No. Non parlerò di Napoleone cantato dal Manzoni nel suo inno di requiem al grande statista e al geniale stratega, che concluse la sua vita terrena su un’isoletta (Sant’Elena) sperduta nell’Oceano Atlantico oltre 200 anni fa, continuerò a parlare, invece, di quanto avvenne dopo il passaggio degli Alleati americani in Italia a conclusione della Seconda Guerra Mondiale, attingendo sempre dai due volumi citati.
<Poi
sembrò tutto passato, con gli Alleati che avevano portato nelle stesse case,
non più impaurite ma con le finestre spalancate e tanta voglia d’aria nuova, il
DDT contro pulci, scarafaggi, pidocchi, mosche e zanzare, un tormento d’insetti
che aveva angustiato la tua generazione e sicuramente ancor di più quelle
precedenti. Tu ci raccontavi divertito che quando andavate in chiesa era “tutto
un grattarsi tra una preghiera e l’altra, tra l’Introito e l’Ite missa est”…
Gli Alleati portarono anche la
cioccolata e l’allegria dei vincitori per quelle stesse strade, ora
attraversate da camionette e biciclette e traini. I ragazzini sull’uscio delle
case a pianterreno guardavano con occhi di meraviglia e mani veloci
cioccolatini e caramelle che piovevano da quelle camionette con quelle divise
assiepate, ora diventate amiche… Spesso compare Luigi, amico carissimo tuo e di
babbo, veniva a prendermi per portarmi con sé in qualche chiesa, dove era quasi
sempre impegnato nell'addobbo floreale di nuove processioni, nuovi matrimoni e
nuove feste religiose. Conservo ancora tre fotografie scattate dal fotografo
per eternare i suoi capolavori floreali: in una sono da sola con un fascio di
gigli tra le mani, gli occhi sognanti e un caschetto di capelli bruni con un
fiocco chiaro ad illuminarli. È bellissima. Mi piace (candore e sogno). L'altra
mi vede seduta sulle ginocchia di compare Luigi, che porta un cappello a larga
tesa, come si usava negli anni Quaranta-Cinquanta del secolo scorso, ed ha
occhi grandi e intensi che rendono fiero e bellissimo il suo viso ancora
giovane (protezione e appartenenza). Nella terza precedo il Legno Santo, e per
gli altri spiego che è una costruzione artistica fatta di fiori sulla falsariga
dei più famosi Duomi d’Italia e completata da fitte e lunghe candele accese.
Orgoglio, allora, di compare Luigi, chiamato Luìggə u Tròmbə
(perché suo padre suonava la tromba nella banda del paese, come molti anni dopo
mi è stato raccontato). Lui era il deus
ex machina di quella composizione floreale artistica che era vanto del
nostro paese sempre in sfida con gli altri paesi limitrofi e sempre vincente.
Nella foto, ho tra le mani un fascio di fiori e sul visetto un’aria compunta di
chi non sa perché si trovi lì (smarrimento e
dubbio). Compare Luigi è appena appena distante con un suo operaio. È
prestante, giovane, fiero. (Aveva conservato una bellezza altera e malinconica
anche in età matura: alto, atletico, possente, fronte ampia e capelli appena
brizzolati, lisci e corti, occhi tempestosi, saette scure e scintillanti, e
baffetti sottili su labbra carnose e risata bianchissima in un volto ambrato
che non prometteva niente di buono, aprendosi improvvisamente alla tenerezza). Mai
e poi mai in quei giorni di rinnovato canto alla vita avrei potuto immaginare
il suo declino, la sua morte. Fummo, però, a lungo viandanti di sogni intrecciati
tra braccia allacciate di affettuosa protezione lungo orizzonti ancora vergini
da esplorare fino a perderci nelle nebbie della lontananza, che avrebbe diviso
i percorsi e le mete.
Un giorno di tanti anni fa, avevo già perso te e non vedevo più
lui da moltissimo tempo, provai uno stringente bisogno dell'anima di rivederlo
e andai a cercarlo nella sua casa, dove tante volte in passato ero entrata per
un saluto, un abbraccio, un come stai. Mi si strinse il cuore. Lui era lì,
seduto al tavolo della cucina con la testa tra le mani e aveva uno sguardo
allucinato di solitudine, un volto lacerato di tristezza e disperazione. “Da dò vìnə?” (“Da dove sbuchi?”), mi
apostrofò ruvido e commosso. Non riuscì a trattenere le lacrime al mio tenero
abbraccio. “Sono venuta a salutarti. A vedere come stai”, gli dissi con un
sorriso di tristezza. “Nàn avìva vənójə.
Jójə sò mùrtə. Nàn vógghjə
vədàje nəscìunə” (“Non dovevi venire. Io sono morto. Non voglio vedere
nessuno”). “Neppure me? Cosa ti ho fatto io?”. “Nemmanghə. Tìuə mə sì lasséutə sìulə. E mòuə vattìnnə! Nàn zò avìutə
méjə abbəsùgnə də nəscìunə jójə! Nàn ténghə abbəsùgnə də nəscìunə. Vattìnnə!”
(“Neppure. Tu mi hai lasciato solo. E adesso vattene via! Non ho mai avuto
bisogno di nessuno io! Non ho bisogno di nessuno! Vattene!”). “Lo so, lo so, ma
lascia che mi fermi un po' con te, a parlare. Sono io che ho bisogno di te.
Parliamo un po', come ai vecchi tempi...”. “Sò
dìttə vattìnnə. Nàn jèjə chìuə póstə pə tàjə cùssə. Nàn avìva vənójə. Nan
vógghjə nəscìunə, sì capəscìutə? Nəscìunə. Vattìnnə” (“Ho detto vattene.
Non è più posto per te questo. Non dovevi venire. Non voglio nessuno, hai capito?
Nessuno. Vattene”). E lanciò un urlo di belva ferita. Mi guardai intorno
sconfitta. La camera era buia e lercia. I panni ammassati sulle sedie. La sua
roba sparsa dappertutto. Nel lavandino i tegami e i piatti sporchi. Dall'uscio
dischiuso della camera da letto s'intravedeva il letto disfatto e sudicio. Un
tempo, quando viveva comare Rosina, sua moglie, tu lo sai bene, le camere erano
al primo piano e giù, al pianterreno, c'era la cucina grande, con la sala da
pranzo e il salotto e altre stanze sempre chiuse, dove, se non ricordo male,
compare Luigi aveva il deposito dei fiori per conservarli al fresco. E tutto
era lindo e in ordine. Ma tu sai benissimo anche la sua storia d'amore e di
disperazione. Sai di Vituccio, il nipote amato più di un figlio. Ricordi quanto
fosse bello? Era snello, bruno, con capelli ricci, occhi chiari e un sorriso
dolce. Ricordi? Mi regalava sempre dei fiori ogni volta che passavo dal suo
negozio “Irmaflor”, dal nome della bellissima ragazza di cui si era innamorato
e che subito sposò, ma anche subito lui si ammalò di leucemia e ad appena
ventisei anni morì e il suo letto e la sua camera e il palazzo, che compare
Luigi aveva comprato per lui, furono uno sterminato campo di fiori. Morirono
con Vituccio il suo orgoglio. La sua speranza. Il suo amore per la vita. Il suo
lavoro. Gli amici. Perse tutto. Tutto si spense in mezzo a quello sterminato
campo di fiori ormai appassito e senza profumo. Dopo la morte di comare Rosina,
avvenuta alcuni anni dopo, lui divenne solo abisso di silenzio. Tutto questo,
quel giorno, trafisse in un lampo la mia mente, vedendo in quale stato si fosse
ridotto quel gigante buono che con passi enormi e felpati aveva attraversato
parecchi anni della nostra vita, vegliato sulla nostra infanzia e adolescenza, rimasto
nel tuo e nostro cuore. Andai via perché la sua ostinazione si stava
trasformando in violenza. Lo salutai senza neppure abbracciarlo e prima di
varcare la soglia mi giunse alle spalle un richiamo roco, soffocato, tremante.
Non mi girai. Avevo gli occhi pieni di lacrime e una pena immensa tra ciglia e
anima.
Lo rividi ancora, per caso, tanto tempo dopo. Io già madre di
quattro figli.
Era seduto per terra davanti ad un portone con lo sguardo perso
nel nulla e la barba bianca incolta. Non mi fermai. Anzi, presi a camminare più
in fretta. Perché non si accorgesse di me. Perché non volevo vederlo in quello
stato. Perché non volevo che scorgesse il mio sguardo perso nel suo sguardo
perso. Fu come frantumare la mia infanzia. Perdere l'innocenza così luminosa e
chiara di quelle fotografie fattemi scattare quando era ancora un uomo forte,
ricco, grande bestemmiatore e paradossalmente tanto timorato di Dio. Morì a
ferragosto di un anno che non ricordo più, ingozzandosi di angurie e di vino. Piansi
a lungo. Piansi l'uomo amato e l'infanzia ingoiata da quella perdita. Non mi
era più capitato di piangere così tanto dopo la tua morte. Non avevo pianto
neppure così tanto quando morì l’anno dopo nonna Angelina e, poi, via via zia
Maria, Rita, zia Lauretta. Tutte puntelli fondamentali della mia infanzia,
adolescenza, prima giovinezza. Piansi così tanto solo per lui. Per me. Per il
nostro “piccolo mondo antico” definitivamente franato. Io sotto quelle macerie.
Ormai donna, ma ancora tenacemente aggrappata alla magia dei miei brevi anni
nei suoi occhi che misuravano di tenerezza la mia crescita. Poi scrissi la sua
storia. E quella storia asciugò le lacrime. Ricucì brandelli di me bambina,
riconciliandomi col passato, che avevo già perso perdendo te e il campo dei
ciliegi e tutti gli appigli e i punti fermi e le strade attraversate e i
miracoli ascoltati e le iatture intuite sulle porte dei pianterreni e sottani e
le mani in croce sui letti delle sere e i rintocchi di mezzanotte di quegli
anni lontani. Difficili Amati Semplici Amari. Grazie a quella storia imparai a colmare i vuoti con le parole. La
storia di compare Luigi, quando ancora era la storia di un uomo, si era
intrecciata naturalmente, negli anni remoti della mia infanzia, con quella
della guerra e degli Alleati inglesi e americani, che erano venuti a liberarci
dai tedeschi e dai fascisti, e che ben presto erano diventati suoi e, poi, tuoi
amici. Spesso tu e lui mi portavate da un ufficiale inglese, che abitava con
altri ufficiali in quello che a me sembrò subito un grande castello e che in
realtà era stato un antico monastero benedettino, appena fuori le mura del
paese, dirimpetto a Porta Santa Teresa, una delle quattro porte che delimitano
il perimetro del nostro antico centro feudale. Si ergeva, e si erge ancora,
maestoso con una grande scalinata accanto alla chiesetta di Santa Teresa (“sòttə a Sànda Trèisə”) oltre il ponte
sul fiume Tiflix, che in passato aveva attraversato i nostri campi e anche le
vie, e che ora, ormai in secca da moltissimi anni, aveva ceduto il suo letto a
case e strade costruite prima della guerra. Più tardi quel castello/monastero
sarebbe diventato sede della scuola media e del Liceo-ginnasio.
Quando
da adolescente vi tornai per frequentare le medie, ricordai perfettamente il
percorso esterno e interno che portava fino all'appartamento abitato dal nostro
amico inglese, che aveva una moglie bionda e alta quanto lui, e due figli
maschi. In quel castello, da bambina, volavo principessa. Bimba bellissima e
vezzosissima, mi regalavano grossi pezzi di cioccolata, barattoli di caramelle
gommose e intere confezioni di farina lattea, in cui affondavo occhi di
desiderio prima di portarla alla bocca con cucchiaiate golose (ancora oggi
compro le “galatine” per ritrovare quel sapore che veniva da lontano). La casa
di compare Luigi era proprio a due passi, nella strada che dal ponte portava
all’interno del paese. Era, dunque, facile per tutti noi andare con lui dal
suo/nostro amico inglese. Il tenente era felicissimo di vedermi e, subito dopo
i baci e gli abbracci sempre molto calorosi, mi sollecitava a ballare, a
cantare o a recitare qualche filastrocca; poi rideva, rideva rideva e,
facendomi volare tra le sue braccia, mi ripeteva come un mantra: “Tu venire con
noi in Inghilterra. Sposare mio figlio Henry. Ti verremo a prendere. Baby
fantastica!”. Io cantavo - ricordo ancora - quella canzoncina dispettosa che mi
aveva insegnato Michelino perché alla fine facevo una piroetta spettacolare.
Era il mio cavallo di battaglia e la ripescavo ogni volta che venivo invitata
ad esibirmi di fronte a qualcuno. Faceva più o meno così...
Ho un sassolino nella scarpa, ahi!/ Che mi fa
tanto tanto male, ahi!/ Batto il piede in giù./ Batto il piede in su./ Giro, mi
rigiro, sembro belzebù! E la piroetta velocissima mi trasformava in
un angelo con le ali, non sapendo neppure cosa volesse dire “belzebù”. Le
parole sconosciute m'incuriosivano molto e chiedevo spiegazione a te che con
pazienza mi ascoltavi, ma non sempre mi davi le risposte giuste perché non
sempre ritenevi opportuno darmele, come, per esempio, parlarmi del diavolo che
s'intrufolava in una canzoncina buffa e innocente.
Poi il tenente inglese con la sua famiglia andò via, lasciandomi con
un abbraccio, tanta cioccolata, montagne di farina lattea e una promessa: “Ritornerò
in Italia per portarti via”. Io mi sentii importante. E mi sollevai da terra di
mille metri. Scrisse spesso per alcuni mesi, ma nessuno era in grado di capirci
niente e nessuno sapeva rispondergli, neppure in italiano. Tu parlavi
l'americano, ma era un'altra cosa. Leggere e scrivere, poi, una impresa
impossibile per tutti, una improponibile fatica anche per te. E così, piano
piano, non ricevemmo più lettere e, su quell'amicizia di parole mai comprese,
di cioccolata e zucchero a zollette e di pani di farina lattea e promesse
d'amore, cadde il silenzio. Compare Luigi parlò di lui per anni, rammaricandosi
di non saper scrivere né leggere e di aver paura di viaggiare. (Caro, caro,
caro compare Luigi, una montagna d'uomo con due fari accesi in viso e quella
risata larga sulla sua faccia triste. Burbero e irascibile, ma con un cuore
tenero di bambino cresciuto troppo in fretta e con facili lacrime di commozione
per ogni vicenda infelice, di cui era stato o era protagonista, o di cui veniva
a conoscenza. Tutti i guai degli altri diventavano suoi e cercava in tutti i
modi di risolverli).
Quelli furono, comunque, ancora
anni difficili, vissuti da noi piccole senza sapere e senza capire la fragilità
di quella pace, spesso interrotta dalla violenza di animosi partigiani e
vendicativi fascisti che, appena e come potevano, si facevano sommaria
giustizia dei lutti subiti e dei torti e delle ragioni che li animavano, da
soli o in assetati branchi. Divampavano, così, all’improvviso incendi mai
sopiti sui due fronti. Tu e compare Luigi ne parlavate in un sussurro.
Giungevano da fuori notizie poco rassicuranti e tu e lui vi preoccupavate
soprattutto per noi (jndə
a cè mùnnə sìmə sciótə a fərnèscə… pòvərə mənìnnə…) (in che mondo siamo
andati a sprofondare… poveri bambini…).
Compare Luigi si moltiplicava per quattro quando quelle stesse notizie si
facevano realtà nel nostro paese, per perorare la causa di un conoscente o
amico o compagno di partito (a cùrə povərìddə
‘ngə jònnə fàttə vèivə angòurə d’ùgghjə də rìcənə còmə a prójmə də la uérrə e
jójə u so’ scìutə ad ajətéuə còmə mégghiə sò pətìutə… cè brutta razzə chìrə
capélastrə də fascìstə…) (a quel poveraccio gli hanno fatto bere ancora
dell’olio di ricino come prima della guerra e io sono andato ad aiutarlo come
meglio ho potuto… che brutta razza quei brutti ceffi dei fascisti…). Ma
soprattutto si moltiplicava all’infinito quando si trattava di bambini e di
anziani (nàn mə sìtə attəccuànnə rə mənìnnə
e rə vìcchjə…)(non mi toccate i bambini e i vecchi…)
Compare
Luigi è una lacrima sconfinata nelle mie preghiere.
Tu,
un racconto e una riconoscenza mai spenti in quelle dei tanti tuoi “figliocci”,
molti dei quali sono ormai venuti a farti compagnia tra le stelle. (…).
Ti
prendevi cura di noi e ci amavi di quel tenerissimo amore che solo gli anziani
spesso sanno dare ai bambini, vivendo sullo stesso orizzonte di realtà e
fantasia, di giochi condivisi, di piccole complicità misteriose. In perfetta
sintonia. Come se un filo magico legasse i brevi ai lunghi anni. Noi palloncini colorati nell'azzurro. Tu,
sapienti mani a reggerne i fili per una libertà ancora da guidare. Tornavi dai
tuoi campi al tramonto, sul carro alto e il cavallo fulvo e i cani... e noi ti
correvamo incontro rotolando per le scale tra le tue braccia spalancate, che ci
serravano al cuore. Poi, con pazienza, quasi rito quotidiano, ti sedevi sul
primo gradino della lunga scala e ci prendevi a cavalluccio sulle spalle.
Salivi “al galoppo” con me, assordato dai miei gridolini di gioia e dai fremiti
di piacevole paura, e ridiscendevi per prendere Lizia, in spasmodica rassegnata
attesa. Lei aveva un anno e due mesi più di me e tu ti fidavi di più a
lasciarla da sola, sia pure per la frazione di qualche secondo appena (al galoppo! dai papà dai…). Nella grande
cucina ti sedevi un poco a riprendere fiato, e avevi il volto arrossato dalla
fatica e dal sole e il profumo d'erba e di terra tra i capelli e sulle mani. Quando
la corsa finiva, il gioco ricominciava. “Stringi forte così, e indurisci le
braccia”, dicevi, mentre con mani forti, puntellate sotto i nostri pugnetti
serrati, ci sollevavi in alto fino a toccare il cielo... oppure, tenendo
racchiuse le nostre manine nel cavo poderoso delle tue, ci facevi fare capriole
ad un palmo da terra… e, ancora, prendendoci per una caviglia e una manina in
corrispondenza ci facevi provare il brivido del volo dell’aereo… aerei di giochi e di allegria contro gli aerei di paura
che in quegli anni solcavano sinistramente i nostri cieli… Ancora oggi il rombo
degli aerei mi crea ansia anche se molto spesso sono stata costretta a salirvi
per viaggiare in molte città europee, non avendo il coraggio di avventurarmi
oltre…
A presto, come sempre. Angela/Lina
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