Buon San Valentino a tutti con tanto amore da dare, da ricevere. Mamma era la prima destinataria dei miei auguri per San Valentino. Lei si meravigliava. Ogni volta. Si schermiva. “E io che c’entro?”, mi diceva ogni volta. E io ogni volta le rispondevo “c’entri, c’entri perché sei il mio primo amore. San Valentino è anche la festa di chi si vuol bene!”. E lei ogni volta sorrideva felice. Non sempre, però, o quasi mai, io andavo a trovarla a causa del mio lavoro incessante, amato e detestato, di preparatrice dei Concorsi a Cattedra per il ruolo nella Scuola di ogni ordine e grado, con cadenza biennale, fino a togliermi il respiro per oltre trent’anni. Lavoro amato, perché svolto con assoluta passione e dedizione; detestato, perché mi impediva letteralmente di prendermi cura dei miei cari: nonni adorati e figli in primis, mamma, marito, sorelle, fratelli, parenti, amici. Per oltre trent’anni “non ho vissuto” per “vivere per i concorsi e i miei allievi”. Ma anche per telefono io sentivo la gioia di mia madre, il suo amore, la sua comprensione, il suo perdono con il sorriso. Mio eterno rimorso ancora oggi che sto per raggiungere tutti i miei cari che mi hanno preceduta. Oggi sono io “in prima linea”, come diceva mio nonno. Ma la tradizione del San Valentino ad una voce tra di noi continua.
Sabato,
complici i miei di casa, Ombretta e Daniela, le mie due figliole che vivono a
Roma, mi hanno fatto la sorpresa di raggiungermi con tanti cuori di baci in
dono, ma ieri sono già ripartite per via del lavoro. Lavoro che ha impedito a
Giuliano e a Viviana di raggiungermi. Ed io stanotte, ripensando alla loro
tenerissima presenza/assenza in questa casa, ho sintetizzato così il nostro
momento magico: rose e tulipani e
orchidee/ dietro vetrate aperte/ da complici mani/ in frammenti di sole che
ignoro/ e passi inattesi/ e un palpitare furioso del cuore/ impreparato alla
voce/ improvvisa tra capelli/ vinta da sorrisi di sguardi/ nella casa
ritrovata/ e rivissuta con rinnovata allegria./ Ci ritroviamo nell’abbraccio/
che stringe l’attimo in sé/ conchiglia di fragoroso rumore/ più forte della
lontananza/ del gelo delle ore rubate al sonno/ in un anticipo di San Valentino
e cuori in dono./ A doppia mandata/ l’amore ci lega col filo/ della commozione
lunga/ quanto la silenziosa attesa./ Acrobata io a capriolarmi/ nel silenzio
delle intenzioni/ su improvvise nuvole rosa/ tra soffitto e scrivania/ e un
ritrovarci appena di ritorni/ con parole e lacrime di gioiosa intesa/ E SIAMO
ANCORA INSIEME / Sapore di baci da conservare/ tra dita intrecciate/ a treccia
di pane di sere brevi/ da assaporare piano/ alla mensa del passato/ (per
ritardare il fischio del treno/ zaini e spalle a scivolare via/ dai miei occhi
perduti/ sulle code dei gatti/ nel tramonto solitario/ … del giardino).
Ma
oggi è anche il compleanno di nonna Uccia, la mamma di Primo che festeggia con
lei tra le stelle, con l’altro fratello, Nelio (dei due rimasti), e la sorella
Rina. Ed io li ricordo oggi con un abbraccio immenso a contenerli tutti.
Ed
è anche il compleanno di mia sorella Lizia.
Con lei ho vissuto, in discontinuità di tempi e di luoghi, infanzia,
adolescenza e prima giovinezza. Ci legano due personalità diverse, ma ricordi
comuni. Vissuti nella “casa del gelso e delle rose” all’ombra solare,
protettiva e amorevole dei nonni. Lizia timida, discreta, silenziosa, almeno
fino al liceo; io spavalda, logorroica, sempre presa dallo specchio e dal
bighellonare di qua e di là, senza una meta certa che non fosse il cuore. Lizia,
innamorata degli studi classici e del suo secolare e famoso liceo; io
completamente disamorata dello studio e della scuola. Spesso assente per
evitare interrogazioni e compiti a casa. Ma sempre fiera dei suoi meritatissimi
e bellissimi risultati scolastici con borse di studio, viaggi premio, stima dei
professori, ammirazione di tutti i compagni di scuola, tra cui alcune amiche
che di pomeriggio venivano a casa per i compiti da svolgere insieme. Io evitavo
le amiche per evitare di studiare.
Così
diverse eppure sempre presenti, noi due, l’una all’altra nei momenti della
necessità di essere presenti, l’una all’altra, con le parole e con i fatti: il
primo esame all’università (il suo e più tardi il mio); la mia prima figlia
Raffaella e il suo primogenito Gianfranco, e poi via via tutti gli altri…
Ma
proviamo ad andare con ordine, partendo dall’infanzia. E attingo da quello
scrigno inesauribile di ricordi che sono i due romanzi dedicati al nonno,
protagonista, insieme con tutti i miei cari, cani e gatti compresi, fiori e
piante di un giardino in cui svettava il gelso rosso, fiero guerriero del tempo
che fu. Ma andrò zigzagando tra passato e presente perché così sono i ricordi. E,
essendo a febbraio e in pieno inverno, comincio con un ricordo di davanzali e
strade innevate: <Tu, io, Lizia, la nonna, ancora insieme, si restava al buio. Per
guardare quella coltre soffice come di luna a regalarci il silenzio delle cose
e degli uomini. I volti rischiarati dalla penombra rossastra dei carboni accesi
nel braciere e gli occhi persi su quel sognante volo, su cui fiorivano le
immagini evanescenti che le tue parole accendevano davanti ai nostri occhi. (…).
Allora la neve portava le tue fiabe su cavalli alati che entravano nella nostra
casa e avevano un manto bianco e occhi di brace come ciocchi ardenti a
riscaldarci... La tua voce ferma, che ascoltavo trasognata, era il nostro pane
quotidiano. Mai spenta l'eco delle tue parole che, nel reiterato annuncio,
dilatavano il tempo e lo stupore, il sogno e la magia (‘ngèjrə e ‘ngèjrə ‘na
vóltə… c’era e c’era una volta…)”
Immensa
rosa bianca il cielo/ sfilacciato di petali/ in caduta trasognata/ e un lento
volteggiare nel vento/ Ulula la bufera e stride/ Bussa impetuosa alle porte/ della
mia casa stretta nel suo scialle/ Nessuno va ad aprire/ incatenati gli occhi ai
vetri lunari/ Bianche piume come di nido/ danzano leggere sfogliando/ la rosa
incantata/ che su merletti d’erba frana/ stranita/ Pigolio affamato di
scriccioli/ in cerca di ciliegie infreddolite/ che di rosa fioriranno a
primavera/ Spolvera di bianco il giorno/ questo gioco di ciglia/ dischiuse su
strade d’antiche/ stagioni/ Incontro mi viene/ sul cocchio di bianco cristallo/
e fiocco di ghiaccio nel cuore/ la Regina delle Nevi/ Rabbrividisce la vecchia
bambina/ ai ricordi d’un tempo fioriti/ su
labbra di parole ora in disuso/ Al rosso fuoco del braciere acceso/ il cuore di
gelo della perfida sovrana/ si scioglieva in un lago incantato/ che rideva di
bianchi cigni/ sculture bianche di zucchero filato/ Briciole di tenerezza
allora/ che i fiocchi di neve erano farfalle/ da cullare tra mani di geloni/ e
pane e olive nere sotto la cenere/ (noi vincevamo il sonno
al
tenero mormorio della sua voce…)
(“Rosa bianca il cielo”, poesia inedita). (…).
Ho
incontrato prima di ogni altro incontro le tue mani Brune. Nodose. Rugose di terra e di sole.
Esperte. Nella cura delle rose toglievi, con inaspettata delicatezza, le spine
perché non ferissero le nostre mani (oh, quante spine nell'arco degli anni si
sarebbero conficcate non solo nelle dita!). Sicure. Nel controllo delle redini
che indicavano al cavallo il cammino da percorrere per portarci ai tuoi campi
di ulivi e di ciliegi, di mandorli e di gelsi, di fichi e fichidindia, lungo i
parieti di pietra che dividevano le proprietà dei singoli agricoltori e dei
tanti contadini. Forti. Nel sollevarci come piume per capriole e voli verso il
cielo. Possenti. Molti anni dopo, nell'accogliermi di peso nella culla delle
tue braccia: io ventenne e svenuta per un malore; tu ottantenne e ancora
guerriero, a portarmi da solo, e non so come, sul mio letto nella cameretta che
condividevo con Lizia. Miracolo dell’amore. (…). Referendum del 2 giugno 1946. Ricordo ancora, come un incubo, la paura che
mi sorprese, subdola e infinita, quando tu, mamma, nonna e babbo foste
costretti a lasciarci da sole in casa per andare a votare. Avevamo, Lizia e io,
cinque e quattro anni appena compiuti. Le donne
votavano per la prima volta e non sapevano come fare. Avevano bisogno di voi
uomini per farsi coraggio e dare il loro voto. In casa già
nei giorni precedenti lievitò una grande nebbia di incertezza e di tensione.
L’unico ad avere le idee chiare forse era babbo, chiuso nel laconismo di chi è
sopravvissuto all’orrore. E don Mincucciouno,
il nostro amico sacerdote, che curava tutte le pratiche burocratiche delle tue
proprietà e che vi aveva suggerito più e più volte come votare, dove apporre la
firma o la croce (la cròcə sòpə all’alta cròcə), ma voi respiravate perplessità
e ingoiavate preoccupazione e dubbi e paure. Nonna
Angelina dichiarava che lei non ci capiva niente e che avrebbe preferito non
votare tanto avrebbe comunque sbagliato e che, alla fine, “non era col suo voto
che si salvava l'Italia”. Mamma si sforzava
di mantenere la calma, ma si tagliava a fette il suo timore per qualcosa che le
sembrava oscuro e minaccioso per il nostro futuro. Io e Lizia
attendemmo impaurite che usciste di casa per quella missione per noi
misteriosa, oltre che carica d'insidie. Ricordo che ci
stringemmo vicine vicine in attesa del vostro ritorno, aggrappandoci al
davanzale della finestra della cucina, dopo essere salite sulle sedie, per
guardare attraverso i vetri la strada e i rari frettolosi passanti.
Io e lei, pendoli silenziosi del tempo con il cuore pulsante in tutta
la casa
Spaventate
dai passi che sentivamo pesanti lungo la via e da quelli ancora più minacciosi
e vicini che ci assalivano alle spalle, ci ghermivano, c'impedivano di
respirare, di parlare, di piangere. Un secolo. Due secoli. Tutto il tempo del
silenzio, della paura e dell'angoscia. Poi tornaste e ci sembrò il miracolo
atteso per le nostre preghiere soffocate “Angelo di Dio...”. Mai avevamo
tremato tanto. Forse solo quando, stando sempre appollaiate sulle sedie, dietro
i vetri della finestra della cucina, nostro quotidiano rifugio quando volevamo
“guardare fuori”, vedemmo piovere cenere dal cielo. Tutti in casa si
spaventarono. E noi con loro per contagio. Si disse poi che era stata l’eruzione
del Vesuvio. E noi scoprimmo un nuovo fenomeno del tutto sconosciuto. Io avevo
appena due anni, ma quella cenere mi piovve tra la strada e gli occhi e si
fermò nella memoria.
La pioggia di
cenere finì. La paura rimase. (…).
Ti prendevi
cura di noi e ci amavi di quel tenerissimo amore che solo gli anziani spesso
sanno dare ai bambini, vivendo sullo stesso orizzonte di realtà e fantasia, di
giochi condivisi, di piccole complicità misteriose. In perfetta sintonia. Come
se un filo magico legasse i brevi ai lunghi anni.
Noi palloncini
colorati nell'azzurro
Tu, sapienti mani a reggerne i fili
per una libertà ancora da guidare. Tornavi dai tuoi campi al tramonto, sul
carro alto e il cavallo fulvo e i cani... e noi ti correvamo incontro rotolando
per le scale tra le tue braccia spalancate, che ci serravano al cuore. Poi, con
pazienza, quasi rito quotidiano, ti sedevi sul primo gradino della lunga scala
e ci prendevi a cavalluccio sulle spalle. Salivi “al galoppo” con me, assordato
dai miei gridolini di gioia e dai fremiti di piacevole paura, e ridiscendevi
per prendere Lizia, in spasmodica rassegnata attesa. Lei aveva un anno e due
mesi più di me e tu ti fidavi di più a lasciarla da sola, sia pure per la frazione
di qualche secondo appena (al galoppo!
dai papà dai…). Nella grande cucina ti sedevi un poco a riprendere fiato, e
avevi il volto arrossato dalla fatica e dal sole e il profumo d'erba e di terra
tra i capelli e sulle mani. Quando la corsa finiva, il gioco ricominciava. “Stringi
forte così, e indurisci le braccia”, dicevi, mentre con mani forti, puntellate
sotto i nostri pugnetti serrati, ci sollevavi in alto fino a toccare il
cielo... oppure, tenendo racchiuse le nostre manine nel cavo poderoso delle
tue, ci facevi fare capriole ad un palmo da terra… e, ancora, prendendoci per
una caviglia e una manina in corrispondenza ci facevi provare il brivido del
volo dell’aereo… aerei di giochi e di allegria contro
gli aerei di paura che in quegli anni solcavano sinistramente i nostri cieli… (…). E ridevamo con il cuore che ci
batteva all'unisono per l'audace impresa perfettamente riuscita. Tu ci
scompigliavi i capelli con una carezza lieve e sparivi nel “gabinetto” (che
solo più tardi avremmo mutato in “bagno”), per lavarti e cambiarti prima di
sederti a tavola per la frugale cena. Non amavi mangiare molto di sera (colazione
da re pranzo da principi e cena da poveri) (…) Per te era sacrosanta la preghiera
del “Pater Noster”: “dacci oggi il nostro
pane quotidiano”, intesa dapprima come esigenza del corpo e, poi, come
nutrimento dello spirito. E al nutrimento del corpo e dello spirito tu
provvedevi quotidianamente: ad ogni ritorno dai tuoi campi amavi tirare fuori
dal tascapane che portavi sempre con te le primizie di stagione: “rə amìnuə frèscəchə” (mandorle fresche,
che sgusciavi per noi), “rə cəràsə”
(le ciliegie), nespole profumate e prugne piccole e dolci, “rə chelùmmə” (fioroni) verdi e viola
(nostra delizia), grappoli d'uva bianchi, neri e dorati, gelsi bianchi (ben
custoditi nel nido di due grandi foglie di fico intrecciate). C'invogliavi a mangiarne (màngə ca pòuə
a mà jéssə mangiàtə…) (mangia che
poi saremo mangiati…) per recitare subito dopo l'avemaria di ringraziamento
alla Vergine che ci aveva concesso di gustare quei frutti, ancora, nel nuovo
anno. E ci guardavi mangiare, felice della nostra golosa felicità. I frutti più
grossi e maturi erano destinati a noi piccoline. Alla nonna. Agli occasionali o
quotidiani ospiti alla nostra mensa. Avevo forse tre o quattro anni compiuti
allora, e i ricordi di quella età mi ritornano alla mente come nitide
istantanee che hanno eternato, di volta in volta, quella bimba ribelle e
ciarliera che solo tu riuscivi a domare e a far tacere con le tue tenerezze, le
mille strategie di sopravvivenza, i prodigi che fiorivano dalle tue mani per la
tua quiete e quella delle altre donne di casa. Era tempo di molte donne e pochi
uomini nelle case. Era tempo di guerra. (…).
Io e Lizia, nate durante la guerra,
eravamo già in grado di essere tue compagne di viaggio, di fiabe e di avventure
(quando la devi smettere di parlare che mi hai fatto la testa quanto un
pallone? vieni col nonno a mangiare il pesce fritto con l'aceto e il sarago
affumicato così non parli più e stai zitta zitta… zitta senza dire niente a
puzzo puzzo… qui c'è un puzzo di pesce cosa avete mangiato? noi? niente...)
Io sempre pronta ad essere tua complice di “misfatti” culinari perché amavamo
gli stessi cibi piccanti o in salamoia. Lizia era per te “puzzo puzzo”, restia
com'era a mangiare e pronta a scappare di fronte agli odori forti della cucina.
Per lei, però, compravi quotidianamente “u
fəléttə” (la fettina di vitellino) perché non c’erano frigoriferi per
conservare i cibi allora, e la nonna gliela preparava ai ferri o in padella
perché s’irrobustisse, essendo più gracile di me di costituzione. E compravi “rə panàns” (le banane), che non
potevi coltivare nella tua “chəcələvénə” (la cocevola), cioè nell’orto oppure
nei tuoi campi. Ma anche la
nonna ti affiancava, sempre attenta e premurosa, nella cura di noi due. Ogni
mattina, dopo la messa delle sette e prima dell’orario scolastico, si affrettava
a portare Lizia dal nostro medico di famiglia, ed era un lungo percorso per
raggiungere il suo studio da via Montemar alla piazza “du Canónəchə Də
la Nòcə” (del
Canonico Della Noce), per delle iniezioni ricostituenti che avrebbero
dovuto “aprirle lo stomaco”, visto che era perlopiù inappetente. Tutti e due dosavate cure e premure in base alle
esigenze di ciascuno di noi in famiglia. Gli altri tuoi quattro nipoti nacquero
dopo il ritorno di babbo dalla prigionia (Anna Maria Giovanna Giuseppa
Francesca Caterina dove tiene gli occhi tiene le mani Peppino è l'amico del
nonno e viene con me in campagna Mincuccio è piccolo e fa solo danni e la più
piccola di tutti deve starsene buona buona sul cuore della mamma sua...). Noi eravamo il tuo orgoglio, il tuo futuro.
Ma anche la tua costante preoccupazione. Ti sforzasti sempre di costruire un
solido ed equilibrato rapporto tra di noi perché fosse l'esempio, più che i
dinieghi e le proibizioni, fossero i consigli e i suggerimenti, a renderci
piano piano più consapevoli e responsabili delle nostre azioni in libertà
controllata, con maglie via via sempre più larghe. Sì, eravamo i tuoi aquiloni,
liberi di toccare il cielo sospesi al filo delle tue mani sicure, e generose di
spazi e tempi di gioco. (…). (E il giornale radio ad interrompere l’incanto e
la fantasia per darci scampoli di realtà). (…).
In primavera, poi, con lo splendore della natura
che esplodeva d'erba, di pratoline e di fiori di campo, tu andavi a casa dei
nostri tanti amici e li invitavi a venire con noi in campagna all'alba del
giorno dopo. Molti venivano in bicicletta, altri salivano sul traino con noi. E
il cielo era un ricamo d'alberi. L’alba spegneva le stelle e vinceva lentamente il buio, rischiarando i nostri occhi spalancati di stupore su quella natura
rigogliosa e ricca di frutti. Le nostre labbra chiacchierine si confidavano, in
bisbigli d'intesa, confidenze di amori appena nati. Nel campo dei ciliegi
sciamavamo tra i rami e tu, appena di ritorno, vestivi a festa il nostro quartiere
con ceste di rossi frutti che distribuivi in tutte le case. E le case si
accendevano di colore e di allegria: adulti e bambini si riempivano le mani
delle accese ciliege, raggruppate dai lunghi gambi e ricoperte dalle verdi
foglie…>.
Insieme, dunque, io e Lizia siamo cresciute a
lungo con i nonni: la nostra prima Comunione (e lei ad aiutarmi a imparare l’atto
di dolore!); insieme abbiamo imparato a vivere con gli anziani (zii e prozii e
i loro figli), e con i giovani (amici e figli di amici, vicini di casa della
nostra età); insieme, con alcune divergenze ma sempre unite nelle cose
importanti come i libri da leggere, i film da vedere, le prime scelte
scolastiche, sociali, amorose: io con Primo, lei con Pinuccio. Le mie
esternazioni-fiume, i suoi consigli anche decisi, severi, concreti. Io con la
mia eterna visionarietà. Lei con il suo senso critico della realtà. Andammo persino
a vivere, durante i primi anni di matrimonio nello stesso stabile in affitto,
per darci una mano e una voce. E ancora insieme nelle nostre case comprate con
modi e soluzioni diverse anche con Anna Maria. Insieme a veder crescere i
nostri figli e, via via, a coltivare interessi e passioni simili su percorsi
sempre più diversificati per le alterne vicende della vita di ciascuna di noi. E
siamo invecchiate. Abbiamo superato gli anni di nostra madre, delle nonne, di
nostro padre e dei nostri compagni di vita. Ci vediamo sempre meno e sempre più
a fatica ci raccontiamo. Ma siamo ancora legate da tanti punti di luci ed ombre
che ancora fioriscono sul nostro cammino. Io sorrido più alla luce per farmi
coraggio. Lei si rifugia di più nell’ombra per affrontare il nuovo giorno. Ma,
acciaccati e stanchi, ci siamo ancora tutti e sei, fratelli e sorelle e ancora,
appena possibile, ci diamo una voce. Con immutato affetto. Trepidando in
silenzio da lontano gli uni per le altre e viceversa. Conservando passioni e
sogni, come tutte le persone anziane che non si arrendono all’“ingiuria degli
anni”. E, come tutti ormai, ci seguiamo sui social, più per necessità di rapido
contatto che per sostanziale convinzione.
Auguri di sereno compleanno, mia carissima
sorella. Spero di sentirti prima che finisca il giorno! Angela
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