È esile filo d’erba appena nato
La lancetta che segna l’attimo
Dal vecchio al nuovo giorno.
Un oh di meraviglia oltre la falce
Di luna a levante,
sottile come una parentesi
appena aperta
sull’alba che verrà…
Riprendo a scrivere a
fatica. La terrificante violenza dell’uomo sull’uomo, sulla natura, su ogni
essere vivente mi fa paura, mi annichilisce. La violenza non è stata mai di
casa nella mia antica casa. Raramente è esplosa nella mia casa di giovane donna
alle prese con un marito geniale e senza regole, quattro figli imbrigliati nel
nostro ménage senza capo né coda, e i miei impegni con la scuola come
insegnante e come preparatrice, per oltre trent’anni, di Concorsi per il
reclutamento dei docenti nelle scuole di ogni ordine e grado e persino per
dirigenti scolastici. Un impegno appassionato che, però, non mi ha dato
respiro. Mi ha tolto la gioia di occuparmi dei figli, di mia madre, di
incontrare i miei fratelli e le mie sorelle; di uscire per una passeggiata a “vedere”
la gente e il mondo; di godermi qualche buon film, uno spettacolo televisivo,
la musica e le canzoni che, ancora oggi, amo. Ma tutto è ormai da tanto tempo
alle spalle. Il tempo ha attraversato il mio corpo, la mia mente. Spesso ha
trafitto la mia anima. Ma sono qui a parlarne. Dunque, ci sono ancora. E c’è
ancora tanta violenza per le strade insanguinate del nostro Pianeta. Occorre parlarne
perché non si può essere indifferenti. Dire “non mi importa”. Ed io lo faccio
come sempre attraverso un racconto, datato ma decisamente attuale. Per riflettere
insieme. Per dialogare. Per “ESSERCI”.
L’UOMO CHE SENTI’ L’ALBA
L’uomo sentì l’alba. Sentì che stava
per entrare nel buio. Sentì la morte alitargli sul collo: aveva un odore
particolare, disgustoso. Provò a chiudere le narici e ad aprire gli occhi, ma
vide il tunnel, in fondo all’orizzonte, che era verde e sapeva d’ulivi
frastagliati di cielo; il tunnel, che si avvicinava sempre di più e che fra non
molto l’avrebbe ingoiato e trasformato in nuvola senza più un solo ricordo, un
solo pensiero, un solo progetto. La gola gli si strinse e gli venne da tossire
con violenza, come se volesse cacciare l’anima: rannicchiata, testarda, nelle
profondità delle viscere per non distaccarsene. L’anima ha bisogno di un corpo
per essere nella vita, per sentirsi concretamente in una emozione, in una
sensazione, persino in una cattiveria. E la sua anima era ora il suo stomaco
dolente, quella morsa che strizzava la gola, quel colpo di tosse, secco,
squassante, improvviso.
E improvvisamente sentì voglia di
mare.
- Portatemi al mare - disse con un
filo di voce, ma nessuno lo sentì.
- Portatemi al mare - urlò.
E venne pronto suo figlio, che aveva
sentito oltre la porta non l’urlo spento, ma l’inquietudine di suo padre, il
fragore delle onde nei suoi orecchi, l’odore della salsedine nelle sue narici.
Conosceva bene suo padre: la ribollente libertà nell’oceano in tempesta della
sua anima, prigioniera in un corpo inerte.
- Portatemi al mare - disse in un
soffio, guardando suo figlio attraverso quell’unica lacrima che navigava
nell’azzurro di quell’unico occhio, che sapeva ancora piangere. L’altro era un
deserto senza sete e senza miraggi.
Suo figlio disse: - Aspettiamo la
mamma. Sarà qui a momenti. Si sta vestendo - (“Sta indossando il suo vestito
quotidiano di amore e di pazienza” pensò).
Da circa vent’anni suo padre era
diventato un urlo dall’alba al tramonto. Una carrozzella urlante. E due gambe
inerti. E un occhio che si era chiuso al cielo. E tutta la rabbiosa voglia di
guardarlo ancora, nell’altro.
Da circa vent’anni sua madre si
vestiva con cura per non perdere l’abitudine, dopo avere accudito a quella
carne urlante ed inerte, che un tempo era stato un uomo possente e vigoroso;
irascibile, certo, ma anche colmo di rari gesti di passione, quasi lava
vulcanica ad avvolgerla tutta e a bruciarla. Per questo era rimasta, dopo le
infinite volte che aveva deciso di andare via. Per quella lava bruciante che la
faceva sentire viva e privilegiata, nonostante tutto.
E lui, il figlio della carne urlante e
della torcia ardente, era rimasto perché non sapeva staccarsi dall’uno e
dall’altra, essendo figlio unico; perché troppo dipendente dal padre, che lo
aveva sempre ritenuto un buono a nulla senza spina dorsale e senza progetti in
quella sua zucca vuota; perché troppo legato a sua madre, che lo aveva fatto
sentire accolto, amato, con i suoi modi sempre dolci, gentili, premurosi.
Sua padre e sua madre erano due entità
distanti anni luce.
E in quella distanza creavano un
baratro in cui lui, il figlio buono a nulla, il figlio accolto e nutrito d’amore,
sprofondava in una inerzia senza fine.
Ma c’erano anche i giorni in cui quel
vuoto si colmava di parole, di gesti affettuosi, di tenerezze, e lui, il figlio
dalla zucca vuota, si riempiva di speranza che un giorno o l’altro potesse
farsi capire da suo padre. Potessero capirsi. Che un giorno o l’altro potesse
liberarsi dal giogo morbido e tenero del rifugio sicuro di sua madre. Anche ora
che era adulto, anche ora che l’aveva tradita con un’altra donna: la sua compagna,
che non osava portare in casa per non incrinare il perfetto equilibrio di quel
triangolo isoscele, in cui lui era sempre il lato più piccolo, il meno
visibile.
Suo padre si era fracassato l’osso del
collo cadendo per le scale dopo un furibondo alterco con il vicino di casa, che
non voleva saperne di portare il suo pastore tedesco in un luogo che non fosse
certamente l’appartamento al quarto piano, attiguo al loro: una casa piccola,
che si riempiva di guaiti e di veri e propri ululati, quando il padrone non era
in casa. L’abbaiare furibondo del cane tracimava il piccolo appartamento e si spandeva
in tutto il condominio, disturbando tutti.
Ma il più disturbato era suo padre,
invelenito da anni di convivenza con il frastuono assordante di quel cane.
Penetrava, quel latrato, con violenza inaudita attraverso i muri nella loro
casa e rimbalzava da parete a parete fino a conficcarsi nel cervello dell’uomo,
che urlava più del cane e minacciava di far fuori quell’animale immondo, quel
bastardo. Un giorno o l’altro. L’animale immondo in questione si chiamava Kira
ed era di una bellezza straordinaria con quel suo pelo fulvo sempre lucido e
curato. E quell’animale bellissimo, bastardo e immondo, ebbe il sopravvento
sull’odio di suo padre che, dopo la caduta, finì su di una sedia a rotelle.
Di Kira non seppero più niente perché,
dopo la caduta, lui, suo padre e sua madre preferirono una casa in campagna,
ampia e isolata, all’appartamento in città, angusto e in pessima compagnia, per
evitare a suo padre altri terribili e temibili, anche per la sua salute,
accessi di ira.
Ma suo padre amava il mare.
E così, ora, quasi ottantenne e in fin
di vita, chiese di vedere ancora una volta, per l’ultima volta, il mare.
Suo figlio notò che sua madre era
pronta. Si era vestita quasi dovesse andare ad una festa d’estate, con angurie
e frutti di mare distribuiti sulla spiaggia.
Suo padre era ora un rantolo che
gridava la sua sete di mare.
Suo padre, con negli occhi il mare,
ignorò la donna e i suoi papaveri rossi sul vestito bianco di lino leggero, che
invece era piaciuto al figlio (“come sempre macchie di sangue e di amore sul
bianco” pensò “bianco come bandiera di pace, come vela all’orizzonte, come un
semplice vestito d’estate che estate ancora non è”).
Il figlio spinse la carrozzella fino
alla sua macchina; prese di peso il padre con il suo rantolo, con il suo urlo
soffocato, con la sua sete di mare e con tutta l’immensa distesa, racchiusa
nell’unico occhio azzurro aperto sull’azzurro, e lo mise sul sedile. Si asciugò
gocce di sudore. Fece salire i papaveri rossi su vela bianca sul sedile
posteriore e si mise alla guida, dimentico di tutto: della sua compagna lontana
e sola, della sua zucca vuota e della sua rassegnazione al “nulla”, che per suo
padre era. E che diventava, ora, un “tutto” perché, senza di lui, l’uomo
sarebbe morto senza bere il suo mare, senza più contenerlo in quel suo occhio
che, per miracolo, si era salvato dalla furia devastante di una nuova collera,
alcuni anni prima. Per la rabbia di non potersi più muovere e dimostrare a lui,
suo figlio, la potenza nel piegare gli altri e la vita alla sua volontà
d’acciaio temperato. La rabbia si era spostata dal suo pugno battuto con
violenza sul muro del giardino, presso cui sostava a prendere un po’ di sole,
ed era salita lungo il braccio fino all’omero, al collo, al viso per esplodere
nell’occhio destro, all’apice di quel pugno,
condensandosi in un grumo di sangue, che aveva tinto di rosso il suo
universo, su cui la palpebra era calata, forse per celare agli altri la
devastante lava incandescente che era colata lungo la guancia, in quella corsa
disperata all’ospedale perché frenassero quella emorragia.
Guidava lui, il figlio, con negli
occhi non l’azzurro del mare, ma quel rosso ricordo, che ancora lo tormentava
di pietà e di rassegnazione. Di intima ribellione. Di aperta accondiscendenza.
Di abissale distanza da lui. Di scoperta dipendenza dalla forza della sua
disperazione. Impotente.
E, intanto, oltre la curva d’alberi,
il mare.
Anche suo padre aveva scoperto il mare
fra tutto quel verde. Si era riversato nel suo occhio assetato di quella
distesa, che rappresentava il tormento di spazi e di libertà, la sua stessa
potenza distruttiva e lo stesso sfinimento della calma piatta.
Il figlio scorse quel faticoso
restringere di palpebre a trattenere il mare appena ritrovato e scorse il
tremito delle mani, quasi un ultimo tentativo di afferrarlo per portarlo per
sempre con sé.
Ebbe, ancora una volta, pietà di lui e
lo condusse sulla spiaggia, nel punto dove avrebbe, forse, potuto con i piedi
toccare quell’onda estenuata, che bagnava la riva. Nessuno dei tre aveva parlato,
ma tutti e tre sapevano che quello era l’addio del vecchio al mare. Quanto lo
aveva amato quell’uomo il mare. Quasi volesse spegnere nella dolcezza di quelle
onde il fuoco che gli ardeva dentro e che lo faceva esplodere come un vulcano
in eruzione.
Per tutta la vita lui aveva desiderato
la tranquillità dell’acqua, quando l’acqua era tranquilla. Ma non c’era mai
riuscito.
Per tutta la vita era stato un mare in
tempesta. Per tutta la vita aveva inseguito il suo cuore tumultuoso per
domarlo. Invano.
Aveva sprecato tutta la vita a urlare
e a provare rabbia per le sue urla, per quella esplosione inarginabile di un sé
che avrebbe voluto diverso, più tranquillo.
Aveva pagato a carissimo prezzo quel magma sotterraneo e incandescente
che gli ribolliva dentro e che veniva fuori di continuo. A caro prezzo.
Suo figlio lo prese di peso, dopo aver
armeggiato con la carrozzella sulla sabbia, segnandola con due strisce
parallele, neppure tanto profonde, e lo mise a sedere; gli slacciò i lacci
delle scarpe e gliele tolse, tolse i calzini e, con le mani a coppa, gli portò
il mare a lambire quei piedi illividiti e gonfi.
Suo padre ebbe un moto di stizza più
che di apprezzamento.
Urlò che era troppo fredda, ma la voce
gli si spense in un colpo di tosse secco e in un rantolo.
Sputò lava, fiele, veleno.
Sputò sangue.
Sua moglie gli prese la testa tra le
mani e la spinse in avanti per aiutarlo a vomitare, ma il rantolo divenne un
sibilo, poi il volto contratto si fece stanco, pacificato sull’ultimo tremito
delle labbra.
E tutto il mare, che si era riversato
nell’azzurro dell’iride assetata di mare, si prosciugò, ingoiato da
quell’azzurro. Pian piano scivolò in un’unica lacrima lungo la guancia spenta.
E fu silenzio.
Sua moglie gli fece in silenzio una
carezza distratta sulla palpebra ancora spalancata perché si chiudesse, come
conchiglia sul mistero del mare.
E suo figlio gli rimise calzini e
scarpe per riprenderlo in braccio e riportarlo in macchina. In silenzio.
Finalmente il silenzio.
Sul mare volarono in una danza morbida
i rossi papaveri del vestito della donna. Rimase il bianco, che non sarebbe mai
diventato nero. Il bianco del silenzio, della tranquillità, della pace. Il
bianco della sconfitta, forse. Ma anche della libertà.
Suo figlio la guardò e pensò che le
donava il bianco, ma non glielo disse.
Riportò la carrozzella in macchina. Chiuse il cofano e guardò per
l’ultima volta quella distesa calma e sonnolenta. Scorse i suoi pensieri a
fluttuare tra i rossi papaveri del vestito di sua madre.
S’accorse delle onde che avevano già
cancellato le strisce parallele e poco profonde che gli avevano, per un attimo,
restituito l’idea della sua vita e di quella di suo padre, come rette parallele
con un punto d’incontro solo all’infinito.
Guardò l’orizzonte. Oltre, molto
oltre, l’infinito…
Accese il motore e il rombo del motore
cancellò il silenzio. Non si udì più neppure la risacca. Fece retromarcia fino
al verde folto degli ulivi e sterzò per imboccare la curva. Sentì una fitta al
cuore. La testa si riempì di pensieri perché suo padre finalmente era vulcano
spento.
Mare calmo dei giorni migliori.
Silenzio assordante tra i suoi
pensieri.
E anche oggi mi fermo
qui. Per ascoltare nel mio silenzio assordante i vostri pensieri che mi stanno
a cuore.
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