Dove se n’è andato Elmer
Che di
febbre si lasciò morire
Dov’è
Herman bruciato in miniera
Dove sono
Bert e Tom
Dormono,
dormono sulla collina
Dormono,
dormono sulla collina
(Fabrizio De Andrè, Sulla collina)
Oggi
sempre più attraverso tempi di silenzio e di dolore, dati i miei lunghi anni e
i problemi di salute che non mancano, e sento sempre più il bisogno di
condividere la mia muta preghiera con quanti, negli anni, hanno raggiunto il
Cielo, ma VIVONO quotidianamente nel mio cuore. Di condividerlo sul nostro
blog. Mi sembrerà più facile abbracciare insieme la croce del dolore. E parto
dalla perdita più grave e da una data segnata a caratteri cubitali nella mia
anima.
1967.
11 gennaio: il mio amatissimo nonno-papà.
Il protagonista di quasi tutte le mie storie, le mie poesie.
<
Sempre, nei tuoi ultimi anni con noi, mi sorprendevo più volte a pensare che accettavi la
morte delle persone care con serenità, come naturale epilogo della vita (ho
detto addio a Michelino… ho salutato per sempre fra’ Francesco… se ne è andata
nonna Anna… ho perso il mio amico Vincenzo… e Giovanni ci ha lasciato…). Quando
eri ancora in grado di camminare di buon passo, spesso ci portavi con te e con la
nonna al cimitero, che voi chiamavate, come tutti gli altri del resto, “u
cambəsàndə” (il camposanto), che a me piaceva molto di
più del termine “cimitero”. Il camposanto sapeva di silenzio e di preghiera, di
luogo sacro e benedetto. Il cimitero ancora oggi non mi comunica alcuna
emozione. Solo tristezza. Con te e la nonna andavamo a visitare nella Cappella
di San Michele e in quella più piccola della Madonna di Loreto i tuoi genitori,
fratelli e cognate e quelli di nonna Angelina. E anche allora registravo
la tua serenità di fronte alla morte (una volta, dopo aver comprato i loculi
per te e nonna, proprio nella grande Cappella di San Michele, ti sentii persino
scherzare con lei, che rabbrividiva al pensiero che un giorno sareste stati
chiusi dietro quelle lapidi, ammiccando alla sua paura: “mè, ca pòuə n’ama təzzuà da ‘na vànnə all’àltə pə fànnə quàlchə rəsàtə o ‘nu dəscùrsə pə nàn pèrdə l’abətùdənə a racchəndànnə fəssàrè, cə cə sə nòn pòuə cè prìscə stèjə a stà sémbə cìttə cìttə e sòutə sòutə?”… (“dai, che poi
ci dobbiamo bussare da una parte all’altra per ridere e conversare insieme per
non perdere l’abitudine alla chiacchiera, altrimenti poi che allegria si può
provare a stare sempre zitti zitti e fermi fermi?…”) (e il “priscio”,
termine prettamente bitontino, ha un significato del tutto particolare: è più
dell’allegria e meno della esultanza. Ha in sé qualcosa di atteso e di
raggiunto. Un compiacimento carico di sottintesi e, nello stesso tempo,
scoperto, condiviso. Una sensazione meravigliosa di compiutezza da vivere tra
chi si vuol bene o nella intimità della propria anima…)>. (dal solito mio romanzo:
Le piogge e i ciliegi, vol.II).
Mi
torna alla mente, a tale proposito, quanto la grande poetessa Emily Dickinson abbia espresso
magistralmente nella poesia “Morii per la bellezza” (1862): Morii per la bellezza - ma ero appena/ sistemata nella tomba/ che uno che morì per la verità fu deposto/
In una stanza attigua -/ Mi chiese piano “Perché sei mancata”/ “Per la bellezza” risposi -/ “E io - per la verità - sono la stessa cosa
-/ noi siamo fratelli” disse -/ Così, come congiunti che si incontrino di
notte/ - parlammo fra le stanze -/ finché
il muschio raggiunse le nostre labbra -/ e coprì - i nostri nomi - (E. DICKINSON, Poesie, trad. it.M. Bagicalupo, Oscar Mondadori, 2004)
<Avevi vissuto una vita intensa ed eri in rassegnata pensierosa attesa di lasciarci per andare incontro ai tuoi tanti figli che sicuramente erano pronti a riabbracciarti tra le stelle. Anche il campo dei ciliegi era stato venduto e il giardino dei laghetti. Si avvertiva ormai un senso di vuoto, di provvisorio. Ma occorre tornare un po’ indietro per mettere a fuoco quello che vivemmo e come affrontammo i due anni terribili del tuo calvario: Io e Lizia dormivamo ormai nell’appartamento di mamma e babbo, nella grande cucina che si era trasformata in camera da letto per non profanare il loro letto. Mamma dormiva con la nonna per essere d’aiuto sia a lei che a te. Non l’avevo mai vista così affaticata e stanca. Era ingrassata. Si trascurava, lei che aveva sempre avuto il culto della persona e della bellezza. Io l’avevo sempre vista completamente diversa da tutte le altre mamme delle nostre amiche che avevano forse, come lei, meno di quarant’anni ma ne dimostravano almeno sessanta. Mamma era diversa per acconciatura, abbigliamento, linguaggio, comportamento, pensiero divergente da quello di quasi tutte le sue coetanee (la prima cosa che bisogna fare la mattina appena sveglie è prendersi cura di sé per essere sempre gradevoli durante la giornata… casomai dovesse venire qualcuno, deve trovarsi di fronte sempre una persona che si possa guardare…) e le raccomandazioni di zio Padre Leonardo aleggiavano nelle sue parole. Il suo esempio mi ha guidato per tutta la vita nel prendermi quotidianamente cura di me come faceva lei (anche i comportamenti a volte si ereditano?). Registravo i cambiamenti epocali pure da queste piccole preoccupazioni quotidiane delle donne di casa, appartenenti a generazioni diverse: per la nonna era stato il letto da rifare l’impegno prioritario del mattino; per mamma il guardarsi allo specchio per rendersi gradevole; per me il primo pensiero era scrivere lunghe lettere a Primo o studiare per un esame a breve scadenza, leggere qualche pagina del romanzo lasciato sul comodino. Ascoltare musica. Dipendeva dall’umore e dai sogni, notturni e diurni. Dipendeva dalle notizie del giornale radio che ora ascoltavamo quotidianamente. E con attenzione. Con discernimento (…).
1977: E dieci anni dopo, il giorno di Santa Lucia,
il 13 dicembre, ci raggiunse la notizia che zio Padre Leonardo, il tuo amato fratello, era venuto a raggiungervi.
L’ultimo di voi, così come era stato l’ultimo a venire al mondo. Mi giunsero
dal convento alcune lettere e alcune foto. Piansi. E sentii che un altro
capitolo della mia vita si era chiuso per sempre. Che anche a quel mio idolo in
carne ed ossa dovevo dire addio, addio al suo sogno d’amore e alle sue parole
d’arpe e violini di vetrate policrome e misteriose cattedrali… La mente in deviazione mi riportò il ricordo
di quel suo disappunto, ospite da noi, a causa della piccola truffa che tu
avevi subìto dal tuo salumaio di fiducia per via di una “carta” di prosciutto
crudo che si rivelò ben presto, a casa, poco fresco. Quel “presciutto” più
scuro del suo solito colore rosso vivo lo turbò a tal punto che ne parlò in
chiesa durante l’omelia, creando un certo scompiglio tra gli ignari
parrocchiani. Tu, di ritorno a casa, sminuisti l’accaduto con una facezia sui
preti che qualche volta si prestavano a farsi complici di qualche ladruncolo di
galline. Non ricordo più il tuo divertito racconto, ma mi torna alla mente solo
una breve raccomandazione del sagrestano al celebrante che, sull’altare, stava
nascondendo un pollo sotto la sua veste sacramentale: “abbàscə la cóta, dòminə, ca sə vètənə rə ciàmbolìnə!” (abbassa la
veste dietro, signore, perché si intravedono le zampette!), ma le sequenze della storia erano molto più
lunghe e complesse e ridanciane e mi avrebbero ricordato, più tardi, alcune
novelle del Boccaccio. Zio rise di cuore con te e con tutti noi. E la faccenda
del prosciutto stantìo fu ben presto dimenticata. (Peccato, però, che non
riesca più a ricordare quella tua storiella così simpatica e divertente! E
nessuno degli altri tuoi nipoti la ricorda. Solo io, purtroppo, ho conservato
in buona parte, grazie a te, la memoria storica di quegli anni…). E, ritornando
a zio Padre Leonardo, quanta luce nella nostra casa con la sua straordinaria
presenza! Quanto vuoto, dopo! E, questa volta, è uno scoramento di parole
meravigliose perdute non alla memoria del cuore, ma ai giorni che ci
sorpresero, più tardi, di muto silenzio senza te, senza lui: i due più grandi
affabulatori della tua famiglia. Zio Padre Leonardo era stato per tutta la vita
viandante solitario, e solo da qualche anno non viaggiava più. Eravamo stati
suoi ospiti a Perugia, dieci anni prima, in viaggio di nozze e allora ci fece
da guida per tutta l’Umbria: Assisi, Todi, Gubbio, Cascia, Spello. Ancora
agile, ancora di passo svelto e risoluto. Ancora ricco di battute, aneddoti,
riferimenti colti. Ancora il mio mito e il mio ascolto. Poi, tornò a stare con
noi nella tua casa quando nacque Ombretta.
Sì. Fu proprio quella l’ultima volta che venne da noi. E, infine, solo due anni
prima, come già detto. E, nonostante l’età, era ancora un faro luminoso prima
di spegnersi tra le stelle accese. Dopo la sua morte ci furono anni di tregua
dal dolore, ma intensi di lavoro. Dell’insegnamento nella scuola e nella mia
casa. Anni di studio per il necessario, continuo aggiornamento. Di impegni
culturali. Di rari incontri tra di noi, genitori e figli, nella nostra casa.
Non ne avevamo il tempo.
Ma
appena quattro anni dopo ecco altri addii. Dolorosissimi. Devastanti>.
1982: Nonna Uccia, la mamma di Primo, segnò il ritorno della
campana e il suo rintocco di fiele. Nonna
Uccia! La sua morte improvvisa per un
ictus e la macchina in corsa per raggiungerla in ospedale nel capoluogo
salentino e il pettine accarezzato dalla mia mano tra i suoi capelli spaventati
a tranquillizzarla a darle attimi d’amore e il suo braccio proteso verso i miei
passi prima dell’addio per un abbraccio ancora. Ma era tempo d’andare… E
l’inutile nuova corsa, più lenta della prima, con occhi di pianto solo il
giorno dopo. E il dispiacere di non aver prolungato quell’ultima carezza sul
suo richiamo prima di andar via “Linaaaa…”. E il suo braccio proteso e la sua
mano a tentare di afferrare la mia, mentre quel richiamo si faceva coltello che
mi raggiunse e si conficcò nel cuore. E rimase il ricordo dei tanti giorni
estivi trascorsi nella sua casa al profumo di fragranti paste all’uovo per il
latte e di polpette col ragù, e di “frise
e friséddhe”, “gnemmariéddhi”. E
voci all’alba. E silenzi di televisione al tramonto. E storie da raccontare ai
nipotini al mare a due passi dalla riva. E una casa di fioroni. E l’incontro
con tutti per le vacanze d’estate… (“passò
quel tempo Enea che Dido a te pensò”… era ormai la sua colta affermazione,
ogni volta che litigava con nonno Mario, cosa che avveniva sempre più spesso). Oggi,
quando raramente mi capita di tornare nel paese dei miei suoceri e di passare
davanti a quella casa delle molte estati e delle tante parole e dei giochi
bambini, mi assale uno sgomento di silenzio, di voci perdute, di presenze
invisibili… E il ricordo si fa lago di scoramento e malinconia… di tante voci non è rimasta neppure un’eco
a risarcirmi di tanto vuoto…
E, nello stesso anno, persi Rosa
(dai fulvi capelli). Il tormentato,
difficile, doloroso distacco e l’infanzia e l’adolescenza e la giovinezza fatte
a pezzi nel tritacarne del dolore che non si accetta perché non può essere vero
che a lei proprio a lei così equilibrata e sorridente, così amata dal suo sposo
e dalla nidiata dei figli, ancora tanto bisognosi del suo amore, possa essere
riservato lo squarcio di uno squilibrio devastante per un neo come fungo
velenoso a strapparla ai suoi bambini, occhi d’innocente preghiera. (Pino,
il figlio maggiore, al suo capezzale, in quella corsia di ospedale, a volerle
trasfondere la sua anima attraverso uno sguardo di lacrime trattenute, che
reclamavano a gran voce la sua vita, anche per le sorelline Marina e Anna Paola). A strapparla a
suo marito, volto devastato di troppe lacrime inascoltate. (Oh, quanti giorni
di parole disperate da raccontarci insieme a casa o a scuola per farcene una
ragione, dove ragione non c’era). A sua madre, statua di disperata tenerezza e
di rassegnata impotenza. Alla sua casa a un passo dalla mia. Vuota ormai della
sua attenta, affettuosa presenza. A
me che, incredula e pavida, le negai il coraggio dell’ultimo sorriso. Alla
giovinezza di quella chioma di fuoco da tempo amputata come la sua gamba. Il
suo andare, con le nostre spente copiose lacrime verso il cielo delle stelle
chiare e luminose.
Rosa (dai fulvi capelli)… e
il nostro incontro con mani bambine a stringere i nostri sette anni di scoperta
di noi in case tanto vicine da regalarci un quotidiano “dietro l’angolo”, con
occhi assonnati e libri da sistemare nella cartella… Rosa (dai fulvi capelli): insieme avevamo condiviso, in
tutti gli altri anni sino ai quaranta, amicizie matrimoni bambini incontri e
confidenze e consigli e risate per le battute al cianuro di Primo a Biagio, l’innamoratissimo compagno di
vita di lei, sempre discreta e accogliente, e di Biagio a Primo, in un gioco di
rimandi al vetriolo. Ma si stava bene insieme. Eravamo amici. Tanto amici. Con
i giochi dei nostri sette bambini ci alternavamo nelle nostre case vicine. Con la
forza dei tanti sogni sognati in due da quando, noi bambine, ci incrociammo in
via della Repubblica angolo via Generale Montemar, appena ritornai dai monti
del Gargano. Le nostre confidenze bisbigliate nel cortile o lungo il nostro
largo marciapiede. I nostri sogni bruciati sui suoi quarant’anni appena
compiuti (e il sogno del suo consegnarmi tre camicine perché le mettessi in
ordine e me ne prendessi cura senza averne la possibilità e il modo, come
spesso ho pensato e avrei voluto).
E sulla sua
dolorosissima perdita mi fermo. Riprenderò domani non per rattristarvi, ma per
attraversare insieme il buio, sicuri che dopo la notte c’è sempre un’alba che
ci attende. Ange-lina
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