E mentre non si è ancora spenta l’eco del mio cuore per la
prima presentazione ufficiale della nostra Rivista cartacea “CORRELAZIONI
UNIVERSALI”, di cui ho scritto ieri sulla pagina Correlazioni Universali di FB,
con il passaggio di consegne tra marzo e aprile. Un passaggio doloroso. Il
primo aprile, alle otto del mattino, mamma si è ricongiunta in Cielo con tutti
i suoi cari, volati su prima di lei, lasciandoci in un oceano sconfinato di dolore. Gli
uomini son come il mare/ L’azzurro capovolto/ Che riflette il cielo/ Sognano di
navigare/ Ma non è vero// Scrivimi da un altro amore/ E per le lacrime/ Che
avrai negli occhi chiusi/ Guardami, ti lascio un fiore/ Di immaginari sorrisi… (Vecchioni,
“Il cielo capovolto”, da L’ultimo canto di Saffo).
Mia
madre. Oceano di lacrime e “immaginari sorrisi”.
E oggi voglio ricordarla così come l’ho vissuta e amata
negli anni della sua giovinezza, quando, bellissima ed elegantissima, era piena
di gioia di vivere, mentre i figli erano grappoli di vendemmie non più attese,
ma sempre accolte con amore. Benedette.
Voglio ricordarla nei due anni vissuti con lei a Casalnuovo
Monterotaro abbarbicato sui monti della Daunia. Due anni molto difficili per
me, all’ombra della sua prorompente vitalità e delle mie tristissime
incomprensioni con babbo.
<Per fortuna, c’erano anche il cinema e le lucciole. E
anche questi erano miracoli che si accendevano nel buio: lo schermo e le storie
nel buio del cinema; le lucine vibranti nel buio della sera.
Spesso con mamma e con le mogli e i figli degli altri
militari andavamo al cinema. Per raggiungerlo dovevamo attraversare alcuni
campi della periferia che brulicavano di lucciole
(noi siam come le lucciole/ brilliamo nelle tenebre…
ma era un’altra storia che mi sfuggiva).
Io mi perdevo in quelle stelline affioranti sul prato.
Nel cinema, mamma era sempre attenta a coprirci con le mani
gli occhi per non farci vedere alcune innocenti scene d’amore che lei riteneva
non adatte a noi piccoli. Questa precauzione è durata fino alla nostra
adolescenza con grandi proteste da parte mia e delle mie compagne di innocue
prime scoperte del mondo e della vita. Non c’era bacio che non dovessimo spiare
attraverso la grata delle sue mani che sembravano moltiplicarsi, centuplicando
dita e ansie e timori e perplessità. E in quella complicata operazione anche
lei si perdeva l’emozione di quel bacio tanto atteso e inevitabilmente perduto
(pə dəspìttə də Gnəmərìddə jè m’ammènəghə da la fənéstrə...) (per
dispetto di… io mi butto dalla finestra…), avresti sentenziato tu!
E Gnəmərìddə prendeva, di volta in volta,
nomi diversi a seconda del destinatario della rassegnata quanto impotente
considerazione: per fare dispetto agli altri si finisce col fare
del male a sé stessi!.
Ma all’uscita dal cinema dimenticavamo tutto per dare la
caccia alle lucciole. Ne raccoglievo a manciate che conservavo nel fazzoletto
per metterle nel bicchiere appena tornata a casa. Qui la delusione in agguato:
quelle splendide lucine intermittenti, a riportarmi il cielo e il brulichio
delle infinite sue stelle tra le mie piccole mani, erano soltanto dei minuscoli
insetti privi di ogni splendore.
(IL
SOGNO, la realtà)
Ma, pur registrando ogni volta la delusione di quella via
lattea sfavillante nella mia tasca, ricondotta a un misero bottino di alucce
spente, non riuscivo a vincere la tentazione di riprovare ad afferrarle e a
conservarle, sperando nel prodigio di ritrovarle a casa sfolgoranti di luce.
(…)
Nel
buio di quei giorni bui, squarci luminosi di breve felicità!
Lina, Nina, Lucia e Pina, con l’aiuto e la complicità di
mamma, inventavano o proponevano giochi di società per le tante feste che
rendevano allegra la nostra casa. La vittima designata era quasi sempre il
povero Giovanni, che però era felice di partecipare e di essere al centro
dell’attenzione.
C’era il grammofono a tromba, gloria dei tempi andati, e
c’erano i 78 giri
in vinile (con le Case Editrici La Voce del Padrone,
poi la Fonit Cetra, RCA, Durium, Ricordi...) di musica leggera, che babbo
collezionava. In quegli anni alle canzoni di guerra di un realismo tragico e
lacrimevole subentrarono romantiche, appassionate, nostalgiche canzoni d’amore.
A “Faccetta nera, bella abissina,/ aspetta e spera che
già l'ora s'avvicina...”...
“Come ogni sera, sotto quel fanal,/ dietro la stazione mi
stavi ad aspettar/ (…) Addio, piccina, dolce amor,/ ti porterò qui sul mio
cuor,/ con te Lilì Marlen, con te Lilì Marlen...”...
“Addio, mia bella addio,/ l'armata se ne va,/ e se non
partissi anch'io/ sarebbe una viltà./ Non pianger, mio tesooro, sai che
ritornerò,/ ma se in battaglia io mooro/ in ciel ti rivedrò...”
si sostituirono
“Vieni, c'è una strada nel bosco,/ il suo nome conosco,/
vuoi conoscerlo tu?/ Vieni c'è una strada nel cuore/ dove nasce l'amore/ che
non muore mai più...”...
“Vorrei baciar i tuoi capelli neri,/ le labbra tue, gli
occhioni tuoi sinceri...”...
“Suona solo per me/ o violino tzigano/ forse pensi anche
tu/ a un amore laggiù/ sotto il cielo lontan…/ Se un segreto dolor/ fa tremar la tua mano”…
“Amado
mío/ Love me forever/ And let forever begin tonight// Amado mio/ When
we're together/ I'm in a dream world/ Of sweet delight… (Rita Hayworth
cantava… e c’era una versione in italiano che anche Lina cantava continuamente,
alternandola col richiamo amoroso al suo Peppino…)
E poi c’erano le musiche da ballo: la Cumparsita,
Adios Muchachos, La violetera, il Bolero di Ravel. La mazurka, i valzer di
Strauss, la polka, il fox-trot.
A babbo piacevano soprattutto le colonne sonore dei
grandi film e la musica classica. A mamma, però, dedicava sempre “Il tango
della gelosia” (no, non è la gelosia,/ ma è la passione mia,/ quando ti
guardano gli altri/ io fremo perché/ io il tuo amore lo voglio/ soltanto per me…).
Ogni volta lo ballavano insieme e mamma era davvero bellissima,
attrice principessa fata ballerina. Maliosa superba affascinante nei suoi abiti
longuette molto eleganti e raffinati. L’adoravo. Mi ripetevo ogni volta che da
grande sarei diventata come lei. (E per molti anni lei fu l’insuperato
irraggiungibile modello). Dopo i primi balli e i dolci e i rosoli di rito,
cominciavano i giochi che a me sembravano anche un po’ cattivelli perché spesso
puntavano sulla dabbenaggine di Giovanni, chiamato sempre in causa. Uno di
questi consisteva nel mettere due sedie intervallate da uno spazio vuoto con un
tappeto a coprirle. Sulle sedie sedevano le signore che invitavano un ospite a
caso, ma guarda caso il maschio prescelto era sempre il nostro domestico, che
di solito aveva il compito di cambiare la puntina al braccio del grammofono, ma
non di scegliere i dischi. Appena il malcapitato si sedeva al centro, le due
signore si alzavano facendolo precipitare nel vuoto. E giù risate. Rideva anche
Giovanni, perdonando tutto alle signore e contento come una pasqua di stare con
noi alle nostre feste.
Un altro gioco che lo vedeva protagonista e vittima era
quello della giacca che doveva indossare infilando solo una manica perché
l’altra, tenuta alta quasi fosse un telefono serviva ai convitati a fare lunghe
telefonate agli amici assenti. In realtà, il più alto dei presenti tirava più
su la manica e invece di parlare rovesciava all’interno una bottiglia d’acqua
che bagnava dalla testa ai piedi il malcapitato che sapeva e già rideva beato,
lasciando fare pur di far ridere l’intera compagnia.
Poi, c’era sempre il ballo “della spazzola” per spolverare
delicatamente o ruvidamente il cavaliere che doveva cedere la dama a chi in
quel momento possedeva la spazzola. Tutti erano accoppiati tranne uno a cui era
stata consegnata e che, nell’arco di un disco, non appena la musica
s’interrompeva, doveva di volta in volta passarla al ballerino di turno. Pagava
pegno chi a fine canzone rimaneva senza dama e con in mano la spazzola. Poi si
ricominciava fino ad esaurimento energie. Quest’ultimo gioco è rimasto immutato
nel tempo fino alla mia prima giovinezza con delle piccole varianti: la scopa
di saggina aveva sostituito la spazzola perché il cavaliere solitario potesse
accompagnarsi comunque con una ballerina. Il 78 giri era stato sostituito dal
33 giri e il grammofono era diventato più piccolo e maneggevole, avendo perso
la maestosa tromba. Sostituito a sua volta dal giradischi. (…)
Allora, i balli erano un tantino maliziosi e… peccaminosi e
bisognava chiedere il permesso alla dama di poter volteggiare con lei. I
ragazzi qualche anno dopo avrebbero detto “pomiciare” e “limonare” con identico
voglioso significato (signorina mi permette l’onore di questo ballo?...
signorina mi concede questo ballo?... signora, posso osare di chiederle di
ballare con me?...)
(voglio ballar con te/ stringerti forte a me/ voglio
parlar d’amor/ come mi detta il cuor// cosa dirò non so/ cosa farò chissà/
innamorato, inebriato sempre con te sarò…)
Il peggio accadeva quando una signorina o una signora
rimaneva seduta a “fare tappezzeria”, perciò le invitate al ballo si
precipitavano a dire di sì pur di non doversi vergognare per l’intera serata,
guardando con finta noncuranza il soffitto, il pavimento, la punta delle
scarpe, le altre coppie in uno scoramento totale che scoprivo, anch’io con
finta noncuranza, negli occhi spenti delle solite malcapitate, di solito le più
brutte e poco aggraziate (“jèvənə cèrtə cióféchə!” (erano
certe ciofeche), termine quest’ultimo commutato più tardi in “cózzə”
e “ràcchiə”… (cozze e racchie), ma l’intera esclamazione stava in ogni
tempo per “erano molto brutte!”). Per i giovani, a quei tempi, “i
ballabili” romantici erano spesso l’unico modo per stringere tra le braccia una
ragazza, dichiararle il proprio amore, provare il brivido della passione. E se
ciò non accadeva, il giovinotto di turno veniva etichettato come “‘nu
chèchèjə” (uno senza spina dorsale e senza grandi attrattive). E, per
questo, il più delle volte era proprio Giovanni a lasciare per primo il ballo,
ingenuo e sgraziato com’era. Lentamente e inesorabilmente lo aveva imparato a
proprie spese, ma non spegneva mai il suo sorriso nel coro delle altre risate.
E io mi feci un’altra convinzione, forse mai smentita del tutto, “essere scemi
è bello, ti permette di non soffrire e di ridere sempre”, anche perché, più
tardi, avrei avuto conferma dalla affermazione latina: “risus abundat in ore
stultorum”…
Io non mi divertivo, caro papà, e non credo di avertene mai
parlato. Non mi divertivo non perché mi ritenessi intelligente, anzi!, ma
perché quei giochi li trovavo ripetitivi e un tantino discriminatori nei
riguardi di chi era meno pronto e sicuramente maldestro. Ed io mi sentivo
proprio così e mi sentivo indirettamente e confusamente coinvolta in quella
offesa. Ero, però, contenta di registrare l’allegria di mamma e l’insolita
serena accondiscendenza di babbo. Mamma, a quei tempi, nonostante i quattro
figli, aveva conservato il corpo e la gioia di vivere di una ragazzina e io
l’ammiravo incondizionatamente. Qualche volta, però, mi capitava di aver paura
quando lei, nella spensieratezza del gioco, soprattutto quello dei cuscini e
dei palloni che volavano da una finestra all’altra, lasciava tra le mie braccia
Anna Maria e metteva sul letto Pino ancora in fasce. Temevo, allora, che
cuscini e palloni potessero colpire me e la mia deliziosa sorellina o l’ignaro
quanto atteso e prezioso fratellino. E mamma, nella foga del gioco, sembrava
non badarci. In realtà, la preoccupazione era solo mia perché lei era
prontissima ad afferrare cuscini e palloni prima che potessero silurare la
casa.
A
lei piaceva fare anche tanti scherzi
Una volta si vestì da brigadiere con una divisa rimediata
proprio con la complicità di un militare e scese in caserma, portandovi
scompiglio e tanto stupore tra i carabinieri. Babbo si arrabbiò tanto, ma poi,
appena rientrato in casa, finì col ridere di cuore pure lui per il carattere
pazzerello di sua moglie. Lui aveva dieci anni di più di mamma ed era
innamorato pazzo di lei...>
(A.
De Leo, Il gelso e le rose, op. cit. nelle pagine precedenti)
A mamma ho dedicato tante poesie da poterne fare un volume.
Spero che ci pensino, dopo di me, figli e nipoti che hanno imparato ad amarla
come nonna (i miei figli, che l’hanno conosciuta e ammirata, e i miei nipoti
che l’adorano attraverso i nostri ricordi). A Lei, dedico ancora il
mio canto:
Faro di luminoso approdo sei.
Palma di pace e sorriso di mitezza.
Nuvola leggera di silenziose lacrime.
Perlescente chiarore di tenera luna.
Fiamma viva d’amore a riscaldare
il giorno delle confidenze accese
mano nella mano nei rari incontri
delle nostre vite sospese.
E sei tepore di nido nel silenzio
di pietre ai tronchi intrecciati di rovi
sei.
Il tuo andar via quasi scherzo
di primo aprile
tra lacrime a dissetare il giorno
dell’addio.
E tacquero le parole che non ti seppi dire.
Furono promesse che mai giunsero
a colorare d’azzurromare il cielo
delle estati insieme solo sognate.
Ma Sole negli occhi sei
soffocati di nostalgia e rimpianto
Carezza di Luce
Anima della nostra anima
SEI
(e a te va il mio perenne canto)
E aprile è solo inizio e mai fine. Intanto, domani è la Domenica delle Palme. Porgo a tutti un ramoscello d’ulivo benedetto con un bacio e la frase di rito, che mi ricorda il passato remoto del nostro stare tutti insieme nella “casa del gelso e delle rose”: La pace sia con te… E l’altra guancia rispondeva: e con lo spirito tuo! Serene Palme...Angela
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