Piove oggi. Tanto. E la pioggia, che pure mi piace molto, mi sta intristendo il cuore. Per alleggerire pensieri, riprendo. Ma, anche per questo, prima di parlare di altre perdite che colmano il cuore di un “vuoto/pieno”, desidero riportare qui una lettera che inaspettatamente mi è giunta da Maria Concetta Giorgi: Carissima Lina, in questo momento così difficile per me, arrivano le tue parole. Io l’idea della morte “vissuta” in serenità, non la capisco proprio. Magari avessi avuto un nonno come il tuo! Capace di trasmettere leggerezza, soprattutto di fronte all’unica certezza che abbiamo, morire cioè. Anche io ho sempre preferito chiamare il luogo di sepoltura Camposanto e non Cimitero, a parte il discorso artistico che credo li differenzi, io nel Camposanto ci vedo la dimora dei Santi. È il Campo dei Santi. Ecco, questo, nella mia difficile comprensione della morte mi solleva. Sarà per quell’alba del dopo di cui parli, sarà perché la parola stessa mi dà speranza. I tuoi ricordi diventano i miei, l’ho già detto, ma è come li scrivi che me li rende più cari ancora. Io lo “schianto” delle abitudini di una casa, dei suoi abitanti, dei volti, dell’amore per loro, degli odori che c’erano, di quello che si mangiava e accomunava tutti, ce l’ho come te nel cuore. Io penso (ci voglio credere), che un giorno la polvere del silenzio si alzerà e risentiremo tutte le voci, noi ci rivedremo tutti. Solo questo mi dà respiro ancora. Mi permetto di aggiungere una cosa che volevo tenere solo per me, ma che oggi ho il coraggio di svelare. Per una zia che ho molto amato, per la sua casa in montagna, per un camino scavato dentro al muro, per le sue stoviglie e l’odore di umido, per il suo “acquaio” di pietra in cui l’ho vista tante volte lavare i piatti, per tutti coloro che lì hanno vissuto o l’hanno solo visitata e ora non vedo più, ho scritto una poesia molto tenera, tanto tempo fa. Pochi giorni fa, mio cugino Fabrizio, figlio di questa mia zia, l’ha voluta far scrivere sul muro di quella casa. Io ne sono orgogliosa e con te divido questo orgoglio postando due foto. I ricordi evocano immagini e se queste immagini prendono forma e consistenza, noi, i nostri amati cari, vedremo e sentiremo ancora lì. Grazie sempre, Angela D Leo, uno scritto porta ad altro scritto, e niente finisce. Maria Concetta. Grazie Fabrizio! Peccato per le due foto molto belle e suggestive che non posso condividere nel blog. Ma ringrazio anche io Fabrizio per la bellissima idea che ha realizzato sul muro dell’antica casa della mamma. E ringrazio te con profonda commozione per queste tue meravigliose parole. E devo precisare che il tuo segreto non è più un segreto perché hai postato la lettera sulla mia pagina FB. Per questo io l’ho riportata sul blog. Molti l’hanno già letta. E ora ecco anche la tua poesia per chi, come me difficilmente potrà recarsi a Corniolo, frazione del comune di Santa Sofia (Provincia di Forlì-Cesena). Maria Concetta, infatti, vive a Cesenatico. Ma ecco la delicatissima poesia intitolata “Era verde la persiana”: È chiusa quella finestra/ è disperatamente chiusa/ rimane verde la persiana./ Chiusi lì dentro i miei anni,/ lì i miei ricordi/ cos’altro dovrò sopportare?/ Inesorabilmente troverò tutto davanti/ cucchiaini e credenze, / sedie di legno. / Sentirò il profumo del freddo/ la legna in inverno/ il fresco primaverile uscirà aprendo i cassetti./ Il giorno che spalancherò / voleranno lenzuoli bianchi / fiumi di polvere si alzeranno / rivedrò il camino scavato nel muro / ci saranno di nuovo tutti / tutti loro.
Come
non commuoversi? E Maria Concetta mi ha mandato un delizioso racconto in cui la
protagonista è Emma, la zia tanto amata. La potrete leggere nelle prossime
pagine del nostro blog. I buoni sentimenti vanno condivisi. Ci arricchiscono
sempre di conoscenze e di speranza. Ma ora è tempo di riprendere a ricordare
chi ho amato e perduto. Il mio personale calendario continua: dopo il 1995, ben
presto un’altra terribile perdita cominciò a profilarsi all’orizzonte sempre
più insanguinato di vuoti e di dolore.
1996: La mia amata cognata Maria Nilde, con cui avevamo condiviso vacanze e confidenze e
serate in allegria e la gioia di una maternità che ci faceva complici e
chiacchierine oltre ogni altra nostra bellissima intesa. Da un anno aveva
cominciato la salita di un calvario durato due anni e che ben presto l’avrebbe
portata sul Golgota della sua arresa resistenza. Guerriera di una sconfitta che
le precludeva impietosamente la possibilità di continuare ad avere braccia
d’amore per sua figlia, ancora tanto giovane e con lei in simbiosi, e occhi di
luce per l’ineguagliabile suo compagno di vita. Lei, quasi seconda madre per
Daniela, che condivideva con sua figlia Raffaella molti giorni di sole e
altrettante notti di stelle da raccontarsi per esprimere desideri su quel mare
di incanti che ancora tutti ci stregava. In quella culla meravigliosa di monti
e di mare, che tanta storia di noi conservavamo intatta nel cuore: Manfredonia!
Ricordo un ultimo abbraccio, con Nicola a mettere i primi passi
per raggiungerla, e Raffaella, mia figlia, a massaggiarle i piedi dopo i suoi
occhi a pregarla di farle quell’ultima carezza… Poi, alcuni giorni dopo, sotto
una pioggia battente, la corsa in macchina per il saluto che sapeva di chiesa
gremita, di lacrime più rovinose della pioggia e degli occhi spenti di sua
madre, vinta e disperata.
(Maria
Nilde mi manca anche se con mio cognato e con la sua bambina, oggi non più
bambina ma madre di due splendidi figli quasi adolescenti, non ci incontriamo
mai e ci sentiamo molto raramente. Solo ai matrimoni e ai funerali. Abbiamo
entrambi una vita socio- culturale molto intensa a cui bisogna aggiungere il
suo impegno politico dal 1996 ai nostri giorni. Frequentissimi un tempo, oggi i
nostri messaggi sono molto rari. Sono quelle lettere d’amore che non giungono
mai a destinazione. Rimangono nel limbo delle buone intenzioni). Purtroppo anche questo accade nella vita… e
continuo a sfogliare il calendario per meglio ricordare, meglio dimenticare…
Nel
1998, intanto, Primo, a causa della pressione alta, da tempo diagnosticata e da
lui sempre trascurata intenzionalmente
per evitare di prendere la pillola per tenerla sotto controllo, ebbe alcuni
preoccupanti episodi di TIA che lo costrinsero a vari ricoveri in diversi
ospedali del capoluogo e in tutta la provincia. Poi, il suo costante
miglioramento, dopo il ricovero presso “La Casa di Sollievo Della Sofferenza”,
voluta da Padre Pio a San Giovanni Rotondo, ci restituì un po’ di serenità. E
gli diede il coraggio di fare domanda di pensionamento. Inizio di nuova vita
che si intrecciò ben presto con un nuovo germoglio nella nostra casa.
1999: ANNA PAOLA. E fu nuova magia quel germoglio di rinnovate promesse. La sua
nascita nel giorno in cui rinasce primavera. Tripudio di fiori. Luce di
sorrisi. Nuovi giorni da vivere tra progetti e rimpianti. Giochi e attese.
Impegni e viaggi. Passi ritrovati senza più l’allegria delle passate sintonie,
vergini di incontri altri e altri tormenti, vissuti nei silenzi delle sere
delle spente risate. E, per fortuna, solite
Vacanze d’estate. E il nuovo millennio a scoprirci tutti con una riaccesa
speranza nel cuore, tra brindisi e girandole esplodenti di luci e la nostra
allegria, che ignorò le lacrime di mamma in un presentimento che non volle
dire.
2000: L’ultima estate serena. Ora, in un villaggio chic a pochi
chilometri dalla bellissima Otranto, terra di martiri e di mare, terra di
riproposti incanti nelle stradine di souvenir e ricordi amari di turchi e
saraceni. E poi ancora altre rive e tramonti in quella penisola di vento e
d’ulivi baciati dal sole, nella più grande penisola dalla caratteristica forma
di uno stivale, la nostra bella Italia, che il mondo attraversa, percorre,
invade e invidia. Ma, con le prime
piogge d’autunno, il cielo si coprì di nembi e di bui giorni alla deriva: Anna
Maria e la necessità di un intervento a cuore aperto. E mamma e Gianni e le
figlie sempre con lei. A pregare per il suo ritorno a casa.
Io,
in un’altra clinica a Roma, dove dovemmo ricoverare Ombretta per il suo
ricorrente problema da malattia autoimmune, a pregare con il suo ragazzo perché
tornasse a casa, dopo mesi di terapia sbagliata e corsa in un altro centro nel
tentativo di salvarla.
Lo
stress piegò la delicata fibra di mamma e si era ormai a dicembre del nuovo
millennio.
1° aprile 2001:
Fu un devastante addio che ci vinse
solo un anno e pochi mesi dopo quel Capodanno, che segnò a caratteri cubitali
nella Storia il primo anno di un nuovo secolo a regalarci illusori refoli di
risorte umane utopie. Perdemmo MAMMA, in
un lago di disperata corsa al suo sorriso. La perdemmo in quattro mesi di angoscia su alte montagne innevate e profondi abissi
di nuove speranze e nuove disperazioni. E
il suo sguardo sempre più dolente e malinconico. Pensieroso e stanco. E
l’ultimo nostro Natale e l’ultimo Capodanno, vissuti insieme in quella che era
stata la nostra casa del gelso e delle rose e che ora è una villa bellissima al
centro del paese, abitata da Anna Maria e Gianni, e a cui fanno capo Isabella e
Nicoletta con la loro nidiata di bimbi ora adolescenti o quasi. Tutti nella
antica casa senza più il gelso e con poche rose ma con tanti altri alberi e
fiori… Ma allora allora allora… Allora fu tempo di nuove lacrime per tutti,
nascoste maldestramente tra ciglia di dolore per un mostro tentacolare che si
era ripresentato dopo anni di quiescenza e di tranquilla certezza di averlo
debellato senza gravi danni per la sua salute. Mamma. E il suo andare, volto
preoccupato e passo leggero e il cappellino verde di morbida lana a
incorniciarle il viso segnato, con la figlia più giovane, sua compagna di vita
ormai, in un Centro specialistico al Nord, dove operava un mago della chirurgia
oncologica. Furono tre mesi altalenanti
di notizie mai chiare mai scure.
E
la decisione di raggiungerla io e Lizia, con Pino alla guida della sua macchina
in volo sulla corsia di sorpasso in sole sei ore per correre da lei, e Anna
Maria impossibilitata per quell’intervento a cuore aperto, che andava superando
lentamente e a fatica, e il nostro cuore ad anticipare chilometri e incontro. E
Anna Paola che nella sua casa festeggiava senza di me il suo secondo
compleanno. Giorno d’inizio primavera. Giorno dei ciliegi in fiore.
Mamma era lì, inerme e sperduta,
spaurita e gracile, dopo due interventi che ci dissero risolutori,
ingannandoci. Fiorivano le prime margheritine di marzo… e bianche rose d’ogni
mese ornavano il viale che portava alla sua camera al pianterreno di
quell’immensa clinica dei miracoli. Dalla finestra potevamo vederla prima che
ci fosse permesso d’incontrarla e lei ci sorrideva stanca e teneramente
aggrappata a quel primo abbraccio da lontano, nell’attesa di riabbracciarci con
mani e braccia e tremori intrecciati. E sollevava le mani in segno di saluto ed
erano affaticate farfalle in lento volo. Pioveva
in quei giorni di ansia e di paura. Una pioggia né buona né cattiva, una
pioggia d’attesa. Poi… improvvisamente
il sole. La sollevammo dal suo letto di spenta speranza perché potesse
lasciarsi riscaldare dal tepore beneaugurale di quei raggi dorati. Ma lei
rimase con occhi vuoti senza guardarlo. (“Mamma, hai visto? C’è il sole! È finalmente
una bella giornata!”. Silenzio e occhi spenti. “Mamma, possibile che non ti
rallegra il sole? Guardalo. È un dono tutto per te oggi!”. Silenzio e occhi
spenti. “Ma come è possibile che non ti si allarga il cuore per questo raggio
di sole dopo tanta pioggia?”, stupidamente ancora io, mentre gli altri figli si
astenevano. Silenzio e occhi spenti. Silenzio. Laghi di pianto trattenuto gli
occhi, e il suo abbandonarsi esausto sui cuscini, noncurante del sole della
bella giornata delle mie parole a rincuorarla.
Alcuni
anni dopo, solo qualche anno fa, anch’io ho guardato il sole con indifferenza
da una finestra d’ospedale dove stavo lottando per sopravvivere. Mi sono
ricordata di lei e del suo rifiuto inerme. Non più quel suo sorriso sempre
pronto e generoso nel lenire ferite. Compresi e mi disperai per quella mia
insistenza fuori luogo in un momento così difficile e doloroso per lei. Le
avevano annunciato il terzo intervento nell’arco di appena tre mesi. Ed era
disorientata. Impaurita. Disperata. Anch’io non ero in condizione di godere del
sole e della sua luce luminosa in quel centro di riabilitazione in cui mi
sentivo debilitata. Anch’io evitavo di guardarlo per non provare la ferita di
dovergli probabilmente dire addio. Come avevo potuto pretendere che lo
guardasse lei che aveva i giorni contati e lo sapeva? Come poteva sentirsi
rasserenata, e paga di quel raggio di sole? Non avevo capito niente di mia
madre e della sua anima prostrata e vinta!
Come
si può essere così superficiali, anche quando le nostre parole sono dettate
dall’amore? Anche quando sono dettate soltanto dalla preoccupazione di alleviare
le sofferenze di chi amiamo? Evidentemente si può. (Ma oggi mi chiedo: sappiamo
veramente cosa sia giusto dire e cosa evitare? Quante incomprensioni in un atto
di amore… Eppure accade. Sì, accade. Siamo incapaci di totale comprensione di
ogni altro da noi. Fosse pure nostra madre. C’è qualcosa in noi di veramente
unico e irripetibile, che è solo ed esclusivamente nostro, che ci impedisce di
comprendere appieno l’altro e di farci comprendere pienamente dagli altri. Si
salva la nostra individualità ma non la nostra socialità. La nostra
affettività. Miliardi e miliardi di stelle, ognuna col suo nome, la sua costellazione,
la sua distanza anni-luce dall’altra. Di qui la difficoltà di ogni
comunicazione. Di superare il vuoto che ci separa, pur vivendo spesso nella
stessa galassia). Quella strana
inevitabile condizione di imperfezione e di non totale comunicazione era
purtroppo accaduta anche tra me e mamma. Mio
malgrado Suo malgrado. La
salutammo mentre la portavano in sala operatoria con l’ultima figlia che la
seguiva passo passo, e mi sembrò un uccellino spaventato e tenero con quella
sua cuffietta di lana rosa per non prendere freddo ed era una bimba alla prima
passeggiata all’aperto. Aveva la stessa aria stupita, non d’incanto infantile
per la scoperta del mondo, ma di disincanto per un mondo conosciuto amato
ignorato perduto. Ci aveva raggiunto anche Mimmo, che porta il nome di mio nonno modernizzato e che fisicamente
gli somiglia molto. Ed ora eravamo tutti con lei e per lei a sperare e a
pregare. Mancava solo Anna Maria, presente con continue telefonate. Il
chirurgo-mago ci tranquillizzò, ci disse che potevamo tornare a casa perché di
lì a qualche giorno sarebbe tornata anche lei. Avremmo dovuto usare
accorgimenti e precauzioni, ma il peggio era scongiurato. Rincuorati,
ripartimmo per preparare la sua camera con tutti i comfort ad accoglierla.
Durante il viaggio di ritorno, facemmo progetti per lei. Io mi ripromettevo di
esserle più vicina come non lo ero mai stata per tutti gli anni precedenti. Ora
sarei stata più libera (il 2000 aveva segnato la interruzione a tempo
indeterminato dei Concorsi nella scuola!) e mi sarei dedicata esclusivamente a
lei. L’avrei portata in vacanza con me. Saremmo state finalmente insieme.
Progetti che ebbero il respiro breve di quel raggio di sole in quei giorni di
interminabili piogge di inizio primavera, che tardava a giungere e che io
sognavo per lei tiepida e con passi di rugiada. Il luminare avrebbe dovuto
dirci che “il peggio sembra scongiurato”, non che “è scongiurato”.
Quella
notte del ritorno sognai mio nonno. Stavo camminando sull’orlo di un
burrone di cui non vedevo la fine, tanto buio era il fondo da non distinguere
se vi fosse un bosco fitto di alberi cupi o il mare con la sua nenia sommessa o
la pianura con i suoi campi coltivati. Mi sentivo sola e disperata e non sapevo
perché stessi camminando proprio sul ciglio della strada in quel silenzio
spettrale e in quella oscurità così spaventosa. Ad un tratto, lo vedevo seduto
proprio lì sul bordo di quell’orribile precipizio a guardare nel vuoto. Lo invocavo,
dapprima senza voce. Poi, avevo preso a chiamarlo con voce sempre più forte e
disperata, ma non si girava. Ostinatamente continuava a guardare verso l’abisso
senza rispondermi e senza voltarsi. Sembrava sordo ad ogni mio richiamo. Mi
svegliai sudata e spaventata con un brutto presentimento, confermato da una
telefonata concitata che ci informava che stavano portando mamma in ambulanza
con il pericolo che morisse per strada. Purtroppo mamma aveva avuto un
improvviso repentino peggioramento. Una dottoressa, nostra cara amica, Teresa
A., si assunse la responsabilità, con grande coraggio, di permettere il
trasferimento, da quell’ospedale del Nord nel profondo Sud della nostra casa,
in un’autoambulanza privata, con lei sempre vigile al suo fianco e con nostra
sorella, attento angelo a colmarla di carezze. Giunsero stremate entrambe,
madre e figlia, tra lacrime brevi, e parole affaticate e non sempre lucide. Due
giorni appena rimase con noi tra spasimi che ci destabilizzavano e tenui
sorrisi di affettuosi addii. Ci lasciò stanca di aspettare e di soffrire
all’alba della domenica e ci sembrò un pesce d’aprile, uno sberleffo atroce sul
nostro pianto a lasciarla andare. Capii allora il perché dell’ostinato silenzio
di mio nonno. Era il suo modo di dirmi “non posso farci niente, questa volta
non posso aiutarvi”. Anche Teresa, la vedova di Filippo, figlio adottivo del
nonno, quella notte aveva sognato suo marito che le diceva che era passato a
salutarla perché era venuto a prendere comare Melina, la sorella che non aveva
mai avuto e che aveva tanto amato. Per portarla tra le stelle da tutti gli
altri che erano in attesa di riabbracciarla. Si affrettò a raccontarcelo tra le
lacrime mentre stava lì con noi a darle l’ultimo bacio. E finalmente la sentimmo al sicuro tra le braccia che tutti accolgono
con infinito amore.
E
solo dopo, solo dopo ho capito molte
più cose di lei. Della sua sofferenza silenziosa. Solo dopo ho sgranato i miei
tanti rosari dei comportamenti sbagliati con lei, anche con lei. I lunghi
silenzi. I rarissimi incontri. La solitudine dolente che le procuravo (ti ho persa vivente… non ti preoccupare fai
le cose che devi fare… vieni quando puoi venire… chissà se ti rivedo ancora…)
Ed
ora che mi manca come il respiro, lei non c’è nella sua casa per andarla a
cercare e coccolarla con tutte le confidenze mai più sussurrate, con i baci mai
più dati, con le carezze che avrei voluto depositare sulle sue guance di pesca
chiara. Mi conforta a malapena il ricordo dei rari incontri nella sua casa e
del mio prenderle la mano per coprirla di teneri tocchi leggeri con le labbra e
i suoi occhi si slargavano di luminosa accoglienza in uno sguardo di illimitato
perdono…
E
anche oggi non posso continuare. Ho lacrime cocenti ad impedirmelo. A presto.
Lina
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