domenica 5 maggio 2024

Domenica 5 maggio 2024: IL MIO RAPSODICO "SPOON RIVER" CHE MI PORTO NEL CUORE... (continua)

No. Non parlerò di Napoleone cantato dal Manzoni nel suo inno di requiem al grande statista e al geniale stratega, che concluse la sua vita terrena su un’isoletta (Sant’Elena) sperduta nell’Oceano Atlantico oltre 200 anni fa, continuerò a parlare, invece, di quanto avvenne dopo il passaggio degli Alleati americani in Italia a conclusione della Seconda Guerra Mondiale, attingendo sempre dai due volumi citati.

<Poi sembrò tutto passato, con gli Alleati che avevano portato nelle stesse case, non più impaurite ma con le finestre spalancate e tanta voglia d’aria nuova, il DDT contro pulci, scarafaggi, pidocchi, mosche e zanzare, un tormento d’insetti che aveva angustiato la tua generazione e sicuramente ancor di più quelle precedenti. Tu ci raccontavi divertito che quando andavate in chiesa era “tutto un grattarsi tra una preghiera e l’altra, tra l’Introito e l’Ite missa est”…  Gli Alleati portarono anche la cioccolata e l’allegria dei vincitori per quelle stesse strade, ora attraversate da camionette e biciclette e traini. I ragazzini sull’uscio delle case a pianterreno guardavano con occhi di meraviglia e mani veloci cioccolatini e caramelle che piovevano da quelle camionette con quelle divise assiepate, ora diventate amiche… Spesso compare Luigi, amico carissimo tuo e di babbo, veniva a prendermi per portarmi con sé in qualche chiesa, dove era quasi sempre impegnato nell'addobbo floreale di nuove processioni, nuovi matrimoni e nuove feste religiose. Conservo ancora tre fotografie scattate dal fotografo per eternare i suoi capolavori floreali: in una sono da sola con un fascio di gigli tra le mani, gli occhi sognanti e un caschetto di capelli bruni con un fiocco chiaro ad illuminarli. È bellissima. Mi piace (candore e sogno). L'altra mi vede seduta sulle ginocchia di compare Luigi, che porta un cappello a larga tesa, come si usava negli anni Quaranta-Cinquanta del secolo scorso, ed ha occhi grandi e intensi che rendono fiero e bellissimo il suo viso ancora giovane (protezione e appartenenza). Nella terza precedo il Legno Santo, e per gli altri spiego che è una costruzione artistica fatta di fiori sulla falsariga dei più famosi Duomi d’Italia e completata da fitte e lunghe candele accese. Orgoglio, allora, di compare Luigi, chiamato Luìggə u Tròmbə (perché suo padre suonava la tromba nella banda del paese, come molti anni dopo mi è stato raccontato). Lui era il deus ex machina di quella composizione floreale artistica che era vanto del nostro paese sempre in sfida con gli altri paesi limitrofi e sempre vincente. Nella foto, ho tra le mani un fascio di fiori e sul visetto un’aria compunta di chi non sa perché si trovi lì (smarrimento e dubbio). Compare Luigi è appena appena distante con un suo operaio. È prestante, giovane, fiero. (Aveva conservato una bellezza altera e malinconica anche in età matura: alto, atletico, possente, fronte ampia e capelli appena brizzolati, lisci e corti, occhi tempestosi, saette scure e scintillanti, e baffetti sottili su labbra carnose e risata bianchissima in un volto ambrato che non prometteva niente di buono, aprendosi improvvisamente alla tenerezza). Mai e poi mai in quei giorni di rinnovato canto alla vita avrei potuto immaginare il suo declino, la sua morte. Fummo, però, a lungo viandanti di sogni intrecciati tra braccia allacciate di affettuosa protezione lungo orizzonti ancora vergini da esplorare fino a perderci nelle nebbie della lontananza, che avrebbe diviso i percorsi e le mete.

Un giorno di tanti anni fa, avevo già perso te e non vedevo più lui da moltissimo tempo, provai uno stringente bisogno dell'anima di rivederlo e andai a cercarlo nella sua casa, dove tante volte in passato ero entrata per un saluto, un abbraccio, un come stai. Mi si strinse il cuore. Lui era lì, seduto al tavolo della cucina con la testa tra le mani e aveva uno sguardo allucinato di solitudine, un volto lacerato di tristezza e disperazione. “Da dò vìnə?” (“Da dove sbuchi?”), mi apostrofò ruvido e commosso. Non riuscì a trattenere le lacrime al mio tenero abbraccio. “Sono venuta a salutarti. A vedere come stai”, gli dissi con un sorriso di tristezza. “Nàn avìva vənójə. Jójə sò mùrtə. Nàn vógghjə vədàje nəscìunə” (“Non dovevi venire. Io sono morto. Non voglio vedere nessuno”). “Neppure me? Cosa ti ho fatto io?”. “Nemmanghə. Tìuə mə sì lasséutə sìulə. E mòuə vattìnnə! Nàn zò avìutə méjə abbəsùgnə də nəscìunə jójə! Nàn ténghə abbəsùgnə də nəscìunə. Vattìnnə!” (“Neppure. Tu mi hai lasciato solo. E adesso vattene via! Non ho mai avuto bisogno di nessuno io! Non ho bisogno di nessuno! Vattene!”). “Lo so, lo so, ma lascia che mi fermi un po' con te, a parlare. Sono io che ho bisogno di te. Parliamo un po', come ai vecchi tempi...”. “Sò dìttə vattìnnə. Nàn jèjə chìuə póstə pə tàjə cùssə. Nàn avìva vənójə. Nan vógghjə nəscìunə, sì capəscìutə? Nəscìunə. Vattìnnə” (“Ho detto vattene. Non è più posto per te questo. Non dovevi venire. Non voglio nessuno, hai capito? Nessuno. Vattene”). E lanciò un urlo di belva ferita. Mi guardai intorno sconfitta. La camera era buia e lercia. I panni ammassati sulle sedie. La sua roba sparsa dappertutto. Nel lavandino i tegami e i piatti sporchi. Dall'uscio dischiuso della camera da letto s'intravedeva il letto disfatto e sudicio. Un tempo, quando viveva comare Rosina, sua moglie, tu lo sai bene, le camere erano al primo piano e giù, al pianterreno, c'era la cucina grande, con la sala da pranzo e il salotto e altre stanze sempre chiuse, dove, se non ricordo male, compare Luigi aveva il deposito dei fiori per conservarli al fresco. E tutto era lindo e in ordine. Ma tu sai benissimo anche la sua storia d'amore e di disperazione. Sai di Vituccio, il nipote amato più di un figlio. Ricordi quanto fosse bello? Era snello, bruno, con capelli ricci, occhi chiari e un sorriso dolce. Ricordi? Mi regalava sempre dei fiori ogni volta che passavo dal suo negozio “Irmaflor”, dal nome della bellissima ragazza di cui si era innamorato e che subito sposò, ma anche subito lui si ammalò di leucemia e ad appena ventisei anni morì e il suo letto e la sua camera e il palazzo, che compare Luigi aveva comprato per lui, furono uno sterminato campo di fiori. Morirono con Vituccio il suo orgoglio. La sua speranza. Il suo amore per la vita. Il suo lavoro. Gli amici. Perse tutto. Tutto si spense in mezzo a quello sterminato campo di fiori ormai appassito e senza profumo. Dopo la morte di comare Rosina, avvenuta alcuni anni dopo, lui divenne solo abisso di silenzio. Tutto questo, quel giorno, trafisse in un lampo la mia mente, vedendo in quale stato si fosse ridotto quel gigante buono che con passi enormi e felpati aveva attraversato parecchi anni della nostra vita, vegliato sulla nostra infanzia e adolescenza, rimasto nel tuo e nostro cuore. Andai via perché la sua ostinazione si stava trasformando in violenza. Lo salutai senza neppure abbracciarlo e prima di varcare la soglia mi giunse alle spalle un richiamo roco, soffocato, tremante. Non mi girai. Avevo gli occhi pieni di lacrime e una pena immensa tra ciglia e anima.

Lo rividi ancora, per caso, tanto tempo dopo. Io già madre di quattro figli. 

Era seduto per terra davanti ad un portone con lo sguardo perso nel nulla e la barba bianca incolta. Non mi fermai. Anzi, presi a camminare più in fretta. Perché non si accorgesse di me. Perché non volevo vederlo in quello stato. Perché non volevo che scorgesse il mio sguardo perso nel suo sguardo perso. Fu come frantumare la mia infanzia. Perdere l'innocenza così luminosa e chiara di quelle fotografie fattemi scattare quando era ancora un uomo forte, ricco, grande bestemmiatore e paradossalmente tanto timorato di Dio. Morì a ferragosto di un anno che non ricordo più, ingozzandosi di angurie e di vino. Piansi a lungo. Piansi l'uomo amato e l'infanzia ingoiata da quella perdita. Non mi era più capitato di piangere così tanto dopo la tua morte. Non avevo pianto neppure così tanto quando morì l’anno dopo nonna Angelina e, poi, via via zia Maria, Rita, zia Lauretta. Tutte puntelli fondamentali della mia infanzia, adolescenza, prima giovinezza. Piansi così tanto solo per lui. Per me. Per il nostro “piccolo mondo antico” definitivamente franato. Io sotto quelle macerie. Ormai donna, ma ancora tenacemente aggrappata alla magia dei miei brevi anni nei suoi occhi che misuravano di tenerezza la mia crescita. Poi scrissi la sua storia. E quella storia asciugò le lacrime. Ricucì brandelli di me bambina, riconciliandomi col passato, che avevo già perso perdendo te e il campo dei ciliegi e tutti gli appigli e i punti fermi e le strade attraversate e i miracoli ascoltati e le iatture intuite sulle porte dei pianterreni e sottani e le mani in croce sui letti delle sere e i rintocchi di mezzanotte di quegli anni lontani. Difficili Amati Semplici Amari. Grazie a quella storia imparai a colmare i vuoti con le parole. La storia di compare Luigi, quando ancora era la storia di un uomo, si era intrecciata naturalmente, negli anni remoti della mia infanzia, con quella della guerra e degli Alleati inglesi e americani, che erano venuti a liberarci dai tedeschi e dai fascisti, e che ben presto erano diventati suoi e, poi, tuoi amici. Spesso tu e lui mi portavate da un ufficiale inglese, che abitava con altri ufficiali in quello che a me sembrò subito un grande castello e che in realtà era stato un antico monastero benedettino, appena fuori le mura del paese, dirimpetto a Porta Santa Teresa, una delle quattro porte che delimitano il perimetro del nostro antico centro feudale. Si ergeva, e si erge ancora, maestoso con una grande scalinata accanto alla chiesetta di Santa Teresa (“sòttə a Sànda Trèisə”) oltre il ponte sul fiume Tiflix, che in passato aveva attraversato i nostri campi e anche le vie, e che ora, ormai in secca da moltissimi anni, aveva ceduto il suo letto a case e strade costruite prima della guerra. Più tardi quel castello/monastero sarebbe diventato sede della scuola media e del Liceo-ginnasio.

Quando da adolescente vi tornai per frequentare le medie, ricordai perfettamente il percorso esterno e interno che portava fino all'appartamento abitato dal nostro amico inglese, che aveva una moglie bionda e alta quanto lui, e due figli maschi. In quel castello, da bambina, volavo principessa. Bimba bellissima e vezzosissima, mi regalavano grossi pezzi di cioccolata, barattoli di caramelle gommose e intere confezioni di farina lattea, in cui affondavo occhi di desiderio prima di portarla alla bocca con cucchiaiate golose (ancora oggi compro le “galatine” per ritrovare quel sapore che veniva da lontano). La casa di compare Luigi era proprio a due passi, nella strada che dal ponte portava all’interno del paese. Era, dunque, facile per tutti noi andare con lui dal suo/nostro amico inglese. Il tenente era felicissimo di vedermi e, subito dopo i baci e gli abbracci sempre molto calorosi, mi sollecitava a ballare, a cantare o a recitare qualche filastrocca; poi rideva, rideva rideva e, facendomi volare tra le sue braccia, mi ripeteva come un mantra: “Tu venire con noi in Inghilterra. Sposare mio figlio Henry. Ti verremo a prendere. Baby fantastica!”. Io cantavo - ricordo ancora - quella canzoncina dispettosa che mi aveva insegnato Michelino perché alla fine facevo una piroetta spettacolare. Era il mio cavallo di battaglia e la ripescavo ogni volta che venivo invitata ad esibirmi di fronte a qualcuno. Faceva più o meno così...

                                                         

 Ho un sassolino nella scarpa, ahi!/ Che mi fa tanto tanto male, ahi!/ Batto il piede in giù./ Batto il piede in su./ Giro, mi rigiro, sembro belzebù! E la piroetta velocissima mi trasformava in un angelo con le ali, non sapendo neppure cosa volesse dire “belzebù”. Le parole sconosciute m'incuriosivano molto e chiedevo spiegazione a te che con pazienza mi ascoltavi, ma non sempre mi davi le risposte giuste perché non sempre ritenevi opportuno darmele, come, per esempio, parlarmi del diavolo che s'intrufolava in una canzoncina buffa e innocente.

Poi il tenente inglese con la sua famiglia andò via, lasciandomi con un abbraccio, tanta cioccolata, montagne di farina lattea e una promessa: “Ritornerò in Italia per portarti via”. Io mi sentii importante. E mi sollevai da terra di mille metri. Scrisse spesso per alcuni mesi, ma nessuno era in grado di capirci niente e nessuno sapeva rispondergli, neppure in italiano. Tu parlavi l'americano, ma era un'altra cosa. Leggere e scrivere, poi, una impresa impossibile per tutti, una improponibile fatica anche per te. E così, piano piano, non ricevemmo più lettere e, su quell'amicizia di parole mai comprese, di cioccolata e zucchero a zollette e di pani di farina lattea e promesse d'amore, cadde il silenzio. Compare Luigi parlò di lui per anni, rammaricandosi di non saper scrivere né leggere e di aver paura di viaggiare. (Caro, caro, caro compare Luigi, una montagna d'uomo con due fari accesi in viso e quella risata larga sulla sua faccia triste. Burbero e irascibile, ma con un cuore tenero di bambino cresciuto troppo in fretta e con facili lacrime di commozione per ogni vicenda infelice, di cui era stato o era protagonista, o di cui veniva a conoscenza. Tutti i guai degli altri diventavano suoi e cercava in tutti i modi di risolverli).

Quelli furono, comunque, ancora anni difficili, vissuti da noi piccole senza sapere e senza capire la fragilità di quella pace, spesso interrotta dalla violenza di animosi partigiani e vendicativi fascisti che, appena e come potevano, si facevano sommaria giustizia dei lutti subiti e dei torti e delle ragioni che li animavano, da soli o in assetati branchi. Divampavano, così, all’improvviso incendi mai sopiti sui due fronti. Tu e compare Luigi ne parlavate in un sussurro. Giungevano da fuori notizie poco rassicuranti e tu e lui vi preoccupavate soprattutto per noi (jndə a cè mùnnə sìmə sciótə a fərnèscə… pòvərə mənìnnə…) (in che mondo siamo andati a sprofondare… poveri bambini). Compare Luigi si moltiplicava per quattro quando quelle stesse notizie si facevano realtà nel nostro paese, per perorare la causa di un conoscente o amico o compagno di partito (a cùrə povərìddə ‘ngə jònnə fàttə vèivə angòurə d’ùgghjə də rìcənə còmə a prójmə də la uérrə e jójə u so’ scìutə ad ajətéuə còmə mégghiə sò pətìutə… cè brutta razzə chìrə capélastrə də fascìstə…) (a quel poveraccio gli hanno fatto bere ancora dell’olio di ricino come prima della guerra e io sono andato ad aiutarlo come meglio ho potuto… che brutta razza quei brutti ceffi dei fascisti…). Ma soprattutto si moltiplicava all’infinito quando si trattava di bambini e di anziani (nàn mə sìtə attəccuànnə rə mənìnnə e rə vìcchjə…)(non mi toccate i bambini e i vecchi…)

Compare Luigi è una lacrima sconfinata nelle mie preghiere.

Tu, un racconto e una riconoscenza mai spenti in quelle dei tanti tuoi “figliocci”, molti dei quali sono ormai venuti a farti compagnia tra le stelle. (…).

Ti prendevi cura di noi e ci amavi di quel tenerissimo amore che solo gli anziani spesso sanno dare ai bambini, vivendo sullo stesso orizzonte di realtà e fantasia, di giochi condivisi, di piccole complicità misteriose. In perfetta sintonia. Come se un filo magico legasse i brevi ai lunghi anni. Noi palloncini colorati nell'azzurro. Tu, sapienti mani a reggerne i fili per una libertà ancora da guidare. Tornavi dai tuoi campi al tramonto, sul carro alto e il cavallo fulvo e i cani... e noi ti correvamo incontro rotolando per le scale tra le tue braccia spalancate, che ci serravano al cuore. Poi, con pazienza, quasi rito quotidiano, ti sedevi sul primo gradino della lunga scala e ci prendevi a cavalluccio sulle spalle. Salivi “al galoppo” con me, assordato dai miei gridolini di gioia e dai fremiti di piacevole paura, e ridiscendevi per prendere Lizia, in spasmodica rassegnata attesa. Lei aveva un anno e due mesi più di me e tu ti fidavi di più a lasciarla da sola, sia pure per la frazione di qualche secondo appena (al galoppo! dai papà dai…). Nella grande cucina ti sedevi un poco a riprendere fiato, e avevi il volto arrossato dalla fatica e dal sole e il profumo d'erba e di terra tra i capelli e sulle mani. Quando la corsa finiva, il gioco ricominciava. “Stringi forte così, e indurisci le braccia”, dicevi, mentre con mani forti, puntellate sotto i nostri pugnetti serrati, ci sollevavi in alto fino a toccare il cielo... oppure, tenendo racchiuse le nostre manine nel cavo poderoso delle tue, ci facevi fare capriole ad un palmo da terra… e, ancora, prendendoci per una caviglia e una manina in corrispondenza ci facevi provare il brivido del volo dell’aereo… aerei di giochi e di allegria contro gli aerei di paura che in quegli anni solcavano sinistramente i nostri cieli… Ancora oggi il rombo degli aerei mi crea ansia anche se molto spesso sono stata costretta a salirvi per viaggiare in molte città europee, non avendo il coraggio di avventurarmi oltre…

A presto, come sempre. Angela/Lina                             

 

 

Nessun commento:

Posta un commento