Si va avanti. Si riprende con la speranza di una primavera senza incertezze. Aprile sta per cancellare nuvole e acquitrini per fare spazio al magico incanto della neve in attesa della festosa allegria dei papaveri di maggio, mese che io amo di più fra tutti gli altri per mille e mille motivi. E, intanto, ricomincio con il tenero racconto di Maria Concetta Giorgi, intitolato “Irma e la gatta” che già è motivo di stare bene insieme tra di noi, anche se non siamo a settembre: Un settembre fresco, dopo la prima pioggia, le noci furono pronte per essere raccolte, qualcuna già cadeva sul tetto. Irma sul tetto ci poteva arrivare, c’erano scalette che portavano alla legnaia sopra alla casa. In montagna è così. Di fianco alle scalette, il tetto della vicina di casa e un noce stupendo che lo copriva. I rami scendevano quasi a volerlo proteggere. Non ci voleva niente a salire lì sopra e poi Irma era minuta, un piccolo grillo per corporatura. Stesa al sole settembrino, si godeva gli ultimi raggi caldi, poi cominciò il raccolto. Erano più le noci che mangiava che quelle che raccoglieva. La cassettina si riempì velocemente, ed ecco che tra lucertoline che correvano veloci e file di formiche, comparve lei, una gatta rossa striata, con gli occhi chiari. Annusò la cassettina, il muso tra le noci… poi guardò Irma che si era fermata a osservare incuriosita. Si incontrarono per diversi giorni, Irma sul tetto e lei vicina a cercare un po’ di tenerezza. Si mettevano al sole, il silenzio era rotto solo dalle folate di vento, dai miagolii e dalle fusa della gattina. Settembre finiva, sul tetto era più difficile stare, cominciava a far freddo. Un pomeriggio la gatta arrivò più silenziosa del solito, si strisciò sulle gambe di Irma, poi si allontanò col suo solito fare indifferente. Irma la seguì con lo sguardo fino in cima al tetto, quando la gattina si girò quasi a salutarla, il profilo era cambiato, una pancia prominente si mostrava in tutta la sua bellezza. Fu l’ultima volta che si videro. Tornò la primavera e il tetto si animò nuovamente. Irma salì dalle scalette, assieme alla gatta c’erano tre gattini già cresciuti (mcg).
Inno
alla vita e alla primavera che sempre ritorna e ci regala i suoi prodigi. Anche
nel nostro giardino si moltiplicano colonie di gatte, gatti, e gattini che ogni
mattina ci danno il loro buongiorno e il loro canto di amicizia e libertà. Ve
li presenterò un giorno, con le loro personalità ben distinte, la loro astuta
intelligenza a renderli predatori imprendibili, i loro problemi di convivenza,
il loro bisogno di fusa, di coccole, di fughe… Ma il mio calendario teneramente
impietoso continua:
2002-2003-2004: E, nel silenzio feroce che seguì, altri
sentimenti perduti, altre emozioni rinate, altre illusioni deluse. Altre
unioni. Altri amori: Giuliano, mio
figlio, e le sue tante ragazze in una continuità di fughe e di nuovi incontri,
nuovi abbracci e convivenze… Daniela
e il suo primo amore a cui seguirono altri in un’altalena vibrante di sogni e
illusioni.
2005. E il matrimonio di Ombretta, bellissima nel suo abito da sposa e lo sguardo fiero di
suo padre a portarla all’altare in un miscuglio di ansie taciute e di dubbi
repressi e pochi giorni di sorrisi e anni di nuove lacrime e nuovi sentimenti e
rare armonie.
2006-2007. E le nozze dei nipoti divenuti nel frattempo
adulti e i loro bimbi e giorni di rari incontri e di sentimenti conservati nel
cuore con scarse possibilità di un abbraccio, di un sorriso, di una confidenza.
Le maglie dell’amata parentela si allargano sempre più per il tempo tiranno e
gli impegni ad impedire i nodi del cuore da stringere nel cuore. Tra le nostre parole di rimpianto. Tra i
nostri vuoti e silenzi. E la mia voglia di andare via che sempre albeggia
nella mia anima zingara in cerca di nuovi orizzonti. Se non avessi avuto legami
d’amore, e avessi sentito dentro un balzo di leone e non un flebile “ruggito di
coniglio”, sarei andata in giro per il mondo alla scoperta degli altri e di me
stessa. Ma, persa mamma alle mie
braccia, avevo solo cercato una nuova casa per placare il dolore in un luogo
senza assenze. Che non sapesse delle
antiche presenze.
Dopo
il lungo viaggio di mamma verso le stelle, ho cambiato paese e casa e ho
cercato di dimenticare ogni dolore, ogni passato. Invano. Ci portiamo appresso
tutto quello che siamo, siamo stati e abbiamo vissuto. Senza fare sconti alla
memoria che conserva “ciò che non può
dimenticare più di ciò che vuole ricordare” (Simone de Beauvoir). Nel
frattempo, però, erano spuntate altre foglioline tenerelle sui rami dei nostri
alberi fioriti dell’antico giardino: Aurora,
la nipotina di Pino, figlia di Marica, e Nicola e Anna Paola, figli di
Raffaella e Peppino, nella nostra casa prima che mamma migrasse come
allodola senza canto. Prima di trasferirci. Mamma ha avuto ancora un po’ di tempo
per tenere i piccoli tra le braccia come fiori di rinnovate stagioni. Troppo
brevi per una tenerezza fragile da vivere, e troppo lunghe per noi da
ricordare. Con rimpianto Con nostalgia.
Come ultimo suo canto.
E
così, nel nuovo paese in cima alla collina, respiro un verde d’alberi a
confondersi con l’azzurro del mare, presente ai miei occhi e ai miei giorni, e
tetti rossi di case bianche e colorate, annidate tra i prati e gli ulivi che
degradano fino a toccare le lunghe coste del basso Adriatico. Mi piace qui. Ci sono i lucernari
spalancati sul cielo. Amo raggomitolarmi tra il verde e il silenzio e un
pensiero di acqua e sale. E un ritorno di lucciole. Ne ho scoperto una, una
soltanto, giù in giardino tra i cespugli di rose. Quella lucina, che vado ad osservare
trepidante ogni sera nel timore che si spenga, mi conforta e mi accende il
cuore di una fragile speranza. Già da parecchi anni le lucciole sono sparite.
Con grande malinconia registro questa realtà, preconizzata dagli anni Cinquanta
da Pier Paolo Pasolini. Abbiamo perso pezzi di cielo stellato nei nostri prati.
A portata di mano. Come mi accadeva da bambina: manciate di stelle viventi da
portare a casa. Ma, in questa mia nuova casa, l’aria è ancora un po’ pulita.
Qui si può disintossicare anche la mia anima. Un lumicino c’è ancora. Devo fare
attenzione affinché non si spenga. E così vado a parlare con la mia lucciola,
solitaria come me, appena si accende e ci rincuoriamo a vicenda. Non tutto è perduto. Questa casa mi ha
permesso di riprendermi il mio
cane-nuvolabianca che ero stata costretta a mettere in una pensione perché
nella casa dei lunghi balconi e lunghi corridoi non c’era spazio per lui. Salti
di libertà prima, ma subito dopo assalto di cani alla sua docile appartenenza
al giardino di erbe e di fiori e vette d’alberi e ombrelli d’ombra. Si salvò
solo per poco dalla furia dei suoi simili in branco a difendere un territorio
già occupato. Eppure questa casa di smeraldo e un respiro di pini e di rose
aveva posto fine allo strazio del mio pianto e dei suoi guaiti ad ogni incontro
(reso possibile dalla generosità e dall’amore per gli animali della giovane
compagna di scuola di Ombretta e figlia della nostra carissima amica Dina, che spesso
studiava con Lizia nella nostra casa) e ad ogni nostro arrivederci. Per oltre
due anni. Ma aveva lasciato traccia di sangue e di dolore e una lacrima a
scivolargli al nostro nuovo ritrovarci dopo un mese di solitudine perché ero
stata lontana. In vacanza in Salento. Come ogni estate. Nell’imperdibile mare
di puro cristallo che lo Ionio mi regala. Lui, affidato alle cure d’altre mani.
Un cane che lacrima? Sì, raccolsi io quella lacrima di commosso benvenuto alla
sua mamma-padrona. Dopo la ripresa, ha scodinzolato libero nel nostro giardino
per altri cinque anni. In perenne attesa delle mie sempre più rare carezze (per
via delle gambe sempre più deboli a sostenermi) e dei miei quotidiani occhi di
tenerezza dal terrazzo a farlo sentire comunque amato. Poi anche Dylan mi ha
lasciato con uno sguardo lungo di straziato fedele incondizionato amore mentre
lo portavano, malato e stanco, a morire. Altro triste addio. Altro rimpianto. E
nell’anima i tanti animali amati e perduti. Piccina, Lola, Ciccio, Fiorello,
Nerina… Neve, Luna e…
Quella sera del suo perdersi per
sempre alla mia carezza eravamo andati tutti noi al matrimonio di Raffaella, la
figlia dei miei cognati Tonio e Maria Nilde, con Saverio, il suo ragazzo con
qualche anno in più e tanto amore. La mia carissima Maria Nilde, persa nelle
brume incerte di un Altrove che spero sia moltiplicato di stelle e di luce. Un
matrimonio fiabesco tra onde di mare e un cielo d’alberi di foglie commozione
sorrisi. C’eravamo tutti, tranne la madre che pure c’era tra quelle onde,
quelle foglie, quei sorrisi. Io e i miei figli stemmo tutta la sera e parte
della notte in attesa di ricevere notizie di nuvolabianca dal veterinario che
se lo era portato con sé nel tentativo estremo di salvarlo. Fu una notte lunga
di festa sognante, ma altrettanto lunga di attesa e di pianto soffocato e da
tutti ignorato. La mattina fu triste notizia della sua fuga solitaria tra le
solitarie stelle, che si accendono anche dell’incolmato amore dei nostri figli
a quattro zampe e tanto cuore.
E, ormai, con il cuore gruviera,
sopravvivo sotto un cielo che mi riporta ogni giorno ancora un respiro di
cielo. In questa casa che ha occhi grandi spalancati sull’azzurro del giorno e
il velluto della notte. Sì, mi piace questa casa dove siamo vissuti io e Primo
per circa sette anni insieme. E con Raffaella, Peppino e Nicola e Anna Paola: la quarta generazione. In pensione e con tre
figli andati via, uccelli migratori con rari ritorni, io e Primo abbiamo
riempito questa casa di silenzi e di parole. Io le ho scritte persino sui muri,
le parole, lungo le scale, sotto i lucernari. Sì, abbiamo continuato a
scrivere. Molto meno a raccontare. A raccontarci. Il verde è fonte
d’ispirazione e qui c’è tanto verde. E c’è una striscia di mare che s’inarca
fino a scoprire i monti del Gargano su quel golfo, culla incantata di sogno,
che tanta parte ha avuto nel far nascere il nostro amore. Sì, scrivo sempre.
Scrivo ancora. E ancora ricostruisco pezzi di me mancanti. E ancora perdo altri pezzi di me. E, infatti, ho perso anche
l’altra Rosa, “Rrrosetta”, come la chiamava mio nonno. Rosa (dai dorati capelli) con la sua eleganza e il suo immutato
affetto per tutti noi. Mi sono rimasti di lei i fantasiosi bellissimi occhiali
firmati e tanti ricordi e molti rimpianti. Avrei dovuto frequentarla di più,
invitarla più spesso nella mia casa. Il lavoro forsennato ha strozzato incontri
e sentimenti. Parole.
Il giorno prima che anche lei andasse via per sempre, colta da un
presentimento a strizzarmi pensieri e ore, la chiamai sul cellulare. Mi rispose
con una voce tremula e insicura. Quando le dissi il mio nome e se si ricordasse
ancora di me, la sua voce si fece più forte “eh, nientemeno, non devo
ricordarmi di te, sei la mia amica carissima. Sei Lina”. “Come stai?”. Ma non
attesi risposta perché non sentisse le lacrime a fiotti che si stavano
riversando nella mia voce. Per non sentire il suo pianto sommesso che si stava
facendo largo tra le sue stente parole. Che presto si sarebbero spente per
sempre.
Rosa (dai dorati capelli ormai argentati), molti anni prima,
l’avevo incontrata per caso alle giostre in un tiepido giorno di ottobre e mi
piacque subito con i suoi riccioli biondi, un sorriso catturante e la sua
maglietta di filo di scozia sul seno già sbocciato e il corpo snello. (quella tua maglietta fina/ tanto stretta al
punto che m’immaginavo tutto/ e quell’aria da bambina… Baglioni più tardi
avrebbe cantato…). Era alta slanciata
luminosa. Aveva quasi sedici anni e io solo tredici da poco compiuti. Mi
avvicinai di slancio e, sorridendole, l’apostrofai: “Ragazzina, come ti chiami?
Vuoi diventare mia amica?”. Al suo sì gentile e premuroso, mi parve di volare.
Mi sentii più alta anch’io e più grande. “Mi chiamo Rosa”. “Quanti anni hai?”. “Quindici
a febbraio, ma ormai sono quasi sedici”. Ero degna della considerazione di una
quindicenne che stava per compiere sedici anni. Non potevo provare gioia più
grande. (Chissà perché mi è sempre piaciuto avere amiche e amici con più
anni di me. Anche se poi sono stata molto amata da alcuni con meno anni. Non ho
mai approfondito questo aspetto della mia e della loro personalità. Occorre
indagare per scoprire in me qualche altro vuoto ancora a me sconosciuto, magari
da colmare o rattoppare prima che sia troppo tardi).
“Dove abiti?”, le chiesi subito, “posso venire qualche volta a
casa tua a chiamarti?”.
“No, se mi dici dove abiti tu, preferisco venire io da te. Sai,
sono più grande…”, fece con una punta di supponenza allegra nella voce e
nell’atteggiamento.
“Mi raccomando, ti aspetto”, feci io col timore che non avesse
alcuna intenzione di diventare amica di una mocciosetta di tredici anni appena.
Invece, venne la sera stessa a casa e divenne nostra ospite
stabile e la mia maggiore confidente. La mia più grande amica tra tutte le
altre mie amiche del cuore, che avevano l’unico limite di essere mie coetanee,
mese più mese meno. E presto anche il nonno e la nonna l’adottarono come
settima nipote, ma il numero era sempre crescente. C’era sempre un posto da
aggiungere a tavola.
Rosa (dai dorati capelli ormai argentati) ebbe poi qualche
fidanzato e poca fortuna in amore. Perse la madre quando era ancora ragazza, e
da quel momento si dedicò con grande cura e tenerezza a suo padre e ad una zia,
semplice e buona, che viveva con loro, e ai suoi due fratelli. Poi, fece anche
da mamma al suo primo nipote, nato una settimana dopo la mia Raffaella. Ma,
dopo alcuni anni, le morì il fratello più piccolo, ancora giovanissimo e da lei
tanto amato, in un incidente d’auto, e da quel momento perse ogni gioia di
vivere e ogni interesse per gli altri. Aveva sacrificato, nella volontaria
clausura, la nostra amicizia, ma non il profondo affetto per tutti noi. E non
la vedevamo quasi più. Solo raramente ci faceva giungere sue notizie. O passava
per un rapido saluto. Poi me ne ero venuta in questa mia nuova casa e i nostri
fili si erano ormai dispersi quasi del tutto. L’ultimo incontro, molti anni fa,
si era concluso con un dolente rimprovero da parte sua:
“Fafarella (così era solita chiamare Raffaella) si è sposata e non
mi hai invitata perché?”.
(Come
dirle i perché senza risposte che tracciano solchi nell’anima di chi chiede e
nell’anima di chi non può rispondere, sapendo di altri solchi che bisogna
evitare per sopravvivere, per salvare sentimenti e dimenticare attese? Come
dirle che avrei voluto tanto invitarla ma che non mi era stato possibile per
tanti impedimenti che non erano spiegabili ora che non avevamo più una
frequentazione quotidiana da permetterci la comprensione profonda di noi? Che
pian piano i lunghi silenzi ci avevano reso estranee a confidenze e problemi?
Io non sapevo quasi più niente di lei, lei di me. Certo, l’affetto era rimasto
intatto ma non la complicità, l’intimità. Anche l’amicizia si nutre di presenza
e di gesti e di parole).
Poi, come fulmine a ciel sereno, la
notizia della subdola malattia. E quella telefonata soffocata nei singhiozzi.
Il giorno dopo seppi che aveva raggiunto sua madre e suo fratello, ma sono
sicura che passò a salutare anche i miei nonni, che per anni l’avevano colmata
di tante attenzioni, di tanto amore. Per lei, e per i tanti nostri amici, erano
“u nònnə e la nònnə”. Sempre.
E non era solo un modo di dire dei
ragazzi nei riguardi degli anziani. Era un saluto pieno d’affetto. Un senso di
appartenenza.
A suo padre ultranovantenne non dissero mai della sua scomparsa. E
lui attese invano ogni giorno il suo ritorno fino a quando la raggiunse dove
avrebbe incontrato anche sua moglie e suo figlio, e tutti gli altri perduti in
lunghi anni di tante primavere e altrettanti inverni.
…
T'incontrai alle giostre della sagra di paese/ e mi confusi nei riccioli tuoi
di grano/ e seni morbidi da invidiare/ ragazzina io ancora da fiorire/ negli
occhi di luna saltimbanchi funamboli/ trapezisti e cantastorie di paesi lontani/
Vissero i nostri giorni d'erba/ in un canto di mare e pirati oltre la riva/
e
confidenze d'amore conchiglie diari/ con chiavi e lucchetto e segreti da spartire/
girasoli giganti d'ingenue cartoline/ al vento dei sogni che ci attraversava/ come
neutrini negli universi e le intese…
(stralcio
di “Tutto come fosse la prima volta”, in <Semi di poesia in azione>, L’amicizia, 2016).
E
anche oggi le lacrime mi impediscono di continuare. Non so fare i conti col
dolore. Mio. Degli altri.
Buon
sabato di pioggia e di vento col glicine che danza nel giardino per
sollecitarmi a non disperare e a rinfrancarmi con la sua silenziosa musica che
esplode di cielo… a domani. Angela/Lina
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