Oggi si festeggia l’Epifania, che per noi adulti è l’arrivo dei Re Magi alla grotta di Betlemme per portare i loro DONI e inginocchiarsi umilmente di fronte al Re dei re. Per i bambini, invece, questa notte si è ammantata di mistero per l’attesa, al buio, dell’arrivo della Befana e della calza ricca di cioccolatini, caramelle e qualche pezzetto di carbone, compensato dai ricchi doni scartati sul tavolo delle meraviglie. Io sono alle prese con un altro grande mistero, scoperto nel libro che ho appena finito di leggere Vieni a Giocare con Me di Fabio Angelo Capolupo, pubblicato ultimamente dalla FOS EDIZIONI. Guardo la copertina che mi ha chiamato da subito ad aprire il volumetto per scoprire cosa possa celarsi dietro un invito così strano per un libro per adulti e non per bambini, nonostante la suggestiva immagine di copertina evidenzi una bimba che s’affaccia da una porta ad arco per posare lo sguardo su un azzurro cielo-mare sfumato di gradazioni diverse tra sabbia dorata e onde alte a sfidare tempeste di argentato stupore. Un cielo-mare non estivo, non invernale. E una sagoma scura di bimba in controluce che non ha un volto, una identità. È anch’essa avvolta da un’atmosfera misteriosa. Ed è essa stessa mistero.
Questo libro, infatti, contiene un
intreccio di esperienze esistenziali misteriose vissute dall’autore. Esperienze,
che si sono trasformate in racconti ammantati di fenomeni strani che potremmo
definire “paranormali” se non ci vincesse il pudore di rischiare il ridicolo in
una società, quella del Terzo Millennio, altamente tecnologizzata, laica,
agnostica, materialista. Ma mi vengono subito in mente le parole di Albert
Einstein: Ci sono due modi di vivere la
vita. Uno è pensare che niente sia miracolo. L’altro è pensare che ogni
cosa è miracolo.
Ebbene sì. per me ogni cosa è “miracolo”. Chi da
parecchio mi segue su questo blog sa che ho parlato ampiamente delle mie
esperienze in tal senso, rischiando appunto il ridicolo e l’incredulità. Ma io
le ho vissute sulla mia pelle e non posso fare a meno di aderire alla richiesta
che Fabio Angelo Capolupo fa ai suoi lettori di inviargli testimonianze di
accadimenti simili ai suoi.
E dalla lucida, attenta,
scientificamente dettagliata Prefazione di Mariella Medea Sivo, che fa della
onestà intellettuale un suo punto di orgoglio e di forza trainante, viene fuori
la figura di un autore semplice, onesto, coraggioso. Egli stesso ammette con
estrema umiltà di non essere uno scrittore e di non avere i “ferri del
mestiere” per sentirsi tale. Definisce, pertanto, a torto, il suo libro un
“elaborato”, dicendo: Scriverò di alcuni
episodi che non hanno condizionato la mia vita, ma che l’hanno certamente
caratterizzata, episodi legati tra loro da un comune denominatore: il velato
mistero.
TALVOLTA ACCADE!
Certo, ad alcuni o a tanti di noi è
accaduto e accade, anche se NON è facile parlare di certe esperienze, vissute
nella non piena consapevolezza di sé e, nello stesso tempo, con la certezza di
essere pienamente in sé, con una lucidità mai provata prima, nei pensieri
all’unisono con il proprio cuore e la propria anima in volo. Calata nel più
fitto mistero della vita o della morte.
Non è facile perché queste frasi (o
confessioni o esternazioni), dette così, sollecitano quantomeno un sorriso di
divertito scetticismo; un “assecondare” con la mimica facciale contrita e
compunta, o perlopiù sfuggevole per evitare di manifestare il proprio pensiero:
“poverina, non ci sta più con la testa!”. Magari, un mettere le distanze per
non pronunciarsi negativamente e non dare un dispiacere alla “poverina che…”. Per
avere allora un minimo di credibilità, occorre andare indietro nel tempo e
ricominciare dal “focus” spartiacque del “prima” e del “dopo”, come ha fatto
Capolupo. Lui torna ai suoi dieci anni. Io ad appena un anno (prendendo per
buono il racconto dei miei). Ma, per non andare troppo indietro nel tempo, mi
riferisco a soli pochi anni fa. Al 19 ottobre 2019. Qualche mese prima che si
avesse contezza in tutto il mondo della deflagrazione della pandemia da
Coronavirus.
In pratica, scrivendo e pubblicando da
una vita romanzi, saggi, poesie, ero in Serbia per la grande Festa d’Autunno a
Smederevo, dove due giorni prima ero stata gratificata con un Premio, tra i più
prestigiosi in tutti i Paesi balcanici, che coinvolge tanti autori a livello
mondiale. Due giorni dopo ero a Belgrado, dove i miei più cari amici serbi, che
mi conoscono da oltre quarant’anni ormai, mi aspettavano per festeggiarmi nel
famoso Salone del Libro.
Questo preambolo è importante perché,
nell’arco di pochissimi giorni, passai dalla gioia totale alla perdita totale
di me. La festa con gli amici fu semplice ma bella e profondamente sentita.
Pasticcini e bevute al mio successo e alla mia salute (ironia della sorte!).
Verso mezzanotte, io e mio genero (che è anche mio editore e mio accompagnatore
ufficiale in quasi tutti i miei viaggi culturali in Italia e all’estero) ci
avviammo per fare ritorno in albergo. Ci seguivano i nostri amici tutti festosi
e un po’ brilli. Dietro di noi il più caro (la nostra assoluta amicizia è
durata, inossidabile, dalla giovinezza alla vecchiaia). Sulla lunga scalinata
che dal Salone portava giù al parcheggio-auto e ai taxi in paziente attesa - io già al penultimo gradino al braccio di mio
genero - lui inciampò, perse l’equilibrio e mi piombò addosso con il suo
metroenovanta di altezza e qualche chilo di troppo, frantumandomi in un mare di
sangue. Mio genero, per mia fortuna, non mi piovve addosso pure lui, come era
da prevedersi data la posizione in cui eravamo, ma si ritrovò scaraventato per
terra dalla parte opposta, in lacrime, mentre altri amici accorrevano per
aiutarmi, chiamare l’ambulanza, col medico che mi suturò lì, seduta stante,
alla bell’e meglio gli squarci delle ferite da cui fuoriuscivano le ossa e
zampillava a fiotti il sangue. Poi, il ricovero in ospedale, dove fu subito
chiara la mia condizione disperata tanto da sollecitare un rientro in Italia,
via terra, per un possibile ricovero in un ospedale italiano appena giunti a
Trieste. Dopo che mio genero e un nostro generoso amico serbo/italiano ebbero
risolto parecchie incombenze burocratiche, partimmo, all’alba del giorno dopo,
in ambulanza, accompagnati da un medico e una équipe sanitaria per praticarmi
le cure necessarie nel disperato tentativo di mantenermi in vita. Dopo 24 ore
di viaggio su vie impervie e continui sobbalzi, approdammo, come Dio volle, in
Puglia e anche qui incontrammo varie resistenze, che ho omesso, fino a che non
fummo accolti, grazie alla presenza di un caro parente cardiologo, alla Mater
Dei, ottimo ospedale al centro di Bari. La Madre del Signore, dunque! E qui,
dopo aver constatato le mie condizioni disastrate e, con la assoluta meraviglia
che fossi arrivata ancora viva, l’équipe dei chirurghi ortopedici, capitanati
dal Primario uscente e da quello subentrante, programmarono, immediatamente, i
due interventi urgenti per “sistemarmi le ossa” nell’arco delle successive 36
ore. Ma occorrevano almeno sei sacche di sangue che non c’erano, altrimenti non
avrebbero potuto operarmi. Poi, non appena il problema “provvidenzialmente” si risolse,
immediatamente decisero per il primo intervento. Quando mi portarono in sala
operatoria: ben tre chirurghi, compresi i due primari, erano in attesa di
operarmi. Ma io ero stranamente semicosciente e serena: nella saletta d’attesa,
dove praticano la prima parziale anestesia per addormentare piano piano il
paziente, “vidi” intorno alla mia barella i miei cari defunti in preghiera: mia
madre, mio nonno (presenza costante e salvifica in tutta la mia vita) mio
marito, mia nonna. Poi, in sala operatoria, mi misero dapprima con le braccia
spalancate a mo’ di croce e, prima che mi praticassero una seconda anestesia
con una specie di pistola solo per la prima gamba da operare, la più
“sventrata” dall’acetabolo fino alla caviglia, mentre mi piegavano su un lato
con le braccia e mani quasi fossi in preghiera, ebbi il tempo di sussurrare
“come Gesù Cristo” e cominciai a sentire i colpi dei martelli, della sega fino
ai punti di sutura lungo tutta la gamba. Persi il conto più e più volte degli
infiniti punti praticati sull’arto ingabbiato in una impressionante rete di
sostegno, mentre mi riportavano nella sala del “risveglio” prima di condurmi
nella mia stanza. Fuori dalla porta c’erano i miei figli in spasmodica attesa,
ma rimasero meravigliati nel vedermi, dopo un intervento così difficile e
complesso, tutta sorridente e felice quasi stessi tornando da una gita in
campagna che aveva dato anche un tocco di rosa alle mie guance. Ma il prodigio
più grande e misterioso avvenne due giorni dopo, mentre mi preparavo ad
affrontare il secondo intervento all’altra gamba con il ginocchio pieno di
frammenti di ossa da recuperare e sistemare Dio sa come. Altri chirurghi
ortopedici, altra metodica di intervento. Questa volta con epidurale prima di
entrare nella sala operatoria. Nella saletta antistante, appena sistemata nel
mio angolo d’attesa, mi sentii salutare con una voce dolcissima e tenerissima
“ciao”, mi girai per salutare anch’io ma non c’era nessuno. Chissà perché,
però, già sentivo nostalgia di quel sussurro, quasi una urgenza di sentirlo
ancora. Mi girai, niente. Possibile che avessi sognato ad occhi aperti? Mi
girai ancora e finalmente vidi una infermiera che si era avvicinata alla mia
barella per praticarmi una flebo. Le chiesi se c’era già da prima e non l’avevo
vista per rispondere al suo saluto. Mi disse di no. Che prima non c’era
nessuno. Mi dissi che l’ansia dell’imminente intervento mi aveva giocato brutti
scherzi, ma intanto avevo bisogno di quel “ciao”, di quella voce, in cui mi
sembrò di sprofondare non appena mi sistemarono nuovamente sul tavolo
operatorio. Sentii di essere accolta in braccia materne che non erano quelle di
mia madre, erano lievi come piuma e mi trasportavano tra terra e cielo.
Avvertii un conforto senza aggettivi e una pace infinita, mentre “sentivo” e
“vedevo” tutto l’intervento alla moviola. E stavo in paradiso. E avevo voglia
di pregare, ma non sapevo più pregare. Da tempo immemorabile non pregavo.
Neppure durante il lungo viaggio per giungere fino lì, nei rari momenti di
lucidità mi riusciva di pregare. Avevo perso l’abitudine. In quei rari momenti
avevo persino firmato gli autografi sul mio libro alle infermiere che mi
circondavano, ma non una preghiera. Sentivo solo che stavo per morire ma che
non sarei morta. Non “dovevo” morire. Anche questa volta, all’uscita dalla
porta, incontrai lo stupore dei miei figli ad accogliermi nel corridoio tanto
il mio aspetto era confortante, e il mio stupore nel vederli dall’alto come se
vedessi il mondo capovolto. Ricordo indelebile che ancora oggi mi turba molto.
E, nello stesso tempo, avvertivo il desiderio struggente di quella voce, che
sentivo dentro e che mi sfuggiva, eterea e lontana.
I medici parlarono subito di miracolo
e si meravigliavano essi stessi di parlare in quei termini e non da scienziati.
Sì, furono i primi a parlare di miracolo! Assurdo, ma vero. E non stavo
sognando. E neppure i miei, che annuivano con le lacrime agli occhi. “Ma la
degenza”, dissero, “sarà molto lunga. Anche se, miracolosamente, pure le sei
sacche di sangue preventivate non sono servite. Ne sono bastate solo due”.
Strano ma vero e dire che tutto
sembrava remarmi contro: le mie gambe completamente frantumate, la
irreperibilità in tutta la Puglia, fino all’ultimo minuto, delle sacche di
sangue occorrenti per via del gruppo sanguigno 0 rh negativo, che può riceverlo
solo dallo stesso 0 rh negativo, allergia agli antibiotici e agli
antidolorifici, persino ai cerottini anallergici, ecc ecc. Poi, improvvisamente
e provvidamente tutto si era risolto e avevano potuto operarmi senza
difficolta. Il giorno dopo, uno dei due primari, quello uscente, venne a
trovarmi in camera ancora sconvolto e incredulo. “Lei è un miracolo vivente”,
mi disse, “e sono qui, mio malgrado, a testimoniarlo. Improvvisamente ho
sentito dentro di me che Qualcuno stava guidando le mie mani durante
l’intervento”. Cominciarono così le sue visite quotidiane e le nostre lunghe o
brevi “chiacchierate” sul mio caso straordinario che lo aveva portato a
recuperare la fede, perduta da tempo, nella presenza di Dio nelle vicende
umane. E spesso, mentre mi parlava, vedevo i suoi occhi riempirsi di lacrime. E
potrei continuare, ma mi fermo qui. alla prossima. Buona Epifania! Angela
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