LA STORIA DI UN AMORE
… La cosa più bella del nostro amore
è che esso cammina sull’acqua
e non affonda.
(Nizar
Qabbani)
Oggi, 20 settembre, di tanti anni fa, fino a perderne il
conto, io e Primo coronammo il nostro sogno d’amore a lungo vagheggiato. Ma per
parlarne occorre risalire agli “antefatti”.
Manfredonia
<Nel nuovo paese incontrai una solitudine di caserma,
grande, fredda, grigia, ma nella nuova scuola “che sapeva di mare” incontrai
l’amore e la poesia. Dopo circa un anno di reclusione, nelle ore di
costrizione al regime dittatoriale, e di libertà condizionata, nell’aula della
terza B, mi sentii rincuorata e protetta dalle battute di Primo, il ragazzo
che, dei quattro compagni di classe, era il più intelligente, il più divertente,
il più irriverente.
E fu
subito magia
Ma fu anche l’incontro con un preside poeta a regalarmi
il sogno di poter realizzare i miei sogni, nonostante le catene. Non passò
molto tempo che, come erba tenera e papaveri in fiore, nello sconfinato prato
della mia testa-cuore-anima, cominciai a coltivare il “pensiero unico”: il mio
amore per quel ragazzo tanto diverso dagli altri, più basso di statura, ma
dominante su tutti per genialità. E, fosse stato per me, non avrei scelto altro
che lui, lui e soltanto lui. (…)
E in classe Primo era l’unico che, con la sua ironia e
autoironia, ci faceva ridere. Cominciò, pian piano, col passare dei mesi, a
corteggiarmi alla sua maniera: petali di rose (strappate dalle piante che
costeggiavano l’ingresso aperto al sorriso del mare o al suo brontolio di onde
alte e rabbiose), con i mille ti amo infilati nei cappucci delle penne che
volavano sui banchi; frasi d’amore scritte col gesso ai bordi della cattedra,
mentre veniva interrogato, suscitando un brusio divertito da parte dei compagni
e rimproveri quotidiani da parte dei professori, a cui lui rispondeva sempre
per le rime. Fu un amore nato tra i banchi di scuola e destinato forse a
rimanere tale, se non fosse stato contrastato fin dal suo nascere, e se non
fosse stato per il nostro appuntamento quotidiano nei vari cinema di quel
ridente paese cullato dal mare.
Il giorno del mio diciassettesimo compleanno ebbi anche
il permesso, dietro sicura e accorata perorazione di mamma, di invitare a casa
tutta la classe. Primo si presentò con un enorme fascio di rose rosse. Pensavo
che si fosse fatto portavoce di tutti i compagni e, invece, mi disse che le
rose erano sue perché mi amava tanto e voleva che diventassi la sua ragazza.
“Lo sai che non mi fanno uscire”, gli dissi mentre
ballavamo e lui mi stringeva a sé.
“Non me ne importa. Ci vediamo a cinema...”.
Andare insieme a cinema ci permise di continuare la
nostra esile storia perché favorì il nostro incontrarci e sfiorarci, stando seduti
vicini vicini, e di scambiarci battute e opinioni che andavano oltre i discorsi
scolastici. I diversi cinema al chiuso e le arene all’aperto ci videro, in
quegli anni, assidui spettatori anche perché, incoscienti e presuntuosi come
eravamo entrambi, non avevamo i pomeriggi impegnati in uno studio scolastico
“matto e disperatissimo”, e, tra l’altro, eravamo entrambi “uniti da un
insolito destino”: entrare gratis in tutte le sale cinematografiche e le arene
dell’accogliente paese che ci ospitava. Anche il papà di Primo, come ben sai,
era un sottufficiale, non dei Carabinieri ma della Finanza. E godeva degli
stessi privilegi, riservati ai militari e ai loro familiari. Le due caserme,
nemiche, erano l’una accanto all’altra e le nostre case dirimpettaie si guardavano
in cagnesco, per via dei nostri genitori; e con amore, per via dei nostri occhi
ad attraversare il corso per perdersi nel sogno che affiorava nei nostri
sguardi. (…).
Allora, eravamo in due, io e Primo, ad anticipare di un
decennio (si fa per dire!) il Sessantotto ed era inevitabile che
c’incontrassimo sul filo della creatività, della incoscienza e della nobile
aspirazione all’utopia e alla libertà. Acrobati noi delle parole coraggiose e
folli nei numerosi percorsi alternativi. Decisamente diversi eppure tanto
uguali. Ormai guardavamo il mondo con occhi innamorati. E nella stessa
direzione. Anche se con personalità completamente diverse e, in qualche modo,
incompatibili.
Il primo ad accorgersi del nostro amore fu proprio il
preside che, dopo una “visita di istruzione” nel territorio dauno, scoprì tra
le fotografie delle classi in gita alcune nostre foto in cui avevamo fermato il
tempo tra le nostre mani intrecciate sul nostro pasticciato sogno di essere in
due. Ci chiamò in presidenza e, invece di rimproverarci come ci aspettavamo, ci
sorrise chiedendoci:
“È una cosa seria?”.
Intuii allora la tenerezza del suo cuore>.
Bitonto
1960
anno magico per l’amore che fioriva e metteva radici
Radici e ali.
Ma che le ali mettano radici.
E le radici volino.
(Juan
Ramòn Jiménez)
<Ci eravamo iscritti entrambi, io e Primo, alla
Facoltà di Lingue: lui per passione, io solo per seguirlo. Ancora una volta da
perfetta incosciente, avendo piena consapevolezza che le lingue non riuscivo a
masticarle affatto. Ero decisamente negata, non tanto nella traduzione, quanto
nella lettura e nella comunicazione orale. Mai avrei imparato a pronunciare una
sola parola straniera correttamente. E ancora oggi mi accade. (…)
Fu un anno senza mai partecipare ad una sola lezione,
paghi soltanto di essere insieme.
Incoscienti
e felici. Immemori e felici. Appassionati e felici.
Corso Trieste. Lunghe giornate a chiacchierare nella
saletta degli studenti, dietro i vetri e con i libri mai sfogliati. Passeggiate
romantiche sul lungomare, infaticabili camminatori noi in gara con i gabbiani.
Corso Cavour: e i panzerotti al Bar Italia, i gelati al
Bar Gasperini, il caffè alla Motta.
Lunghe incursioni all’UPIM e alla STANDA. I regalini da
quattro soldi e la felicità nelle tasche vuote. Altri attimi di gloria e di
euforia per essere stata eletta miss matricola. Ancora una volta la bellezza a
incoronarmi regina. Esaltazioni in due. E danze e voli e ricami di voli e
sogni. E progetti…
Poi, il Concorso di Primo l’anno successivo e il suo
impiego nella scuola come il più giovane maestro d’Italia. Io non vi avevo
partecipato. Sapevo con certezza che non volevo fare l’insegnante. Soprattutto
nella scuola elementare. Ma fui contenta della sua scelta e del suo successo.
La mia corsa, la mattina dell’assegnazione della prima
sede d’insegnamento, sotto un temporale spaventoso, per raggiungerlo in
Provveditorato, dove c’era anche suo padre. Portai con me due bicchieri di
carta e una bottiglietta d’acqua per brindare
(… “brindisi coi bicchieri colmi d’acqua/ al nostro amore
povero e innocente”…)
Lo raggiunsi che ero la cascata del Niagara (il papà di
Primo si preoccupò e mi rimproverò bonariamente), ma io rimasi bagnata fradicia
fino al mio ritorno a casa, la sera. (…). Rimasi a lungo a
letto con febbre e raffreddore. E senza Primo, che dovette presentarsi a scuola
e poi ripartire con suo padre in attesa dell’inizio dell’anno scolastico. Il
primo ottobre. (…).
Mi avevano iscritto, intanto, contro il mio volere, alla
Facoltà di Lettere, previo esame di ammissione, essendo a numero chiuso.
(…) Cercai in tutti i modi di non sostenere l’esame, ma Lizia e
Pinuccio, che nel frattempo era diventato il suo ragazzo, mi accompagnarono
fino dentro l’Ateneo e, mio malgrado, dovetti svolgere negligentemente un tema
su Pascoli e D’Annunzio
(ce la misi tutta per farmi bocciare, improvvisando una
mia discutibile argomentazione sul valore immaginifico della poetica
dannunziana contro la semplicità puerile di quella pascoliana, l’esatto opposto
della tesi sostenuta dal noto professore salentino, docente di Lingua e
Letteratura Italiana nel nostro Ateneo, in un suo saggio monografico appena
pubblicato e da me ignorato!). (…) Con grande sorpresa,
risultai tredicesima su oltre duemila concorrenti per sole trecento iscrizioni,
per cui dovetti accettare di cambiare Facoltà e Sede e soprattutto di
separarmi, ancora una volta, da Primo. (…)
1966
Appena dopo la metà di settembre, Lizia sposò
Pinuccio. (…)
Primo non poté sfuggire al servizio militare ma, dopo
un’estate trascorsa come aviere in una località amena della Calabria, tornò a
Bari per gli ultimi mesi di leva. Al suo congedo, ci saremmo sposati anche noi.
Tra altalenanti sì, no, non so. (…)
Vari sconvolgimenti e grandi trasformazioni erano
sopravvenuti, in quegli anni Sessanta, nella nostra costellazione familiare
(senza più una sola ombra a ricordarci il gelso e le rose, il primo decapitato
e le seconde appassite). Anche nelle nostre famiglie parentali… (…).
C’erano, comunque, tante canzoni a farmi battere il cuore
e nuove poesie che io e Primo ci dedicavamo, nostre e di autori famosi, più
stranieri che italiani (Neruda, Prévert, Whitman, Dickinson), e nuovi sogni da
progettare tra le tele di Primo sempre più numerose e più belle (gli avevo
regalato io alcuni anni prima, dietro sua richiesta, tavolozza, colori e
pennelli) e le nostre canzoni, più italiane che straniere (il boom di queste
ultime ancora lontano)
(come te non c’è nessuno/ tu sei l’unico al mondo… Rita
Pavone…
mai più nessuna al mondo/ t’amerà così/ per te nessuno al
mondo/ soffrirà così… Peppino di Capri… nessuno ti giuro
nessuno/nemmeno il destino ci può separare… Mina).(…)>
1967
11 gennaio:
perdita del cuore con la perdita di mio nonno alle
quattro del mattino. E fu sgomento. E furono lacrime senza fine… e suono di
capane a festa ad inondare misteriosamente e miracolosamente il giardino senza
più gelso e senza più rose. Tutto distrutto anche la mia anima…
Ma avevamo già dall’anno prima fissato la data di
matrimonio per via della disponibilità della sala in quel di Bitonto
soprattutto per nonna Angelina, sperduta e confusa senza il suo Sole, intorno a
cui, satellite lunare, aveva ruotato per un’intera vita, e per le zie più
anziane della famiglia.
20 settembre:
il matrimonio
… è tempo che si sappia!
È tempo che la pietra si degni di fiorire,
che all’affanno cresca un cuore che batte
È
tempo che sia tempo.
È
tempo.
(Paul
Celan, stralcio della poesia
“Corona”, Poesie,
raccolta postuma, 1998)
<Un matrimonio atteso per circa dieci anni e poi
pensato con sospetto, con l’anima in sospensione per troppe delusioni vissute
come inganni.
Avevo sognato troppo per non cadere lungo le vie strette
e tortuose della realtà. (…)
Venne zio Padre Leonardo ad officiare il rito.
La sera precedente le strade periferiche del nostro paese
mi videro con Anna Maria riempirle di lacrime e di pensieri sgomenti. Tutto mi
tormentava. La tua assenza. La presenza di tanti che avrei voluto assenti. I
giorni dell’amore e della lontananza. E quelli che sarebbero venuti solo per
noi nella nuova casa. “Saremmo stati bene insieme?”.
Piovve a dirotto il giorno dopo. Piovvero anche dubbi e
timori. Si mescolarono all’acqua che non li lavò. Non li fece scorrere lontano.
Mi attanagliarono il cuore nell’attesa del vestito bianco che tardava ad
arrivare. Non era ancora pronto ed era stato confezionato proprio per me nel
paese degli abiti da sposa. Modello Angela. Con ricami di perline e coralli,
che io amavo tanto, a formare delicate margherite sul corpetto e lungo tutto
l’ampio bordo dell’abito, morbido sui fianchi ma leggermente svasato alla
caviglia. Quei ricami mi ricordavano gli abiti di tua madre. Neri. Eleganti.
Indossati nel mio eterno carnevale. Il mio abito era bianco su
bianco. Come la mia anima di attesa e di sgomento. Sì, era ancora bianca la mia
anima. Dopo le chiacchiere delle comari del vicinato e dopo dieci anni del mio
canto d’amore con Primo, ero ancora candore di ali di nuvole di veli, e
tenerezza di bianche piume e luminosità di mattini non ancora dischiusi al
giorno. Primo aveva rispettato quel candore, quasi fosse un’offesa infrangerlo,
macchiarlo (…) In quel giorno di pioggia, Primo, Pinuccio e
Nicola si erano avventurati all’alba che diluviava per portarmelo in tempo,
quel vestito tanto a lungo sognato, prima che il fotografo venisse per le foto
di rito.
Quel giorno il vestito non era pronto come non ero più
pronta io a dire il mio sì. Incompiuto l’abito da sposa. Incompiuta io come
sposa. Incompiuto il tempo dell’attesa che aveva divorato il tuo tempo. Mi
sembrò un segno che non volli interpretare. Non avevo dormito quella notte e
non avevo potuto sognarti. Non avevo sogni cui aggrapparmi o da cui
disancorarmi. Volevo solo fuggire. Avrei voluto non sentire più quel nubifragio
di pioggia cattiva abbattersi sul naufragio del sole ad oscurare e sommergere i
miei nuovi giorni…
Sull’altare tacqui per tre volte alla domanda “Vuoi
tu…?”.
No. Io non volevo. Non sapevo più cosa realmente volevo…
Attimi eterni di panico. Vidi gli occhi di zio Padre
Leonardo interrogarmi preoccupati. Vidi Primo tremante e il suo profilo di
ragazzo innamorato, pallido e perduto dietro il mio lungo silenzio. Vidi
l’altare, i settembrini festosi, nuvole bianche e leggere che vibravano di
sogni che ancora sarebbero stati. Le rose rosse indispettite di spine tra tanta
innocenza di prato. Immaginai, dal brusio alle mie spalle, volti allarmati e
orecchie attente in attesa di quel monosillabo che tardava ad essere
pronunciato. Un piccolo monosillabo a racchiudere una promessa così grande. Di
eterna fedeltà. Ti vidi seduto alla tua sedia nella cappellina alla sinistra
dell’altare. Sentii la tua ansia. L’identica attesa degli altri. Vidi i tuoi
occhi d’amore verso nonna Angelina seduta vicino a mamma e babbo e con accanto
zia Maria
(“con i sentimenti non si scherza” ti sentii mormorare…)
Contro i miei tre no, pensati in silenzio, mormorai un solo sì. E vidi il mio
ragazzo felice. E fui felice. Sì, potevamo essere ancora felici. Sì, saremmo
stati felici. Sì, ce l’avremmo messa tutta per afferrare
Stracci
di felicità. Gocce di felicità. Raggi di felicità.
Piove sull’asfalto,
piove sul mio cuore,
piove sulla devastante prateria sconfinata del mio animo…
(Alberto Teodori, stralcio de “La pioggia”)>
(da A. De Leo, Le piogge e i ciliegi, vol. II, SECOP edizioni, Corato-Bari 2019)
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