Ed ecco la Giornata Mondiale del Libro. ben vengano queste Giornate Mondiali a rinverdirci memorie che andrebbero perdute come la maggior parte dei giorni vissuti che si perdono spesso nella fitta nebbia del passato non tenuto in vita da una emozione, da un sogno, da una nostalgia. Il Libro. Quanti libri letti e dimenticati. Quanti libri a scaldarci ancora mente e cuore. Quanti libri regalati con dedica e un fiore. Quanti libri prestati senza ritorno. Quanti libri impolverati e libri addormentati nella loro custodia in attesa del risveglio. E libri perduti e libri dispersi. Libri ricomprati per una frase, una parola, un silenzio. Libri con note a margine per non dimenticare. Libri che raccontano anche di noi. E tanti libri scritti da me e da Primo che raccontano di noi due.
Il racconto di noi due. La nostra
storia al passato. In una casa nostra al passato. E, in quella casa, i suoi
tentativi d’incontro spesso fallimentari e nuove chiusure. Al passato.
Disperati silenzi. Non ho più saputo dei suoi pensieri. Lui ignorava i miei o
forse li intuiva. Ore di silenzio nei nostri giorni quasi estivi o autunnali,
seduti vicini sulle sdraio in terrazza senza scambiarci una parola, chiusi noi
nei nostri pensieri di rimpianti, nostalgie, sogni senza più un filo arcobaleno
ad unirci.
Un tempo “eravamo ricchi di tutto
quello che abbiamo dissipato”, sosteneva il poeta del primo Novecento Renato
Serra, ed ora non ci rimaneva che il silenzio. Non il silenzio che amavamo in
cui era più facile ascoltare le nostre anime. In quel silenzio della sera io
ritrovavo l’atmosfera d’intimità e d’amore che si creava nelle nostre antiche
sere, quando al buio, rischiarato dalla luce del crepuscolo, con i nonni
respiravamo sussurro di preghiere, il rosario quotidiano, seduti dietro i vetri
della porta che s’affacciava sul cortile. Ed era un silenzio d’anime tra le
parole del cuore. Anche io e Primo avevamo vissuto per anni quel silenzio che
ci univa e ci cantava dentro.
Se torna il silenzio/ al di là della strada/ allora parleremo
piano/ muovendo appena le labbra/ e il respiro sarà breve/ come la distanza/ tra
le nostre mani./ Se torna il silenzio/
Parleremo con gli occhi,/ antichi gesti/ fioriti sulla pelle,/ ma saremo pronti/ poi/ a chiuderlo/ in
fondo ad un armadio
per guardarlo/ dopo/ quando
l’ansia sarà placata/ sotto le lenzuola/ vinte/ e segnate/ dal nostro amarci. (Primo Leone,
“Se torna il silenzio”)
Poi lo avevamo perso per strada il
silenzio buono e ci era venuto incontro suo fratello, il silenzio cattivo,
quello che divide e non perdona. Il silenzio del rancore e delle parole
mancate, taciute, disperse e mai più ritrovate. Sì, il silenzio cattivo che, se
si protrae a lungo, non riesce più a ritrovare le parole per creare spiragli
nella spenta sintonia, per riaccendere dialoghi con l’ultimo fiammifero
dimenticato nella scatola dei ricordi e dei progetti. E tutto tace. Anche il cuore. Ma, oggi che il tempo si è fermato
sul suo tempo finito, che il mio tempo si è dilatato pur scorrendo sempre più
in fretta tanto da farmi temere di non averne più abbastanza per districare nodi
sempre più pressanti e dolorosi nella nostra casa e nella mia vita, doppiamente
responsabile di quella dei miei figli, oggi mi chiedo sempre più dei suoi
silenzi, del suo mondo, dei suoi pensieri. ‘Cosa pensasse? A cosa o a chi
rivolgesse la mente e il cuore? Sempre più chiuso nel bunker dei suoi interessi
e delle sue passioni senza più il fuoco giovanile e della maturità a
rinfocolarli. Quali i suoi ricordi, i suoi sogni, i suoi progetti? E quali e
quanti? E le sue amarezze, le sue emozioni, le sue delusioni? Includevano
ancora me o mi escludevano?’ Oggi che il suo tempo si è fermato e che il mio si
è dilatato, oggi mi chiedo perché abbiamo perso tanto tempo, tutto il tempo che
ci rimaneva, sprecato nel silenzio, senza comunicarci il cuore per sentirci vivi.
E uniti. Indispensabili l’uno all’altra come in realtà eravamo, perché
nonostante tutto eravamo incapaci di scrivere la parola fine alla nostra
storia. Di prendere strade diverse. E non per quieto vivere. Non per abitudine.
Come spesso capita tra coppie di lunghe stagioni insieme. Noi eravamo “l’amore necessario”, come dicevano del loro amore,
aperto a mille venti e a mille incontri altri, Jean-Paul Sartre e Simone de
Beauvoir. Lui, appena entrava in casa, mi chiamava: “Lina, dove sei?” oppure
chiedeva a Raffaella: “e tua madre dov’è?”. Io facevo altrettanto ad ogni mio
rientro, anche se con l’eterno timore di un suo ruggito, di una sua zampata a
raggelare intenzioni e slanci di passione o di semplice affettuosità. Di tanto
in tanto, adottavamo qualche nuova strategia per riscoprire complicità perdute,
come quando, ormai alle prese con gli acciacchi inevitabili degli anni della
neve e del gelo nelle ossa e con i quotidiani lamenti per i nostri “dolori di
quando mai”, c’inventammo “il giorno del non-lamento”, il venerdì, in cui
nessuno dei due avrebbe dovuto dire neppure un “ohi!”. E per alcuni anni fino a
quella notte dell’inevitabile lamento, mantenemmo il rigoroso silenzio,
fragorosamente interrotto il sabato con tutti i centuplicati “ohi!” soffocati
il giorno prima. E scoppiavamo a ridere per quella tregua e quella rinnovata
autoironia che ci univa ancora. Quanto vitali sono state sempre le risate nelle
case antiche e nuove da me abitate.
(Se
si è ancora capaci di ridere insieme, in qualsiasi rapporto, gli screzi si
ricompongono, i muri crollano e le montagne d’incomprensione si appianano). Sì,
sapevamo ridere di noi. È stato uno dei collanti più forti a tenerci uniti. L’altro,
la creatività moltiplicata per due e data in eredità ai figli. Tutti e quattro ne portano il segno come scia
luminosa ad attraversare i nostri cieli, vicini e distanti:
Raffaella è una straordinaria
presentatrice e coordinatrice di eventi culturali nonché delicata scrittrice
per l’infanzia e i ragazzi e per adulti col cuore bambino.
Ombretta è una bravissima “fumettara”
o “fumettista”; è anche organizzatrice di musical famosi e di altri inventati e
scritti da lei per gli spettacoli che si vivono coralmente nella scuola, dove
insegna con impegno e creatività.
Giuliano è un fuoco d’artificio di
battute, del paradosso, dell’ironia e dell’autoironia sia sui social sia via
radio. Ora è anche intrattenitore e speaker in una importante radio della
Capitale. E scrive divertentissime ministorie che definisce “true story”.
Daniela già da ragazzina ha scritto
intensi e originali racconti, che feci pubblicare come dono per i suoi diciotto
anni. Poi, aveva cominciato a scrivere con suo padre un romanzo a quattro mani,
molto particolare, ormai interrotto. E io continuo a sollecitarla perché
riprenda a dipanarlo con l’assenza/presenza di chi non può più fisicamente
condividerne la scrittura. Sdoppiandosi e ricomponendosi in una unità che possa
racchiudere il respiro di suo padre e il rimpianto di lei, sua figlia, che ultimamente
ha scritto per lui “darei nove anni della
mia vita per vivere anche un minuto del tuo ultimo giorno”. Non sempre la
morte delle persone amate ci distrugge, come era capitato a me dopo la perdita
di mio nonno, spesso ricompone i fili scompaginati della nostra esistenza.
Ma
in principio fu la divisione. Ci divise la notte di quell’addio tenero accorato
crudele. Primo, sempre preso da sé stesso, in
quegli ultimi minuti aveva pensato esclusivamente a me, a restituirmi parole e
canto del suo amore. Quasi un
risarcimento. Lui, che alcuni anni prima, quasi ipotizzando profeticamente
la sua morte, aveva scritto versi di incredibile generosità: … Non farmi promesse
che manterrai/ nel frastuono del silenzio/ e non vestirti di nero/
- come dicono -/ e di dolorosa allegria
No/ non tendermi la mano/ e non lasciarmi alla pietà della memoria/
quella che non mi appartiene
e che si maschera di nostalgia/ facile preda/ della incertezza dei
sogni./ Non lasciarmi parole pensieri timori/ maldestra eredità/ di quanto non
mi spetta/ di quanto non mi aspetto/ girovago di ciò che diventai/ prima che le
strade/ mi stringessero d’assedio… (Primo Leone, stralcio della poesia “Dove non sono mai stato”, Lontano da ieri, raccolta poetica postuma,
SECOP, Corato 2010)
Primo generoso a sua e mia insaputa?
I nipoti, oltre a Nicola e Anna Paola,
lo ricordano così: pieno di battute per accendere una loro risata soprattutto
durante le vacanze insieme. Lo ricordano per i suoi piatti estrosi e
appetitosi; sempre pronto a fare dei giochi di abilità e creatività con loro;
sempre felice di fotografarli o di riprenderli con la videocamera che solo lui
possedeva; sempre con la voglia di sorprenderli con i mille oggetti insoliti e
straordinari di cui amava circondarsi. Con i primi videogiochi che solo nella
nostra casa erano disponibili prima che nelle loro case. E lui era sempre lì a
divertirsi da matti giocando con loro.
Io, invece, sempre oppressa da immane
lavoro, che mi piaceva e mi sfiniva, ero perlopiù estranea a nipoti e figli,
alle loro ore di svago, ai loro giochi, agli sceneggiati per bambini e ragazzi
che seguivano in TV (Heidi, Anna dai capelli rossi, Ape Maia, Remi, Furia,
Zorro…), e filtravo ormai i giorni del capo tribù solo tra fitte maglie di
negatività. Ma, con gli anni, anche lui non ebbe più tempo e più voglia di
scherzare e ridere con loro. Stavano crescendo. Avevano tutti i loro impegni e
appuntamenti fuori di casa. A me mancava il tempo e la serenità per seguirli
nella loro crescita, nei loro sogni e bisogni, nelle loro prime esperienze
d’amore. Potevo ascoltarli solo per breve tempo, la sera. Ci raccontavamo
quello che ci potevamo raccontare. Si era perso il tempo lungo dell’incontro e
del racconto. Non più focolari ad ascoltarci. Difficilmente riuscivamo persino
a parlarci tra di noi… Primo diventava irresistibile solo fuori con i pochi
amici che “gli andavano a genio”, oppure in una radio locale, dove si esibiva
in una trasmissione tutta da ridere, “La gabbia del Leone” (bella la sigla: El
Bimbo…). E, immancabilmente, mi dedicava, a fine trasmissione, una poesia, una
canzone d’amore. E questo mi appagava. Mi faceva sentire amata. Mi sorprendevo
qualche volta a pensare, nel nostro dialetto, un modo di dire tipico della
nostra gente: “amarə də casə e allégrə də
chiàzzə” (“cupo in casa e allegro in piazza”). Pian piano anche i figli avevano preso le distanze. Ma i giovani, parenti o
conoscenti, gli amici dei nostri figli continuavano ad ammirarlo
incondizionatamente. Lo adoravano. Per la giovanilità dei suoi comportamenti,
dei suoi hobby e interessi, della musica che ascoltava e dei film che amava.
Per i guizzi geniali della sua ironia… (non
fate domande se non siete in grado di capire le risposte… Non aprite la bocca
se prima non l’avete collegata al cervello… Non è possibile che tu abbia mal di
testa se non hai mai avuto la testa in testa…).
Solo
dopo, la misura della sua assenza. Solo dopo, il vuoto.
C’è un vuoto come di giorni inutili/ che albeggiano senza luce
richiamo di vento/ e un incessante battere di pioggia ai lucernari/ Mia
compagna di notti insonni la pioggia/ quando ogni nuvola è appiglio di presagi/
più che le stelle in un precipizio di assenza/ C’è come un vuoto d’esistenza/ che
brancola tra pensieri dispersi nel buio/ a darmi inesistenti coordinate spazio/
tempo del tuo starmi lontano “di là” dove mi hai detto/ d’aspettarmi oltre il
confine/ perché mi sai indifesa in terra di lupi/
“Io da sola mai” - ti
dicevo d’improvviso -/ senza dare e cercare perdoni/ in una consuetudine di
rabbia e dolore/ che ignorava il tuo cuore indifeso/ nel gesto d’impossibile
ritorno/ a quel silenzio che ci univa/ e rendeva invisibile agli altri/ quell’alchimia
di noi colma di passione// (di mani tra i capelli prima/ e dopo che si
facessero amore) (a.d.l., “C’è un vuoto”, da L’ora
dell’ombra e della riva, SECOP edizioni 2017)
E
dopo Primo, ecco nel 2009 un altro volo,
preannunciato, tra le stelle. Pinuccio. 20 febbraio. E mi sfugge l’ora. Pinuccio, compagno di vita di Lizia per
oltre quarant’anni. Pinuccio, che al funerale di Primo aveva detto “queste
sono le prove generali anche per me” fu
buon (o cattivo?) profeta di sé stesso. Le sue condizioni di salute, sempre più
malferme negli ultimi anni, ben presto si aggravarono con vari ricoveri e una
lunga, devastante agonia fino al triste epilogo. Lizia alcune notti prima aveva sognato la data del suo lasciarci. E
fu una morte annunciata. Difficile a credersi, ma spirò proprio quel giorno
segnato di rosso e senza seguito. Sì, nella vita si registrano anche questi
accadimenti inspiegabili con la sola ragione, e non li vivo con sgomento e
apprensione solo io. Constatazione confortante, che mi dà quasi un respiro di
normalità (ma cosa sarebbe poi la normalità?). Con lui perdevo un fratello, cui
dovevo eterna riconoscenza per come si era preso cura di me, oltre che dei miei
nonni, negli ultimi anni della loro vita. Sempre disponibile. Attento. Un
sostegno. Un sollievo. Sì, quanto aiuto fraterno quando Primo era assente ed io
caddi nel baratro della depressione di cui ho già parlato, ma anche dopo il
matrimonio e la nascita dei miei primi tre bambini. Ogni volta che stavo male
lui era presente. Come dimenticare! Non è possibile dimenticare neppure il suo
sguardo di malinconica accettazione della vita. E i suoi scoppi di risate. Mi
mancano i suoi sprazzi di allegria come esplosione di coriandoli ai nostri
carnevali dimenticati.
Come mi mancano le battute di un
grande amico perduto solo due anni dopo.
Il 2010: Bruno, che, con la sua meravigliosa compagna Ada e i suoi splendidi tre figli (Leo,
Vania, Tonio, che ancora oggi continuano a chiamarmi zia), ha reso i lunghi
anni della nostra amicizia una continua scoppiettante fanfara, tenera e
maliziosa, di battute, di risate, di effervescente generosità.
Ma già prima di lui ho dovuto dire
addio a Corrado, eroico marito di Maria, sorella di Ada. Di loro e della
loro straordinaria storia d’amore, prima che sia troppo tardi, scriverò, per
lasciare un altro richiamo ai giovani di oggi perché sappiano che il vero amore
esiste ed io, anche tramite loro, posso testimoniarlo. Corrado è una promessa e
una nostalgia. Maria, un canto di abnegazione. Bruno è altro rimpianto scolpito
nel cuore.
È
come in una sinfonia degli addii,/ Dapprima un oboe e un corno/ Poi il fagotto
e un altro oboe/ Quindi l’altro corno e il contrabbasso,/ Ciascuno eseguendo/
Prima di terminare/ Il suo piccolo assolo:/ Lasciando il movimento spegnere/ Sull’ultima
battuta/ Dei violini. (Franco
Buffoni, “Separazione”, da Poesie,
2012)
Una intensa rivisitazione di un grande
poeta contemporaneo della “Sinfonia degli addii” di Haydn e dei sui musici… Suggestione
di un concerto particolare che ha suggerito ad una mia amica, straordinaria e
dolcissima poetessa, il titolo della sua dolente e luminosa raccolta di poesie I musici di Haydn (Ada De Judicibus,
SECOP edizioni).
<E ora riprendo a scriverti. Mi ero ripromessa di scrivere solo dei
momenti di gioiosa spensieratezza e delle esperienze belle vissute nell’arco della
nostra vita (mia, tua e degli altri), e invece mi accorgo che questi ricordi
sono ben più tristi di quelli del precedente volume a te dedicato. Non sempre
si possono mantenere promesse e buoni propositi. Qualcosa, al di là della
nostra volontà, ce lo impedisce.
Dopo di te, del resto, ho dovuto
sempre più confrontarmi con la morte, io che ne avevo terrore e cercavo di
tenermene lontana. Giunge anche il tempo che la vedi fiorire come gramigna ad
ogni passo e non si può più ignorarla o fare a meno persino di parlarne. E qui
non faccio che parlarti di morte e di morti. Come se la vita non fosse niente
altro. Oppure mi stesse precocemente presentando il conto... (...)
Buona lettura a tutti con tanti libri
che ancora aspettano il nostro sguardo, le nostre mani, i nostri pensieri, le
nostre riflessioni, i nostri buoni propositi di far tesoro dei Libri migliori
per realizzare i nostri sogni e di quelli che ci abitano accanto… A presto. Angela/Lina
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