Anche a casa ero costretta da mamma e babbo ad usare la destra, soprattutto a tavola, quando vedevo i loro occhi severi seguire i miei movimenti impacciati nell’usare le posate, il bicchiere e persino il pane da portare alla bocca. Li guardavo in silenzio e sempre in silenzio sentivo il solito polso che mi faceva lo stesso discorso, invogliandomi ad usare le posate con la mano giusta anche se per gli altri era quella sbagliata. Io mi attardavo ad ascoltare quella vocina e, con le labbra semiaperte e gli occhi persi nei pensieri e aria niente affatto intelligente (come oggi ricostruisco nella mente), perdevo tempo e voglia di mangiare. E leggevo (oh, come mi riusciva facile leggere!) negli occhi grandi e severi di babbo il pensiero ricorrente ‘ho una figlia che non è tanto normale’. E non aveva tutti i torti. E io sentivo la mia testa imbrogliata di nuvole mosche letterine cicale buchi. Sì, la sentivo. Quando vivevo con te, era la nonna a rimproverarmi perché non dovevo usare la “mano del demonio” ma quella di Gesù, ed io mi chiedevo come mai la mano destra apparteneva a Gesù mentre quella sinistra al diavolo, visto che era stato Dio a crearci dalla testa ai piedi. E anche con voi perdevo tempo a pensare e non riuscivo a farmene una ragione. Come non mi facevo una ragione che fosse capitato proprio a me di usare meglio la mano del diavolo. ‘Perché?’, mi chiedevo. Ma non c’era verso che imparassi a fare le cose con la mano giusta. Facevo tutto con maggiore rapidità ed efficienza con quella sbagliata. ‘Sono io tutta sbagliata?’, mi tormentavo ad ogni rimprovero. Sta di fatto che quel dubbio non mi aiutò molto, soprattutto a scuola. Imparare a scrivere, e imparare in genere, per me divenne un incubo. (Oggi scrivo e mangio con la destra, ma lascio il monopolio alla sinistra per tutto il resto. Sono in pratica una mancina contrastata, come era normale ai tempi della mia infanzia. Oggi per fortuna le cose sono cambiate!).
A scuola, perciò, non mi sentivo a mio agio.
Mi astenevo dal fare domande alla maestra per evitare che concentrasse la sua
attenzione su di me e anche perché temevo che non volesse o non sapesse
rispondermi. Quando mi azzardavo a chiederle di ripetere perché non tutto mi
era chiaro, lei mi guardava inebetita, quasi parlassi un’altra lingua, quasi le
chiedessi qualcosa che non stava né in cielo né in terra e io mi vergognavo per
non essere riuscita a spiegarmi bene, a farmi capire. Eppure, dentro di me, ero
certa di avere parole bellissime e luminose. Collane di parole colorate e
leggere che mi sembravano di cristallo, d’argento e di oro; azzurre come
l’acquamarina degli orecchini e dell’anello di mamma, dono di nozze della sua
nonna. Le mie parole erano per me verdi smeraldi e rossi rubini, tutte le
pietre preziose che avevo visto brillare sui gioielli antichi di nonna
Angelina, che li conservava in un enorme fazzoletto color ocra, chiuso nel comò
(non esistevano allora le casseforti nelle banche) (…) perdevo tutte le mie
preziose e luminose parole! Pomodororossofuoco non le capiva. Ed io, in quel
primo anno di scuola, avevo avuto sempre paura di pronunciarle con lei e con
gli altri. Le avevo chiare nella mente ma le perdevo prima che si facessero
parola, suono, voce. Anche le compagne di classe parlavano una lingua a me
sconosciuta, il loro dialetto, e spesso le sentivo ridere per frasi un tantino
maliziose che riguardavano il sesso, i baci e gli abbracci fra innamorati, le
parti più nascoste del loro corpo (…). Non ero riuscita ad entrare nelle loro
confidenze. Mi sembravano sconcezze che mi lasciavano dubbi e curiosità e che
mi portavo dentro come un fardello pesante, di cui non ero riuscita a liberarmi
e di cui non riuscivo a parlare con nessuno. Neppure con mamma.
A fine anno, in prima
elementare, proiettarono nell’androne della scuola il film “Il mago di Oz” ed
io non ci capii assolutamente niente e ciò mi prostrò molto. Quella sera,
chiusa in un silenzio di buia tristezza, mi feci mille domande, come mai mi era
capitato prima: ‘Perché non capisco e non so farmi capire? Perché non imparo?
Perché la scuola non mi piace? Perché perdo le parole? Dove vanno a finire le
parole? Chi le raccoglie o dove si nascondono quelle che perdo io? Perché non
so più capire neppure le fiabe che con papà capivo? Perché non me le racconta
più nessuno? (…)
Babbo, dunque, mi
rimproverava per ogni nonnulla, dicendomi continuamente che ero una “incapace”.
Ed io lo diventavo per davvero. Cercavo di fare del mio meglio e
inevitabilmente mi accadeva di dare il peggio di me. Babbo entrava in sala da
pranzo ed io tremavo perché già prevedevo un suo rimprovero e quel tremito
delle mani aveva sempre delle conseguenze disastrose: lasciavo cadere un
bicchiere, che si frantumava in mille schegge facendo un rumore assordante di
casa che franava; versavo il vino che finiva col prendere la direzione della
tovaglia; dimenticavo le posate o i bicchieri o i tovaglioli. Il pane i
fratellini me stessa. Inevitabilmente la sua rabbia aumentava perché registrava
sistematicamente che ero davvero una “incapace”. Soprattutto quando notava la
mia mano sinistra in azione, che si affrettava a lasciare il comando alla mano
destra per evitare che lui pensasse anche e ancora e ancora ‘ho una figlia
incapace, stupida e diversa’. Avevo paura di lui. (…)
Si era a fine febbraio e
mamma ti scrisse una lettera, dicendoti che le sarebbe piaciuto rimandarmi a
casa da voi perché non le ero granché di aiuto. (…) scrisse che non voleva
neppure aspettare la fine dell’anno scolastico per farmi completare la seconda
elementare. Avrei frequentato quegli ultimi mesi nel nostro paese, con l’aiuto
di Lizia perché studiavo poco e male e nessuno poteva seguirmi. Non so se fu
davvero per caso o fosti tu a mandarlo (sicuramente fu opera tua!), ma ai primi
di marzo si materializzò in caserma il buon compare Luigi, il mio eroe venuto a
salvarmi.
“Passavo da queste parti
e mi è venuta voglia di salutarvi”, disse col suo fare burbero e commosso,
adeguandosi a parlare in italiano, essendo in caserma e in terra straniera,
“come state? tutti bene? e Angelina come va a scuola?”. “Non la chiamiamo più
Angelina, ma Lina. Per una bambina è più breve, più leggero” (l’unica
leggerezza che mi era stata concessa da mio padre!). Ma io ero già stretta a
lui e lo supplicavo con quel solo abbraccio. “Portami con te. Portami da papà.
Non voglio stare più qui”. “Perché non vuoi stare più qui? Stai tutta intera.
Vedo che non ti manca nessun pezzo. Sei cresciuta. Forse un po’ sciupata perché
sei diventata così alta. E che? Vuoi diventare quanto l’Obelisco che abbiamo al
nostro paese? Poi se diventi troppo alta non ti vuole più nessuno”, rideva per
nascondere la commozione. E mi prendeva in giro per stemperare un po’
l’atmosfera tesa e come in sospensione. “Babbo è sempre nervoso e mamma ha
sempre mal di testa. Anna Maria mi ha combinato un bel guaio al braccio. Vedi
questa ferita così grossa e rossa? Me l’ha fatta lei con una gruccia e quando
viene il dottore a medicarmela io piango sempre. E pure Pino piange sempre. E
mamma piange sempre. E io ho pure il naso rotto. Ti sembra bello stare qui?”. “Beh,
allora me la porto davvero la bambina, se qui non serve”, concluse sbrigativo. Mamma
sospirò con le lacrime che allagavano silenziose e torrenziali i suoi occhi di
tristezza: “Io non vorrei. Mi piacerebbe tenerla con me. Ma starei più
tranquilla se tornasse giù da mamma e papà”. “E per la scuola?”. “Potrebbe
andare dalla mamma di Nina, la moglie di mio cugino Peppino. La signora Carmela
è così brava, garbata e so che quest’anno ha proprio la seconda elementare. Se
lei vuole, può accettarla nella sua classe, e poi dall’anno prossimo Lina potrà
continuare con lei fino in quinta. Potrà essere aiutata da Lizia. Noi facciamo
fare subito il nulla osta e lo mandiamo per posta con urgenza”. “Va bene, va
bene. Ho capito tutto”, la interruppe compare Luigi. “Prepara la roba. La
bambina viene con me”.
E fu
così che tornai da te
intanto, desidero ricordare che il 5 ottobre è la Giornata Mondiale degli Insegnanti. Ebbene, quanto da me raccontato dovrebbe farci riflettere molto sul felice o cattivo incontro con gli insegnanti nel percorso di formazione dei loro alunni, che ne porteranno per tutta la vita i segni del mancato calore empatico, dell'aver ignorato nel tempo talenti e "diversità", e di non aver saputo colorare di creatività e solidarietà con i pari le ore vissute insieme a scuola... Quanti "delitti sommersi" ieri come oggi nelle scuole di ogni ordine e grado. Imperativo categorico per chi sceglie questa nobile "professione/vocazione": evitarli ad ogni costo, "prendendosi cura" di tutti con competenza e amore, dando a ciascuno quello di cui ha realmente bisogno! Angela (continua. A domani)
Angela, sono state per me così belle ed essenziali le tue parole che ho voluto, citandoti, scriverle sulla mia pagina per celebrare la Giornata odierna. Grazieee
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