Oggi Lucio Dalla, tra i tantissimi musicisti del Cielo festeggia il suo ottantesimo compleanno, a cui partecipiamo anche noi. Io sono stata fortunata. Ho conosciuto Lucio sul finire degli anni ’50 a Manfredonia, dove ho vissuto per parecchi anni e dove lui abitava con sua madre, Iole Melotti, modista molto brava e richiesta dalle signore-bene, in una casa che si affacciava sul porto. Era amico di mio cognato Tonio (Antonio Leone, poi uomo politico di spicco per circa trent’anni.) e di una mia amica di scuola, Vittoria De Salvia, che aveva grande personalità, ottima famiglia alle spalle e una villa appena fuori città. Spesso c’incontravamo da lei per ascoltare Lucio Dalla, giovanissimo e non ancora famoso, ma già con un talento musicale eccezionale e con una voce che aveva in gola tutti gli strumenti possibili e immaginabili. Serate indimenticabili. Irripetibili. Tra musica, canzoni, battute di rara ironia e sapida autoironia, c’era già tutto il Lucio Dalla che di lì a poco sarebbe diventato uno degli artisti più famosi del panorama musicale italiano e mondiale. Ma la sua vita allora si divideva tra Manfredonia, le isole Tremiti e Bologna. Buon compleanno, Lucio!
Ma
oggi, purtroppo, questi meravigliosi ricordi di un tempo felice, vengono
oscurati dalle fosche nubi di quanto stiamo vivendo con dolore e rabbia e
ribellione. E anche se è forse impossibile la condivisione del DOLORE, è senza
dubbio condivisibile la testimonianza del nostro coinvolgimento in tanta
sofferenza, che ha prosciugato la nostra umanità, allagando sempre più il “mare
nostrum” di lacrime. E comincio da una coraggiosa denuncia di Raffaello Fusaro, giornalista,
scrittore, attore bitontino di chiara fama, che ha scritto: Non siamo tutti sulla stessa barca. Camminiamo sulle stesse spiagge, nuotiamo
nelle stesse acque, piangiamo e ridiamo allo stesso modo. Ma noi non siamo più
sulla stessa barca. Ho ascoltato un’intervista, sconvolgente, fatta ad un
pescatore. Si è tuffato in mare vestito per “pescare” gli ultimi respiri della
vita di un bimbo. In greco antico, lingua madre sconosciuta a uomini di oggi
che si professano padri, il prossimo era “to plesion”: chi mi sta accanto, che
sia di famiglia, amico, concittadino, connazionale, abitante del mondo, essere
umano. Ognuno di noi è inevitabilmente “to plesion” di un altro essere umano. Il
prossimo di un altro.
L’Europa tace. Salvini non tace
purtroppo. Non tace nemmeno il Ministro dell’Interno con: “Io non partirei se
fossi disperato, sono stato educato alla responsabilità…”. Mi piacerebbe che
lui visitasse Korogocho oppure la Siria oppure… e mi piacerebbe che facesse
domande a quei luoghi. Mi piacerebbe anche che, anche quando sarà sopraffatto
dalla voglia di rientrare, non potrà farlo. Non discuto degli scafisti oppure
delle Ong. Ricordo solo che tra la fine dell’800 e seconda guerra mondiale
centinaia di rotte hanno traghettato oltre oceano i migranti italiani. Cioè noi
che, disperati, andando a cercare la vita, abbiamo trovato la morte in decine
di naufragi.
Oggi abbiamo una colpa comune: non
credere più che siamo tutti sulla stessa barca.
Condivido
ogni parola di Raffaello, tra l’altro anche lui prezioso amico mio e di tanti
bitontini veraci: di quelli che sono rimasti e di quelli che sono andati via ma
poi ritornano. Il richiamo di casa è nelle vene di tutto il genere umano,
nessuno escluso. E ognuno conta nel cuore i propri naufragi, l’importante è non
perdere mai la rotta della nostra “umanità”. L’importante è non doverci
vergognare mai delle nostre parole. L’importante è denunciare il Male per
testimoniare il Bene. Ma con parole diverse: l’unica arma che possediamo, per
chi sa accoglierle, e che ferisce più di mille armi di morte e distruzione. E sanno
versare lacrime per tutte le barche alla deriva…
Come
raccontano anche i versi, intitolati “È inquieto il mare oggi” di Maria Pia Latorre, nostra fedele
presenza nel blog: È inquieto il mare
oggi/ sul dorso di uno scoglio/ a nuoto tra i marosi/ gonfia respiri la/
verde acqua ialina/ nell’alare gioco solare// Affiora un pesce lume/ racconta
sogni l’onda/ smarrirsi di gravame/
sospesi su un peso di niente/ il fondo ribalta sogni/ di buio li ha accecati/ e
placa l’onda/ il dolore che va a fondo. Ma si placa veramente “il dolore che va a fondo” nonostante la
trasparenza cristallina della necessità di salvezza di quanti si affidano al
sogno di salvarsi “sul dorso di uno
scoglio”, improvvisamente affiorato dal nulla, a spegnere i sogni “accecati dal buio” e andati a picco,
trascinando nel fondo “il dolore”? c’è
da chiederselo o è lampante verità di sconfitta per la nostra pietas? Ma esiste anche un altro sogno
di Maria Pia, che titola un’altra sua poesia “Ho sognato”. Eccola: Ho sognato il dolore/ degli ultimi/ salire
la montagna/ Una processione di tristezza sporca/ a cercare lavoro in alta
quota/ Ma gliel’hanno detto che lassù/ c’è solo roccia e ghiaccio sciolto?/ e
come si fa ad andare su vestiti così?/ Nei bar illuminati i bianchi/ seduti con
i loro cappuccini tiepidi/leggono giornali senza pagine Altra denuncia di
un diverso dolore che procura la stessa pena e la voglia di sistemare le pagine
del giornale, che sarebbero comunque vuote, date le scettiche quanto
realistiche premesse, per riempirle con parole che possano cambiare il mondo…
E,
a proposito di verità, ecco i versi dal titolo emblematico “Non sono qui” di Mariateresa Bari, altra voce forte/fragile,
ma costante e profonda e vera del nostro blog: Sul balcone respiro splendore/ la finestra germoglia di
tramonti/sbriciolati tra dita gravide// Veneziane la verità a filtrare// Non
sono qui/ non lacrima il tempo/ l’inverno non tracima/ da ciglia finte// Nella
vertigine del nostro abisso/ pesante il fiato/ si aggruma brucia abbuia// S’incrina
di foglie il passo morente La contraddizione fortissima tra lo “splendore” che attraversa “la finestra” che “germoglia tramonti” e la verità di quanto Mariateresa sia assente
dove il tempo “non lacrima” nella “vertigine
del nostro abisso”, in cui “s’incrina
di foglie il passo morente”. Amara verità, oggi, nonostante le tante false “apparenze”!
Le foglie?. “Non a nome mio!” (Andrea Camilleri), dunque, anche per tutti noi!
E, intanto, una voce sempre defilata,
ma non distante né lontana, scrive questi meravigliosi versi senza titolo. Sono di Silvana Mangano, medico di base oggi in pensione ma ancora sulle
barricate come oncologa, psico-terapeuta,
amante della natura, degli anziani, degli animali, di tanta umanità sofferente.
Amante della Croce e del buon Dio. È superfluo dire che è anche meravigliosa
amica mia? Di lei ecco questi profondissimi versi che la connotano: Non stancarti fratello/ di attraversare
deserti e deserti…/ lande desolate…/ Mari che inghiottono cadaveri/ Città
distrutte/ Macerie e macerie./ Non voltarti indietro/ Ancora cammina// E
infinite volte/ le acque della Verità/ irromperanno nella storia…/ nella mia
storia. nella tua storia. nella storia di ognuno// E il dolore avrà un senso/ e
il martirio di tanti// Rinasceremo infinite volte/ sempre più veri/ E il vento
dello Spirito,/ come vino inebriante,/ ci condurrà per nuovi sentieri/ Coraggio
fratello/ Accendi la tua lanterna/ con il fuoco dell’Amore/ E vai…/ Anche senza
sapere dove
E le metafore si susseguono per raccontarci
le lacrime e i sorrisi della vita, con il ritmo del cuore calibrato su quello
del tautogramma e delle allitterazioni, fino a farci raggiungere dal “fuoco dell’Amore” che “come vino inebriante/ ci condurrà per nuovi
sentieri”. “Anche senza sapere dove”…
Dunque,
occorre andare, non importa dove, purché ci sia una possibilità di salvezza
dall’orrore, dalla fame, dalla distruzione, dalla pervicace ingiustizia di
quanti purtroppo, per vicinanza geografica, chiamiamo “nostri simili”, mentre dovremmo
accogliere quelli che davvero sono nostri “fratelli” nonostante vengano da
lontano…
E
le testimonianze continuano. Siete in molti ad aver ascoltato il mio richiamo. Ecco
“NAUFRAGIO” della carissima e bravissima, Ritabu sui social: Buio di stelle infrante/ il vento furioso/
imbianca il mare/ che ulula dolore/ e/ nero/ divora vite/ spiagge e scogliere./
Dopo l’apocalisse il silenzio/ l’odore dell’alba/ fredda sulla risacca/
lambisce il petto immobile./ Il sale ormai è asciutto. E la tragedia è
tutta in questi scarni versi che sintetizzano, in modo da fare accapponare la
pelle, “l’apocalisse”,
il rumore assordante del dolore. Il silenzio della morte “sentito” da chi è
rimasto in vita, quando per tutti gli altri era ormai “asciutto” il sale”. E la
commozione ci vince.
Identica
commozione suscita “SPIAGGE DI DOLORE” in 24 settenari di Luigi Lafranceschina, mio caro amico di tempi migliori, ritrovato
di recente, in tempi ben più bui che sollecitano un abbraccio di cuore con
versi che ci riscoprono in sintonia e ci aiutano ancora, nonostante tutto, a
sperare: Il Verbo che mi guida/ Non
scioglie le catene/ Del dubbio e dell’angoscia/ Di questi tempi cupi./ Oggi il
mare sanguina/ Di bieca indifferenza/ Di chi si finge cieco/ Per non vedere il
mare/ Carrette alla deriva/ Con urla di terrore/ Calano a picco i sogni/ Di chi
sperava il meglio./ A galla sui marosi/ Salgono lenti i corpi/ Che pigiano i
frangenti/ Su spiagge di dolore./ Di mare le tragedie/ Affollano giorni e ore/
Non resta che lottare/ Per pene più severe/ a chi mercanta lutti/ E lacrime di
morte./ Solo preghiere a Dio/ Che ciò più non accada/ A nord e a sud del mondo/
Né oggi e né domani! E ogni parola è
superflua, mentre tante sono le parole di Vito
Tricarico, che sempre ci segue con attenzione e viva partecipazione nel
nostro blog ed io faccio tesoro dei suoi suggerimenti, proiettati verso un
mondo più giusto e solidale. Qui riporto i versi di “Una preghiera per: I
martiri del mare”: La palla infuocata del
sole/ scende e s’inabissa nel mare./ Un presagio colpisce l’anima/ protesa
verso una roccia,/ uno scoglio lontano, la terra ferma./ L’odore di pelle
umida/ si mescola alle lacrime calde/ di donne e di giovani, dei migranti,/ che
stan tentando la traversata/ verso una nuova terra promessa./ Ma, il motore
dello scafo va in avaria/ diventa muto, va in panne,/ solo le onde leggere
vogliono spingere il natante./ In breve i
flutti diventano alti/ da far paura, sopraggiunge la notte/ e si fa scura./ I
giubbotti di salvataggio, i salvagente/ a poco servono nella tempesta/ quando
sei in acqua e l’aiuto è assente…/ Ancora martiri, giovani vite stroncate,/
martiri neri della guerra alla povertà/ vittime senza volto, spesso senza
identità./ Non è mai scontato il prezzo della libertà. È una cronaca
dettagliata e amara del naufragio di tanti martiri migranti nel nostro mare,
che tutti accoglie nel suo abbraccio di morte. Anche per via degli aiuti
assenti. Giusta denuncia che non trova eco nella coscienza di tanti che
potrebbero salvare vite, sogni, progetti per un avvenire migliore. Potrebbero ma
non… E così anche il sogno di libertà s’infrange contro una notte avversa e
senza luce…
E,
infine, mi commuove fino alle lacrime la poesia in dialetto, tradotta in
italiano “Sigla (KR46MO)”. È del mio carissimo amico Vincenzo Mastropirro, che
tocca profondamente le corde del cuore di chi ha il privilegio di leggere le
sue poesie, di ascoltare la sua musica (il suo flauto magico). Per ovvie
ragioni di trascrizione, riporto qui solo la versione in lingua italiana, anche
se la nostra “lingua materna” ha un’altra intensità, una potente significazione,
una più suggestiva verità: Un nome ce l’ha
e sono felice/ ora posso scrivere di nuovo una poesia.// Finalmente sono morti
altri morti/ e sta pure un bambino, anzi sono tanti.// Ma sta uno che tiene un
bel nome/ un nome piccolo piccolo.// Non so come l’hanno chiamato loro/ ma un
nome almeno glielo hanno dato.// Io lo chiamo Amid ed è bellissimo, lo so/ è
nero e sta in una bara bianca (vm). La sottile denuncia si mescola a tanta
ironia e ad una commovente tenerezza, tutta in quel “nome piccolo piccolo” che bene fa il paio con la sua pelle nera “in una bara bianca”. E il mio cuore si
stringe in un pugno “piccolo piccolo”. Grazie, Vincenzo, anche per queste
lacrime.
E
forse domani scriverò ancora. Per non dimenticare! Angela
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