E, tra oggi e domani, voglio parlare di due estremi: guerra-morte, nascite-risate. Per stemperare un’atmosfera soffocante che rischia di avvolgerci tutti e di farvi scappare a gambe levate. Come vado registrando in questi ultimi incontri sul nostro blog. Credo che il mio “Spoon River” sia giunto al capolinea. Ancora un paio di puntate e stop. C’è tanto altro di cui parlare, su cui interrogarci per riflettere e darci delle risposte. E, intanto, riprendo dalla guerra, così tragicamente presente ai nostri giorni.
La
guerra. Niente di più folle, di insensato, di devastante. Oggi più che mai.
Bastano poche bombe nucleari per distruggere il nostro pianeta. Ma ne sono
state costruite molte di più per la follia della mente umana. Per il potere del
denaro. Per il potere del potere. Così, banalmente, senza avere minimamente
coscienza della nostra follia di piccoli uomini nella nostra precarietà di
abitanti a tempo determinato e in “comodato d’uso” del nostro “piccolo mondo”. Persino
una studiosa come Hannah Arendt, nel
processo contro Eichman, ritenuto il Male assoluto, per le esecuzioni di
milioni di ebrei durante la seconda guerra mondiale, dopo aver assistito alle
120 sedute del processo a Gerusalemme nel 1961, ebbe a scrivere, ne La
banalità del male del 1963, che in quell'uomo non avvertiva consapevolezza
del male compiuto perché si difendeva dicendo che aveva obbedito agli ordini.
<Tu
avresti detto: “Attacchì u ciùccə addo’
vəlè u patrónə” (“Legò l’asino dove
volle il padrone”), ma probabilmente avresti aggiunto ironicamente: “Attacchì u ciùccə addo’ vəlè u ciùccə stèssə” (“Legò l’asino dove volle l’asino stesso”), non
ritenendo giusta quella ubbidienza per una causa ingiusta. Avevi dentro di te
un senso della giustizia molto equilibrato che probabilmente nessuno ti aveva
insegnato ma che sicuramente avevi respirato in casa con i tuoi morigerati
genitori.
Ci
furono molte polemiche allora contro la grande studiosa e feroci accuse da
parte degli ebrei, che si aspettavano una strenua difesa da una ebrea e non una
sorta di difesa dell'operato della belva del Terzo Reich; da parte dei
cristiani, che videro offesa la loro dottrina della piena avvertenza e del deliberato
consenso; da parte di tutto il mondo civile e non, con minacce di morte e un
vero e proprio ostruzionismo che gli editori perpetrarono per impedire
l'ulteriore diffusione del libro incriminato e di ogni altra pubblicazione
della Arendt. Eppure la sua posizione, a mio parere, era chiara e riguardava
non la difesa o l'offesa, ma la constatazione evidente della natura umana di
cui Eichman divenne per lei metafora e simbolo. Senza etichette. Quale piena
avvertenza e deliberato consenso, dunque? Nessun uomo è, quindi, colpevole? Chi
ammetterà mai di fare del male in piena libertà e in tutta coscienza? Saremmo
tutti dei rei confessi e, invece, ognuno proclama la propria innocenza.
“È una sfida al pensiero, perché il pensiero
vuole andare in fondo, tenta di andare alla radice delle cose, e nel momento
che s’interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la
banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale”, ancora Hannah
nella sua ampia disquisizione su La
banalità del male.
L'unica
coscienza pura di autentico cristiano io la scoprivo di volta in volta in te,
nelle tue scelte di vita, e in pochi altri come te, di cui tessevi le lodi per
l'onestà e la coerenza nei principi professati. Ricordo che una sera ti sentii raccontare proprio a tuo fratello
sacerdote, che si trovava in vacanza da noi, quasi in confessione, che avevi
commesso un peccato grave di cui ti vergognavi e che avevi prontamente
confessato a don Mincucciodue: eri entrato nel campo di un tuo vicino
confinante per prendere due olive “pasóle”, grosse e invitanti, per seminarle
nel tuo campo che di ulivi ne aveva tanti ma non di quella qualità: nere e
dolci, da mangiare fritte “jndə au frəsuìcchjə” (nel tegamino) o arrostite
sotto la cenere. Zio padre Leonardo
ti ascoltò dapprima sorpreso, poi incredulo e, infine, commosso. E ti disse che
c'erano peccati ben più gravi che la gente non avrebbe mai confessato per
ignoranza o scarsa consapevolezza, soprattutto i peccati contro il prossimo. Noi
rimanemmo senza parole. Poi ridemmo di cuore per quel peccato minuscolo come
due olive in una coscienza grande come un oceano.
(E
più volte negli anni, ricordando quell'episodio, mi son chiesta: ma davvero due
olive? Avevo sentito e capito bene quella sera di tanti anni prima? E più volte
mi è tornata in mente la terzina dantesca del terzo canto del Purgatorio,
quando Dante, accorgendosi del rimorso di Virgilio, sua guida, per i rimproveri
di Catone, in quanto avevano rallentato il passo per ascoltare il musico
Casella, esclama: El me parea da sé stesso rimorso/ o dignitosa coscienza e netta/ come t'è picciol fallo amaro morso. Ma anche tutto questo è avvenuto molto più tardi). (…)
Zio
Padre Leonardo: alto, snello, con la lunga barba brizzolata, il neo sulla
guancia destra, gli occhiali “trifocal” dorati, che aveva portato dall'America,
il “clergyman” al posto del saio francescano, che invece indossò fino alla
morte l'altro tuo fratello, zio fra' Francesco. Era elegantissimo e metteva
soggezione tanto era bello. Pronunciava le parole con l'accento umbro un po'
aspirato come il toscano, con un’intonazione morbida, suadente, catturante.
Bellissima la sua voce, sapientemente modulata. Tutti rimanevamo affascinati
dalla sua voce e dalle sue parole: colti e ignoranti, adulti, bambini, vecchi.
Orchestra di mille suoni ad ascoltarlo. Eravamo fortunate ad averlo come zio.
Tu lo adoravi. Ti facevi piccolo piccolo di fronte a lui, nonostante fosse il
più piccolo dei tuoi fratelli. Era un grande oratore. Conosceva molte lingue
(cosa rarissima per quei tempi) ed aveva una cultura enciclopedica. Da poco era
tornato in Italia ed ora era Padre Provinciale a Perugia, nel convento che
aveva fatto ristrutturare e ampliare con i dollari che aveva mandato da New
York e dovunque si trovasse. A noi di casa portò sfiziosi, e forse utili,
regalini: il portafoglio di pelle color cuoio e l’elegante orologio da taschino
(“la cipolla”) per te, lo scialle di lana per la nonna, la borsetta di vernice
nera per mamma e giocattoli e cioccolatini per noi. Più tardi, i suoi regali
sarebbero stati qualche libro, qualche coroncina di madreperla, qualche penna
stilografica. E la sciarpa per te, le pantofole per la nonna. Poi avrebbe
regalato una bellissima macchina fotografica, una Zeiss, a Lizia per aver
superato brillantemente gli esami di Stato. La dentiera per nonna. Ma il regalo più gradito era averlo con
noi. Con noi!
Era
imponente, autorevole, amante del bello. Da esteta, sosteneva che una donna
avrebbe dovuto sentire l’imperativo categorico di essere sempre gradevole nelle
vesti e nella persona, dai dieci ai cento anni. Diceva che era un dovere, per
lei, curarsi e rimanere bella il più a lungo possibile per suo marito, per i
figli, per sé stessa. E ci dava consigli di buon comportamento. (a tavola i gomiti non vanno messi sulla
tovaglia ma bisogna tenere le braccia ben aderenti al corpo per non intralciare
il commensale vicino le posate si portano alla bocca e non la bocca alle posate
il capo e il busto devono essere sempre in perfetto allineamento con tutto il
corpo non bisogna piegarsi né a tavola né quando si cammina è molto importante
mantenere una posizione eretta per evitare malformazioni alle ossa della
schiena delle scapole dello sterno non bisogna mai sussurrare parole
all’orecchio di qualcuno se si è in presenza d’altri non è permesso non è
concesso non si deve... si deve attendere che sia il più importante a dare per
primo la mano da stringere nelle presentazioni o nel saluto... si deve chiedere
sempre il permesso di dire o fare qualcosa in presenza di altri... si deve
sempre ringraziare chi ti ha usato una gentilezza… si deve). Ma non ci annoiava
mai perché aveva una voce che era musica. Armonia di mille arpeggi. Io ogni
volta m’incantavo ad ascoltarlo, e pensavo al flauto magico e ai topolini che
seguivano quella musica irresistibile, come mamma ci aveva più volte raccontato
quando stavamo insieme…
Era, perciò, bellissimo ascoltare le sue memorabili prediche che commuovevano tutti i presenti, accorsi per vederlo e per ascoltarlo. Cosa rarissima per il nostro paese. Nonostante spesso nelle chiese venisse chiamato un “prədəcatòrə” (predicatore), Padre cappuccino o domenicano a ritemprare, zelante, con alcuni sermoni dal pulpito, la fede dei numerosi fedeli. (Le chiese, oggi deserte e spesso sconsacrate, erano gremitissime in quegli anni di innocente analfabetismo e di convinta e sentita partecipazione a tutti i riti ecclesiastici nella sconosciuta “lingua di Dio”: il latino).
Accanto a lui spesso incontravamo anche zio fra’ Francesco, con le sue massime sagge e i suoi aneddoti divertenti e il suo sandalo con una zeppa molto alta per sopperire alla mancanza di parecchi centimetri alla gamba sinistra (dislivello dovuto ad una ferita di guerra e ad un immediato intervento, persino senza anestesia, da parte del chirurgo cappellano, che così gli evitò l’amputazione dell’intero arto e ulteriori immani sofferenze, come lui ci raccontava) e fra’ Felice, il sempre arguto e sorridente vostro nipote, fratello di Peppino e Pasquale, figli di tuo fratello Michelino. Io ero sempre bianca nuvola di bianco sogno e mi sentivo fiera di me e ancora di me. E tanto fiera di zio Padre Leonardo, di te e di tutti gli altri (altro che Cenerentola apprezzata solo dal Principe!). Zio Fra’ Francesco, in verità, s’incantava a guardare gli occhioni di Anna Maria, che era uno splendore di bimba. E tutto il giorno ad ammirarla e a parlare, giocando, con lei: “bella bella bella… buooona!!!”. E Anna Maria rideva felice. Anche zio Fra’ Francesco ci affascinava con le sue storie e le sue arguzie per farci scoprire il mondo giocando. Insomma, eravate quattro fratelli meravigliosi. Il più taciturno e solitario era zio Michelino. Gli altri due, Antonio e Peppino, non li avevamo mai conosciuti. Quando zio Padre Leonardo andò via fu come se si spegnesse un faro nella nostra casa.
(…) 1975. Caro papà, a
fine ottobre, in viaggio io e Primo verso Roma per l’Anno Santo, voluto da Papa
Paolo VI, vedemmo per l’ultima volta, nella sua Perugia, zio Padre Leonardo.
Facemmo sosta nel suo convento, dove fu felicissimo di ospitarci. Ma lo vedemmo
già stanco e sofferente. Sentii che non l’avrei rivisto più e che avrebbe ben
presto illuminato solo il tuo Cielo>. (solito romanzo, vol. I)
Mi
fermo qui per non annoiarvi, ma domani riprendo per farvi ridere un po’ con la
nascita di Daniela, l’ultima di casa Leone che da subito si fece conoscere per
il suo carattere forte-fragile, ma sicuramente impositivo e coraggioso. Fonte,
comunque, di mille risate che desidero condividere con voi in questi ultimi
incontri sul mio reiterato “Spoon River”… A domani. Angela/Lina
Nessun commento:
Posta un commento