluto solo un
richiamo di assoluto? E la quotidianità?
Per lui, io fui l’amore
assoluto. Per me, lui fu solo la quotidianità relativa. Anno delle corse in
bicicletta, delle litigate con la nonna, delle soste in villa con lui e con le
amiche del cuore: Maria, Rosa (dai fulvi capelli), Finuccia, Tonetta, Tinuccia,
Lina, Gioconda, mia compagna di banco, con cui ci divertivamo un mondo,
dimentiche di ogni spiegazione ex cathedra, a contare i pidocchi che
girovagavano sullo chignon (“l’isola di Ceylon”) della compagna seduta al banco
davanti al nostro, Vittoria (di alcuni anni più grande di noi e con una certa
somiglianza con Anna Magnani)…
Anno del cuore enorme che
lui incise, nella villa comunale a metà strada tra casa e scuola, sul tronco di
un grande albero con i nostri nomi. E che di anno in anno, ormai senza di me,
lui avrebbe rinverdito con un temperino a ricalcarlo sulla corteccia perché il
tempo non lo cancellasse come aveva, poco dopo, cancellato ogni mia promessa.
Anno dei primi televisori
in bella mostra lungo il corso cittadino e del mio stupore nel vederli accesi
su grandi prati e sparute pecorelle a brucare l’erba.
Meraviglia delle meraviglie!>
(Cfr. A. De Leo, Le piogge e i ciliegi, II
vol, 2017)
Oggi
… Togliere maschere d’ogni dolore
vorrei.
C’è stato un tempo lontano quanto la pena
e c’era l’attesa lunga del carnevale.
Valeva oro sonno e litigate
per l’abito più bello da indossare
(nero con pizzi e ricami di corallo)
la bocca più rossa da baciare
tra il bianco della neve e un silenzio
di fiato sospeso su labbra innocenti,
come debuttanti al primo ballo
(chi per primo le
bacerà?)
Si rideva, si rideva tra balli e canzoni
Si vibrava d’emozioni e primi amori…
Rapinati gli anni le primavere i passi.
Rapinati i sogni la neve il carnevale.
Occhi profondi d’oceano inabissati.
- Andare al mare non mi farà poi male -
Un canto di coriandoli nel tempo cancellato.
(vuota conchiglia tra le mani e suono di fanfara).
(a.d.l. “In
compagnia dei pensieri truccati”, poesia inedita)
E
il 17 febbraio di 52 anni fa nacque mio figlio Giuliano tra l’ultimo giorno di
Carnevale, martedì grasso, e il primo giorno di Quaresima, mercoledì delle
Ceneri, CORIANDOLO PAZZO da quando è nato fino ai nostri giorni. Ancora oggi mi
fa volare con la sua fantasia, mi fa tremare di malinconia per tutto ciò che passa
e non torna più. Restano i ricordi. Per fortuna i ricordi. E le sintonie…
Alla prossima per parlarne… Angela
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