E oggi vi voglio raccontare una bellissima e vivificante/edificante storia, che vede protagonisti due miei preziosissimi amici, lontani dalla mia terra ma sempre presenti nel mio cuore: Gjeke Marinaj di cui ho già tanto parlato qualche mese fa e Germàn Rojas, che insieme al nostro comune amico del cuore Nico Mori, ha avuto spazio nel nostro blog ma non quanto merita.
Oggi provvedo a ristabilire gli
equilibri. Entrambi, Gjeke e Germàn sono poeti, scrittori, saggisti,
giornalisti. Figure molto importanti nel loro Paese d’origine: Albania per
Gieke Marinaj, Cile per Germàn Rojas.
Entrambi sono oggi conosciuti e apprezzati in tutto il mondo per i loro
meriti poetici, socio-politico-culturali, per i loro interventi umanitari in
favore della giustizia, dell’uguaglianza, della solidarietà tra gli uomini di
tutte le nazioni e di tutti i credi, della Pace. Ma le loro storie personali
sono molto più complesse e degne di essere raccontate nel loro intreccio a
distanza.
Sintetizzo la storia dell’uno e
dell’altro per una comprensione più ampia dei nostri due “EROI”.
Gjeke
Marinaj, albanese di nascita (26 maggio 1965),
giovanissimo dovette abbandonare la sua patria perché il 19 agosto di più di
trent’anni fa aveva avuto il coraggio e l’ardire di pubblicare su un giornale
locale una poesia “CAVALLI”, che immediatamente rimbalzò, con una eco senza
fine, su <Drita>, il Quotidiano albanese di cronaca a carattere
nazionale.
A una prima lettura, ai più sembrò una
semplice poesia in difesa degli animali e, in particolare, degli stupendi
cavalli dallo sguardo fiero e dalla cavalcata elegante e maestosa, purtroppo in
cattività. In realtà, si trattò di una feroce satira politico-socio-culturale
da parte di quel ragazzo ribelle in difesa del suo popolo. Fu, dunque, un
coraggioso atto di audace (e forse un tantino incosciente) ribellione contro il
regime comunista da parte di un venticinquenne poeta e giornalista non ancora
famoso. Gli Albanesi, infatti, allora rimasero increduli, ma in poche ore
comprarono tutte le copie del giornale. Molti si affrettarono a scrivere quei
versi su pezzettini di carta per diffonderli dappertutto, fino a farne un inno
di protesta durante le numerose manifestazioni antigovernative, che di lì a
poco si accesero come fuoco controvento per incendiare cuori e volontà. In
breve Gjeke Marinaj divenne l’eroe dell’Autonomia e della Libertà Albanese. Ma,
fu costretto (e personalmente determinato) a fuggire di notte per evitare il
rischio tangibile di essere impiccato come altri poeti dissenzienti prima di
lui. Non più l’eroe di una fiaba a lieto fine, ma l’esule di una storia vera in
un nuovo percorso difficile e tortuoso quanto solitario e disperato, tra genti
straniere. Nella ex Jugoslavia prima e negli USA più tardi, non appena si presentò
l’occasione di mettere una notevole distanza tra il suo vecchio mondo e il
nuovo. Qualche volta, però, anche la storia offre ai suoi ardimentosi
protagonisti un lieto fine. Gjeke incontrò Dusita, una bellissima fanciulla, e
con problemi di espatrio più o meno identici ai suoi. Ben presto,
innamoratissimi l’uno dell’altra, si sposarono e andarono insieme lontano, dove
vissero notevoli difficoltà di adattamento, di apprendimento della nuova
lingua, l’inglese, di comportamenti legati ad una diversa cultura. Ma l’amore
compie miracoli.
E Gjeke Marinaj è oggi docente di
Inglese e Comunicazioni all’Università di Dallas nel Texas, poeta raffinato e
conosciuto in tutto il mondo, Ideatore e Fondatore della Teoria filosofica e
filantropica del Protonismo in Letteratura e non solo, divenendo meritatamente
l’Ambasciatore di Pace tra tutti i Popoli del nostro Pianeta.
Ed ecco la poesia “CAVALLI”, che ci
permette di comprendere appieno il messaggio di Gjeke e il suo ardimento.
Per
tutta la nostra vita siamo in viaggio,/ Guardando sempre avanti,/ Quel che c’è
dietro di noi Abbiamo paura di saperlo./ Tutti noi non abbiamo che un nome,/
Cavalli, ecco come ci/ Chiamano./ Senza piangere,/ Senza ridere,/ In silenzio,/
Ascoltiamo,/ Mangiamo quel che ci danno,/ Andiamo dove ci dicono,/ E nessuno di
noi è una gran testa./ Chi era il cavallo di un re/ Aveva il grado più alto;/
Chi era il cavallo di una principessa/ era sellato d’oro;/ Chi era il cavallo
di un contadino/ Era sellato di paglia;/
Chi gli disubbidiva/ Dormiva sempre all’addiaccio:/ Ma con gli umani,
sempre/cavalli restiamo!
Stupendo inizio con un “Per” che
indica già di per sé un avvio in movimento, riguardante il “viaggio” di tutta “la
nostra vita” con la determinazione a raggiungere la propria meta. Ognuno dovrebbe
prefiggersi
uno scopo, una missione che dia senso a tutto il viaggio. Ma la realtà è
diversa. È possibile stabilire la meta se non si ha paura del passato, che è un
possibile futuro capovolto: è dalla esperienza vissuta da noi e dai nostri
antenati che occorre ripartire per continuare sul loro esempio oppure
ribellarsi alla tradizione e al silenzio e rinascere e realizzare un futuro
migliore. Il timore di ricordare un passato difficile diventa ostacolo alla
costruzione di un futuro diverso. Ed ecco il disvelamento: i protagonisti di
questi versi, che urlano al cielo una storia amara di soprusi, non hanno un
nome: sono semplicemente cavalli. Animali eleganti, nobili e fieri nel loro
andare, ma non in questo caso. I due anaforici quanto suggestivi versi che
seguono, brevi come uno sperdimento, definiscono un vuoto, una deprivazione: “Senza”.
Senza piangere/ Senza ridere. A
questi cavalli non è concesso avere lacrime o risate. Ossimoro meraviglioso ad
indicare la gioia e il dolore: i punti estremi di ogni sentimento, in cui si
snoda la vita della mente e del cuore di ciascun essere umano. Al nulla che il “Senza”
definisce segue l’inevitabile silenzio dell’asservimento. Piegata/piagata è la
volontà di reagire. Il silenzio, in questo caso, non prelude al rumore del
mondo o alla parola di ribellione o al canto della sfida e della vittoria. E neppure
alla preghiera di gratitudine e di ringraziamento. Qui anche il silenzio è
assenza di qualcosa di vitale che indica movimento e pensiero, libertà di
essere e di andare lontano per perseguire la meta e realizzarsi. Qui c’è solo
un chinare la testa al volere altrui, del più forte, di chi esercita il Potere
con coercizione e violenza. E impedisce di pensare. È concesso solo di eseguire
compiti con mezzi e ruoli diversi, ma estraniandosi da sé per assecondare il
potente di turno, fosse un re o una principessa. Ed ecco che improvvisamente i
versi scoprono i verbi all’imperfetto. Il presente cede l’azione a un passato senza
tempo, al “c’era” delle fiabe, che a volte sanno essere crudeli e non
assicurano il lieto fine, se non dopo la fuga e l’allontanamento del
protagonista con relativa sfida e combattimento contro l’antagonista, fino alla
sua morte. Il primo (il re) consentiva al cavallo di avere un “grado più alto”
nella sua schiavitù, e la seconda (la principessa) di mostrare “una sella d’oro”
e fingere una ricchezza mai posseduta. Ma c’era anche il cavallo del contadino
che era “sellato di paglia” e, se disubbidiva, veniva mandato fuori a morire al
freddo e al gelo. E qui d’improvviso il tempo del verbo cambia nuovamente: il “c’era”
diventa presente e attualizza la condizione di schiavitù dei cavalli. Questa
poesia, dunque, non è una fiaba e non può avere un lieto fine se l’ultimo verso
si copre di amara verità, di spietata rassegnazione: “ma con gli umani sempre
cavalli restiamo!”. E il punto esclamativo sancisce il “grido di dolore” del
poeta di fronte ad una realtà che urla la disumana condizione di “asservimento
dei “cavalli”, suoi compatrioti, al potere del Regime comunista nella sua
amatissima patria, l’Albania.
A lui va ancora oggi il mio grazie per
il suo esempio di coraggio, determinazione, amore: Inno anche alla bellezza e alla
efficacia della Parola.
Germàn
Rojas è nato in Cile nel 1950. Ha un po’ di anni in
più di Gjeke, ma una storia identica di sopraffazioni e ribellioni alla
Dittatura dopo la caduta di Salvador Allende. L’11 settembre del 1973 (Germàn,
dunque, aveva 23 anni) le forze armate cilene fecero un colpo di Stato contro
Allende, che morì suicida per non arrendersi ad Augusto Pinochet che prese il Potere.
Germàn fu, come oppositore alla
dittatura di Pinochet, rinchiuso nel carcere cileno di Antofagasta il 13
gennaio del 1974; poi, espulso dal Cile, fu esule in molte nazioni, tra cui la
Norvegia, dove fece l’operaio, la Francia e, infine, approdò in Italia, a Roma
in qualità di Funzionario della FAO. Venne, in quello stesso anno per alcuni
mesi a Bari, dove l’ho conosciuto in seguito al Concorso di Poesia “Vittorio
Bodini” (1987), nella cui giuria ero presente anch’io. La sua silloge di poesie
Maria - Maria meritò il Primo Premio,
perché incantò tutti i giurati per la musicalità della parola e per il contenuto
d’amore (profondamente fluviale come in Neruda) per la sua donna, sintesi di
tante donne e di una sola, che incarnava anche la terra lontana, ricordata con
nostalgia, canto e rimpianto.
Ecco della silloge alcuni versi: … Non è né dio greco né asteroide magico,/ è
semplicemente un nome di donna,/
Maria,/ nome di donna due volte,/ Maria-Maria./ Chi è la mia due
volte Maria?/ Credo che non sia importante saperlo/ perché nemmeno io lo so con
certezza./ Maria-Maria è una,/ è
varie,/ è tutte,/ tutte, quelle che
lasciarono la loro impronta nella mia anima,/ varie, quelle che ho conosciuto
qui e là/ in lunatici incontri della mia vita di luna,/ una, quella che mi ha
accompagnato sempre,/ quella che mi
sfugge tra le dita,/ quella che mai ho
posseduto,/ e quella che cerco
disperatamente e mi si nega./ Maria-Maria è lei…
Questa poesia, una emozione. Maria-Maria,
due volte Maria, come si usa in Cile per indicare un amore a doppia mandata. La
persona più cara. La più importante. Quella annidata nel cuore. La donna-presente-passato-futuro,
madre-figlia-amante-tutto. Esplosione d’amore e fede certa in lei. La donna di sempre e di mai. Di tutte le
attese e di tutti i dolori. Volo di lacrime e tenerezza. Donna due volte. Una-tante-tutte.
Compagna della vita, nella vita, per la vita. Donna stellare. Di terra. Di mare.
Guscio immenso a contenere la forza fragile di un uomo, il suo coraggio di
poeta che canta il nero del carcere e dell’esilio e il verde della giada
profonda e chiara degli occhi di Maria. La vera. La sola. Orizzonte di terra
promessa. Sogno dimenticato e ritrovato. Realtà attesa. Maria, fonte e riva di
poesie. Canto. Volo di quel gabbiano che Rojas si porta nel cuore. E altro,
altro ancora… Emozione. Naturalmente ho sintetizzato non solo questi pochi
versi ma tutto il poema in cui Germàn unisce il suo canto al canto del suo
popolo, la sua donna alla sua terra, la libertà del suo amore alla libertà
agognata della sua patria in catene. Splendido canto dell’anima.
Ma alle mie parole desidero aggiungere
quelle di Nico Mori, nostro indimenticato amico, nella carezza della sua
sensibilità altissima di uomo, poeta, scrittore: C’è una musica nei versi di Germàn intensa e incalzante, tumultuosa e
languida, che ha sapore di sangue e profumo di fiori e trascina, indietro e
avanti nel tempo, per labirinti di antichi misteri e insolute magie. C’è un
suono nero di campane che piangono solitudine e ingiustizia ma lanciano fin
sulla luna voli di variopinte farfalle. E l’ombra aspra di radici strappate
direttamente alla carne che segnano solchi di planetarie ferite. E il canto
puro e allegro di bambino che innalza alle stelle azzurri castelli di sassi. E Maria-Maria
che, con occhi di mare e capelli di fiume, traccia nell’anima iridati sentieri.
C’è, come è facile notare, una
possibile giustapposizione tra Maria-Maria di Germàn e Dusita di Gjeke. Entrambe
sono il cuore del canto dei due poeti, l’intreccio nostalgico alla propria
terra d’origine.
Ma oggi, mentre Gjeke Marinaj vive,
con la sua donna nel Texas e fa rari ritorni in Albania per riabbracciare la
sua vecchia madre e tutti i suoi cari, Germàn Rojas, è tornato in Cile, dove
vive circondato dall’affetto, l’ammirazione, l’amore dei suoi cari e dei tanti
amici e gente comune che vive nel ricordo dei bui giorni lontani in cui Germàn
fu fiaccola di salvezza. Oggi ricopre nella sua Patria un ruolo di primo piano
che lo porta a viaggiare molto in tutto il mondo e soprattutto nel Nord-Europa
per incarichi di grande prestigio all’insegna della solidarietà e della Pace per
l’umanità intera. Ha vinto numerosi e prestigiosi premi come poeta e come
artista. È rimasto fraterno amico di Nico Mori, e della sua famiglia, Tea,
Manuela, Alberto, ora che Nico non c’è più fisicamente tra noi. Con lui ha
condiviso una fede politica ormai in disuso, ma tenuta viva nel proprio cuore
per sentire ancora il palpito di un credo. L’amico giusto, con cui parlare di
sogni e di illusioni, di ideali di libertà e clamorose sconfitte del pensiero
libero in un mondo di “pensiero unico”. L’amico, segnato come lui nel corpo e
nell’anima, sia pure per motivi e tempi diversi. L’amico più volte perduto e
ritrovato sotto altri cieli, altre identità, e un solo progetto identitario per
entrambi, nonostante gli anni e le distanze geografiche: diventare “pescatori
di meraviglie”.
Nell’ultima opera in prosa I PESCATORI DI MERAVIGLIE di Nico,
pubblicata con la SECOP nel 2019, alcuni anni dopo il libro Al confine di me, che Peppino Piacente,
mio genero e editore della Secop, volle pubblicare per sollecitare Nico alla
scrittura dopo oltre un decennio di silenzio, Germàn scrive: Caro Nico (…) Non lasciarci senza la tua parola, senza i tuoi sogni, senza la tua
folle geografia italica, senza il tuo mare, senza la tua tenerezza. Vai oltre i
“confini di te”, con tutta la forza che hai, non fermarti, non spegnerti. (…)
Tu in quanto navigatore esperto (proprio
come io sono un marinaio di terra), sai molto bene che i nostri confini sono
come l’orizzonte, che, non importa quanto e come possiamo provarci, non
riusciremo mai a raggiungere. I nostri confini sono come l’utopia alla quale
non rinunceremo mai. Perché tu ed io siamo l’orizzonte e, insieme, noi siamo l’utopia.
Pescatori di meraviglie, ricordi? A costo di annegare nei mari della luna. Ti
abbraccio con l’immenso affetto di un fratello. Germàn
E non ci sono più parole. Germàn Rojas
è tornato in Italia, con una nuova compagna, prima di Natale per un avvenimento
lieto riguardante una sua figliola che vive e lavora a Roma, e ha voluto
incontrare a Bari tutti noi, gli amici più cari lasciati in Italia, in primis
Manuela Mori, l’amatissima figlia di Nico, me, mia sorella Anna Maria,
indimenticata e graffiante voce con “chitarra incorporata” del gruppo di poeti
di allora, Gianni, suo attuale marito e bravo scrittore anche lui, mia figlia
Raffaella con Peppino… Ci ha lasciato con una promessa: che tornerà in Europa e
in Italia più o meno in primavera. E io
nutro il sogno che ci si incontri ancora tutti quanti. Abbiamo ancora tante “meraviglie”
da condividere per poter continuare a sognare e a progettare insieme. Nico con
noi sempre.
Ma
il sogno ancora più grande è sperare che anche Gjeke Marinaj, torni in Europa
per andare a riabbracciare i suoi cari in Albania e faccia una deviazione in
Italia giusto in tempo per abbracciare Germàn Rojas, perché due “EROI” si
riconoscono nello sguardo a specchio della loro anima e sono tali per sempre
anche per tutti noi. Angela
Angela, che dire? Tu ci erudisci e stupisci con i tuoi bei "racconti" di vita e poesia, e con questo ci apri i confini di molti luoghi del cuore e del Mondo.
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