Siamo in pieno carnevale come sempre a febbraio e come tanti anni fa. Esattamente 51 anni fa. Proprio di venerdì 17 febbraio, a ridosso del giovedì grasso. Ed io battezzai subito quel figlio, maschio finalmente, “Coriandolo pazzo!”. E così fu ed è. E brevemente desidero parlare di lui, rifacendomi al mio romanzo Le piogge e i ciliegi, dedicato a mio nonno, come già detto qualche giorno fa. Scrigno di ricordi a cui attingere per non dimenticare, ora che sono vecchia e la memoria va piano piano in pensione: <1972. Infatti, manco a dirlo, ecco Giuliano. (…). Alle tre del mattino mi “si ruppero le acque”. Ne seguì un trambusto che svegliò Raffaella che corse da Ombretta (già comunque sveglia) per dirle tutta allarmata e festosa: “mamma si è fatta la pipì addosso”. Lasciammo le due bimbe da zia Lizia, che abitava al quinto piano (noi al quarto) di quella nuova casa in via Mazzini, e ci precipitammo alla clinica Santa Maria.
E fu alba
Dopo un lungo periodo di stanchezza,
di lacrime e delusioni, di ansie ignorate, e di attese dietro i vetri della
disperazione (riderà riderà riderà/ tu falla ridere perché/ riderà riderà
riderà/ ha pianto troppo accanto a me… Little Tony tentava di consolarmi per
darmi una voce di rinascita…). ‘Questa è la felicità’, mi dissi al suo primo
vagito di figlio maschio. ‘Grazie, mio Dio, per tanta gioia dopo tanto dolore.
La felicità esiste ed ora si fa culla fra le mie braccia’. Anch’io vittima, a
mia insaputa, di una società che prediligeva il figlio maschio e guardava allarmata
alle figlie da maritare (oh quante belle figlie madama dorè…). Giuliano! Il figlio tanto atteso e difeso perché
venisse al mondo. Quando mi accorsi di aspettare un figlio per la terza volta,
Primo era assente per un Convegno. Glielo dissi per telefono. Mi rispose che
sarebbe stata un’altra bambina. Il culto del figlio maschio riaffiorava anche
in lui dopo alcuni anni di lotte e di rivendicazioni femministe, culturali e
sociali. E che, comunque, sarebbe stata una pazzia mettere al mondo ancora un
figlio. L’oltre Sessantotto, già preda di atti sconsiderati e cruenti, lo
rendeva più razionale e pessimista. Realtà
evidente che feriva i nostri giorni… “E se fosse un maschio?”, dissi,
avvertendo come un presagio. Realtà
nascosta che mi fioriva nel cuore. Primo era spaventato e perplesso.
Determinato: un nuovo bambino in tre anni e mezzo di matrimonio era una follia.
Me lo disse così, a bruciapelo. Maschio o non maschio, io cominciai da subito
ad amare quel bambino. A difenderlo. Da sola. E nacque in un giorno di
carnevale. E fu il bimbo del sorriso>.
Coriandolo pazzo per tutta la vita. E Primo vive in lui. Nelle sue battute
folgoranti. Nel suo amore per l’elettronica, per il cinema per la musica. Per
tutto quello che ci aveva visto uniti e divisi. Non passò molto tempo che un
nuovo bimbo bussò al mio cuore, ma non ebbe fortuna. Si perse per strada verso
i quattro mesi in fiumi di sangue e di dolore. Era un altro maschietto che
difesi con tutta me stessa fino al momento di perdermi in quella corsia di
ospedale dove incontrai solo una vaga carezza sulla mia pena… un aborto oltre
il quarto mese e un nuovo dolore da ingoiare con labbra mute. Esperienza
lacerante con l’anima in frantumi da ricomporre ancora e ancora. Ma è più giusto stemperare le ferite con i
ricordi delle risate. Ed ecco tornarmi alla mente un episodio simpatico ma non
troppo, accaduto sempre in una delle periodiche obbligatorie visite
nell’ambulatorio del Comune per le vaccinazioni. <Ci incontrammo io e un’altra mamma con i nostri rispettivi bambini
nelle rispettive carrozzine. Ebbene, Giuliano si portava a spasso la sua testa
leonina, che mi aveva procurato, per ben tre mesi, una brutta “artrosi da
parto”, mentre l’altro bambino esibiva, suo malgrado, una testolina striminzita
che, a mala pena, emergeva tra i lenzuolini. Entrambe noi mamme fummo prese, di
primo acchito, da atroce dubbio: ‘quale dei due presenta una testa normale?’.
Erano entrambi una esagerazione nell’uno e nell’altro senso. Stemmo tutto il
tempo a guardare le teste dei nostri figli in silenzio, senza avere il coraggio
di esternare il nostro pensiero con la scontata, evidente, conclusione. Che mi
permise, a casa, di fare le mie considerazioni, mimandole, per ridere di cuore
tutti quanti insieme… (…)>.
Figli come gocce di pioggia. Figli
come ciliegie a primavera: l’una tira l’altra. Giuliano a donarmi la felicità nella frazione di un
attimo: il suo affacciarsi al mondo. Il mio bimbo di sorrisi in un dilagare di
giorni che speravo più sereni. Figli
come ciliegie da mangiare a ciuffi a manciate. L’una tira l’altra.
Tenerezza di rosee labbra di bimbi al mio seno. Latte di madre da succhiare.
Notti insonni da cullare. Mattini di stanche ore e di carezze pensate tra i
palmi delle mani sotto il capo sul tavolo a reggere un recupero di sonno nelle
ore del lavoro rimandato e presente. Pressante.
Poi,
Daniela, l’ultima nata. Nuova consolazione ai miei giorni di fatica e
delusione. Quattro figli in appena otto anni. In un tempo in cui si cominciava
a programmarli: non più di due, massimo tre. <E letterine da insegnare a
tutti prima che la scuola bloccasse la loro gioia d’imparare (a come Avventura/ b come Bravura/ c come
il Cestino della frutta e la verdura/ d come Diamante/ e come Elefante… f come
Farfalla che nel prato prenderò…). E i figli che crescono e si crescono
senza una regola certa da seguire. “Che
dite se oggi non andiamo a scuola?”, io seduta in cucina dopo la colazione
a invogliarli a rimanere a casa, e i loro occhi increduli ad interrogarmi ed io
incredula a registrare la loro voglia di andare, e il loro senso innato del
dovere a chiamarli nonostante le tenere persuasive parole materne a
trasgredire, e io a perdermi nella loro incredulità. Quella voglia di non
andare a scuola era la nostra bandiera di descolarizzatori, mia e di Primo,
issata sul pennone della nostra navepirata sempre in viaggio tra mille flutti e
marosi, in mattine di pioggia o di neve, ma anche in azzurre giornate di sole (che dite? ce ne andiamo in campagna a vedere
i ciliegi in fiore? conosco un campo che conosce i passi ridenti della mia
infanzia…). (…). Non avevo mai amato la scuola sin da bambina, come ben
sai, e non l’ho amata neppure da insegnante amando, quasi più dei miei stessi
figli, gli alunni; rovistando, soprattutto negli occhi dei più ribelli, dei più
timidi, dei più lenti e svogliati, le loro difficili, amare, improponibili
storie. Invogliando i più diseredati a recitare meglio dei più preparati le
drammatizzazioni e le rappresentazioni teatrali che imbastivo durante l’anno
scolastico soprattutto per loro: la loro e la mia rivincita in una scuola che
li voleva perdenti e sconfitti. Che mi avrebbe voluto perdente e sconfitta
senza riuscirci mai (‘non mollare mai non
mollare di fronte alla regola… a due più due che deve dare quattro mentre per
te è sempre più di nove… non mollare di fronte alla banalità di uno studio
mnemonico di una lettura consigliata e non vissuta… di una grammatica o
sintassi studiata sui libri e dimenticata nei testi da leggere e da scrivere…
di una interrogazione che non ha senso se non ami quello che ti chiedono di
dire’…)>.
<E,
ancora, i figli che crescono in una casa nuova, finalmente tutta nostra,
finalmente comprata in parte con i proventi di una vincita di Primo in lingotti
d’oro e in parte con un mutuo di semplici lire. A sfatare il mito di grattacieli
di denaro accumulato. Io che non ho mai trattenuto per me una sola lira. Con
l’unica gioia di una casa arcobaleno che sorride di colori: una quasi sera di
sole caldo arancione, la nostra camera da letto; azzurro rettangolo di cielo,
la cameretta dai tre letti uguali per gli azzurri sogni delle nostre tre
bambine; verde prato fiorito, la cameretta d’avventura e di coraggio dell’unico
figlio alle prese con i mille giochi che suo padre gli procura; gialla, di
luminoso sole, la cucina dalle panche di legno chiaro e il lungo tavolo per la
lunga nidiata; e rosso tramonto infuocato, lo studio di Primo con tele e
pennelli e mille sfumature colorate da intrecciare con le dita; blu come tutti
i mari conosciuti, come tutti i cieli respirati, come tutti i sogni raccontati
o taciuti (e tende ai balconi con onde a darci un suono di risacca, e una vela
di legno a restituirci spazi di libertà): il grande salone, con moquette e
pedane e angolo per la musica da ascoltare distesi, avvolti da tanto azzurro in
attimi di serenità e di tempeste infinite. La filodiffusione in ogni spazio
della casa. E il marchingegno della sveglia che azionava elettronicamente, e
contemporaneamente, l’accensione della radio e della macchinetta del caffè per
un buongiorno che accarezzava tutti i nostri sensi (altro mirabolante acquisto,
quasi subito venduto dal padrone di casa, che gestiva così anche le nostre
vite). E il lungo balcone per le mie passeggiate d’estate e il lungo corridoio
per le mie passeggiate d’inverno, surrogato di passi che non possono andare
lontano, stritolati da un lavoro che martella ore e giorni e notti e che mi
impedisce ogni via d’uscita, ogni respiro>.
<Giuliano, figlio di ogni possibile
sorriso ad allagami il cuore, ebbe subito la sua cameretta con leoni, giraffe
ed elefanti nella foresta incantata che suo padre dipinse per lui sulle pareti,
e una solitudine di giochi e di parole, mentre continuavo a cullare Ombretta
che dilatava ancora le mie notti col suo interminabile pianto (lui,
piccolissimo e già solo, aveva la sua nicchia di sopravvivenza in quella
solitudine di foresta e in un lenzuolino col bordo ricamato per fare col ditino
“il grattamento” e guai a non avere quella sua “coperta di Linus” per
addormentarsi. Giuliano e il suo incanto nel vedere i tergicristalli muoversi nei giorni di pioggia
e seguirli col ditino puntato e occhi immensi (ci-ci… ci-ci… ci-ci… tic tic tic
tictic ci-ci tictictic ci-ci…tttt ci-ci ttt ci-ci… ci-ci…). (…) Giuliano
e il suo tornare a casa con sempre un racconto strampalato da inventare per sorprenderci
o farci preoccupare. Una fantasia indomabile di parole la sua conquista di
libertà. Ma la vita è sempre un richiamo d’amore per restituirci alla vita>. In realtà, subito dopo la nascita di
tutti e quattro i figli, ben presto dovetti fare i conti con una nuova realtà: <tre
figli piccolissimi, il lungo pianto di Ombretta, il lavoro insonnolito a
scuola, l’attesa di un nuovo figlio da me subito accettato, ma ugualmente
perduto dopo oltre quattro mesi del suo crescermi dentro, infransero nuovamente
tutti gli equilibri che tentavo di crearmi per non naufragare>. Daniela,
inoltre, poco dopo la sua nascita <mobilitò tutta la famiglia col suo
caratterino impositivo. Ore ed ore di passeggiate nel “paggeggino” lungo il
lungo corridoio nella nostra casa per soddisfare il suo capriccio di andare a
“paggeggio” anche in casa senza muovere un passo. Alla guida si alternavano,
non senza riluttanza e proteste, le sorelle maggiori. Solo Giuliano si
rifiutava categoricamente di fare da bambinaio a quella piccola peste sbucata
chissà da dove per creare scompiglio in una casa già affollata di troppi bambini,
e trovava repentino rifugio nella sua cameretta, che pullulava di figurine dei
calciatori (“Panini”) e innumerevoli “chianelle” (i tappi a corona di
bottiglia), infilate dappertutto. I suoi tanto amati videogiochi erano di là da
venire>.
E
le voci di amiche e colleghe <(ma
sempre abbracciata stai con tuo marito?... i miei abbracci si vedono e ne sono
felice… vuol dire che respiriamo ancora amore nella nostra casa… sì ma oggi è
da incoscienti mettere al mondo più di uno massimo due figli… con i tempi che
corrono poi… in questa società… i figli costano e richiedono tempo e soldi che
non abbiamo… tra il lavoro la casa i mariti che non muovono un dito… abbiamo
diritto anche noi a riservarci uno spazio tutto nostro per ritrovarci…
banalmente lo penso pure io forse ma non lo dico anzi in silenzio mi dico ‘mi
piacerebbe adottare qualche bambino per dargli una famiglia e tanto amore dove
ce ne sono quattro ce ne possono stare anche cinque-sei noi siamo sei e siamo
vissuti bene ma bisogna essere in due purtroppo a volerlo’…)> La realtà contrasta spesso con i nostri
sogni, con i nostri desideri più profondi. E la realtà, in quegli anni, era
arrotolata in una lista enorme di problemi da dipanare quotidianamente. Arrotolavo
la lista per riaprirla il giorno dopo sulla realtà del nuovo giorno. E sull’incognita
di ogni nuovo giorno. Ma tutto
passa e tutto ritorna nell’incessante movimento dell’esistere. Il mare la
sua risacca. E nascite e morti ancora. I due poli estremi della vita e in mezzo
giorni senza date, senza nomi, senza definizioni. Furono vissuti? Sì, furono vissuti, se mi vengono incontro scampoli
di ricordi, orlati di gioia alcuni, e altri ricamati di pianto. Dall’amalgama
indistinto del passato più recente si definiscono via via i contorni sempre più
chiari di altre condizioni di vita, altri sogni e ideali e progetti, altre
situazioni.
<Anche
Giuliano, lo sai, non ha saputo resistere. Fa parte della generazione allevata
a merendine e Nutella, con i cartoni animati e le guerre stellari e gli ufo nel
giardino e la paura dimenticata (heidi heidi
ti sorridono i monti… dolce remì… anna dai capelli rossi… jeeg robot d’acciaio…
goldrake e l’alabarda spaziale e mazinga e…). Teneri cartoni animati di
prima generazione, in cui c’erano quasi sempre bambini orfani o abbandonati con
un nonno come te oppure con tante persone di cuore che se ne prendevano cura,
in una natura incontaminata e felice… bella da guardare. Da vivere. Poi,
arrivarono dall’America tutti i meravigliosi cartoni animati della Walt Disney
a colmarci di bellezza, musica, fantasia gli occhi e il cuore… E più tardi i videogiochi (pong… tetris… nintendo… spizzico… commodore 1 e 2 e 3 e 4 e
la play station 1 e 2 e 3 e 4… e
via via fino ai nostri giorni…) per trattenere in casa i bambini e i ragazzi ed
evitare così i pericoli della strada, senza dare fastidio ai genitori sempre
più alle prese con il loro lavoro e la loro realizzazione nel sociale. I sottani
e le case a pianterreno furono divorati dai “grattacieli” di sei-sette piani
con gli ascensori e le porte di casa chiuse e ostili ad aprirsi agli altri per
fare amicizia o andare lontano. Quante
vite viviamo nell’arco di una vita? Niente è come appare. Attimo per attimo noi
siamo altro da noi. Ed ogni volta è come se nascessimo per la prima volta. Se non conservassimo memoria di noi.
E nuove voci e nuovi richiami e nuove storie a venirmi incontro dai muri delle
nuove case, dalle strade e le piazze, che mi hanno vista sempre più decisamente
viandante e sempre più prepotentemente fuggitiva… E voci che si perdono e volti
che spariscono sostituiti da altre voci che nascono, da altri volti da altri
incontri amori lacrime rifiuti rinunce rifugi in vie di deviazione per rinascere
sempre, rinascere ancora. E altri sentimenti perduti, altre emozioni rinate,
altre illusioni deluse. Altre unioni. Altri amori. Giuliano e le sue tante
ragazze in una continuità di fughe e di nuovi incontri, nuovi abbracci e
convivenze…>
Giuliano
è ancora oggi un fuoco d’artificio di battute, del paradosso, dell’ironia e
dell’autoironia sia sui social sia via radio. Ora è anche intrattenitore e
speaker in una importante radio della Capitale. E scrive divertentissime
ministorie che definisce “true story”. E fa altro e altro ancora. Giuliano ha da parecchi anni una nuova
compagna, Viviana: bella e allegra
conchiglia ad accoglierlo con complicità, quasi canto di sirena ad incantare il
mare. Insieme colorano di mille avventure e vivaci allegrie gli annuali
calendari, anche profumati di ottimi manicaretti (Viviana è ottima cuoca e
impagabile padrona di casa) nella cucina della pazza e accogliente dimora, che
vorrebbero guscio solido e duraturo per il loro amore. E anche questo lascia
ben sperare ad una madre che segue da lontano e trepida e non si arrende, pur
invecchiando. Buon compleanno, amoremio. Mamma
E
a risentirci anche noi! Buon Carnevale! A dopo martedì grasso… Angela
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