sabato 17 luglio 2021

Sabato 17 luglio 2021: e, per concludere, una intervista di Gisella Blanco a Vittorino Curci...

Due anni fa, il 17 luglio, moriva un grande scrittore di indiscusso coraggio e di immensa umanità. Aveva oltre novant’anni, era ormai quasi cieco, ma aveva un cuore ribelle e ostile alla resa. Era il tempo della nostra umanità ferita per i tanti migranti lasciati morire nelle acque del nostro Mediterraneo, ad un passo dalla costa italiana. Fino all’ultimo respiro si batté per invogliarci a riscoprirci Uomini, nutrendoci di Sorriso e di Speranza.

Io dedico a lui questa pagina e a tutti gli scrittori, i poeti, i giornalisti, gli artisti che si battono per la libertà di parola, per la oculata giustizia tra disuguali, per il sacrosanto rispetto dell’altro, chiunque esso sia. Così mi è stato insegnato da “chi credette in noi, le donne e gli uomini/ che ci tenevano in braccio…”. E ripropongo due fondamentali versi di Vittorino Curci a tale riguardo. Ci sono insegnamenti che vanno al di là del tempo e dello spazio perché continuano ad abitarci dentro non come sterile abitudine ma come vivificante abito di comportamenti kantiani (Il cielo stellato su di me, la legge morale dentro di me). Questo riferimento mi riporta a Vittorino e alla importante intervista “LA VERITA’ E’ ESSENZIALMENTE POETICA”,   rilasciata, per <Le città delle donne>, alla giornalista Gisella Blanco , la quale così introduce: “L’arte, a volte, non è solo una passione, una vocazione o un’indole: talvolta è la materia della vita, la sostanza del tempo, l’ontologia della personalità. La ricerca della particella minima ed essenziale che informa le più grandi strutture etiche è alla base della sopravvivenza di una società in piena crisi convulsiva da assuefazione alla fretta e alla esacerbazione della individualità, polarizzazione della scelta, più o meno volontaria, di rinunciare alla fragilità che ci rende ancora umani”. E non si può non convenire con quanto la giornalista afferma sull’arte e sulla società contemporanea in funzione di una prima rapidissima ma puntuale presentazione di Vittorino. E, infatti: “Abbiamo conversato con un intellettuale del nostro tempo, Vittorino Curci, poeta, scrittore, critico letterario, musicista e pittore, per conoscere il punto di vista autorevole dell’uomo artista contemporaneo che attraversa la tortuosa necessaria via del cinismo per giungere a una nuova infanzia umana, consapevole della propria inclinazione alla pluralità che la rende adatta alla ferocia del quotidiano”. Anche qui devo arrendermi all’evidenza. La giornalista ha fatto centro. Vittorino è anche tutto questo, che la sua artistica poliedricità rivela ed evidenzia. Ed ecco alcuni fondamentali stralci delle sue risposte alle interessanti domande della Blanco: “Il ruolo della poesia oggi è lo stesso di sempre, cioè quello di cercare un punto di vista sul mondo, lontano da convenzionalismi radicate e automatismi inconcludenti (…) La verità è essenzialmente poetica”. Credo di poter dire che in molte poesie la “sua” verità, la verità del nostro Autore, sia pure velata da metafore e dinieghi, emerge come da un abisso insondabile ma, perciò stesso, ricco di tesori nascosti. E ancora: “Di solito evito di tornare sulle cose che faccio. Cerco di essere dispersivo perché non sono mai soddisfatto di me stesso. Mi illudo ancora di poter scrivere una poesia, una sola, che mi rappresenti pienamente. Mi accontenterei anche di un solo verso. Un solo verso per giustificare tutta la mia vita”. Anche in queste dichiarazioni estreme, riscopriamo che la poesia si identifica con la vita, per Vittorino Curci. Ma in esse c’è Rilke; ci sono Ungaretti di Allegria di naufragi e Montale di “Forse un mattini andando” (“Ma sarà troppo tardi; e io me n’andrò zitto/ tra gli uomini che non si voltano,/ col mio segreto). E Dino Campana con i suoi Canti Orfici. Certo, sono andata a sfociare nel Novecento, mentre qui si parla del primo ventennio del nostro secolo. Dovrei rivolgermi al grande Franco Buffoni e ai suoi “Quaderni”, che dagli anni Novanta selezionano i nuovi poeti per raccontarci meglio la poetica di questo nuovo millennio, ma avrei notevoli difficoltà nella scelta dei tanti validi poeti giovanissimi che fanno parte della sua scuderia (rimando al suo libro freschissimo di stampa). Anche partendo da quegli anni di fine secolo, rimarrebbero comunque fuori tutti quelli nati più o meno a metà Novecento. Ma mi sembra giusto riportare qui uno stralcio del denso e imperdibile libro IL TRIANGOLO IMMAGINARIO (SECOP edizioni 2021), in cui sapientemente egli disquisisce di poetica: “Da buon allievo <indiretto> di Luciano Anceschi, non riesco a prescindere dalla sua definizione di poetica ogni volta che mi capita di riflettere sul fatto di scrivere versi. È l’impasto di quattro noti elementi - sistemi tecnici, note operative, moralità e ideali - che nutre e sorregge la poetica di un autore. Che infine è anche il sapore del pane, l’infanzia, l’odore della terra. È per questo che, pur avendo lavorato molto sulle lingue straniere, valuto enormemente il lavoro che si fa sul vernacolo, sul dialetto, su quella lingua che si apprende non a parole, ma a frasi, a spezzoni di frasi, a brani di vita nei primissimi anni, perché con essa s’impasta la poetica di un autore. Credo anche che poesia nasca da poesia, che non esista creazione letteraria assolutamente originale (…) Va sottolineato anche l’aspetto dell’assorbimento di poetiche precedenti, di autori precedenti. È evidente che se Vittorio Sereni ha avuto a vent’anni il fascismo e a trenta la Seconda Guerra Mondiale, io a venti ho avuto il Sessantotto e a trenta il Settantasette; mi sembra che si tratti di esperienze molto diverse. Quindi, anche se menziono Sereni come autore con cui è chiaro che ho un apparentamento, le nostre esperienze di vita sono state così differenti, e i riferimenti storici sono talmente distanti che, inevitabilmente, comportano una originalità anche nell’autore successore, se provvisto di uno stile, di un ritmo interno alla scrittura sua propria”. Credo di poter sottoscrivere, a cuor leggero ma non troppo (nel senso che me ne assumo la responsabilità), che queste affermazioni vadano nella stessa direzione di quelle di Vittorino Curci. Non fanno una grinza le une e le altre. Sono indubbiamente sulla stessa lunghezza d’onda. Anzi mi sentirei di aggiungere di Buffoni anche questa affermazione: “Il ritmo è ancestrale: è quel respiro che viene dall’imparare a parlare, dal battito del cuore materno”. Ecco perché il linguaggio poetico “ricorda l’infanzia dell’uomo e i poeti sono eterni bambini” (Giancarlo Stoccoro in una intervista a Franco Buffoni, il quale conferma: “Il ritmo interiore è la musica più bella e senza melodia, che mi fa mettere le parole a posto scuotendole e porgendomele all’orecchio come una conchiglia”). Ed ecco un ritorno inevitabile al nostro Vittorino, che sembra fare eco a Buffoni e a Keats, amato e studiato, quest’ultimo, profondamente da Buffoni: “Keats diceva che la poesia è musica senza melodia. Io non faccio che cercare quella musica che, nel respiro dell’universo, è nata prima di ogni altra musica e vive da sempre nel mito (anche se noi oggi non abbiamo la più pallida idea di cosa sia un mito). Il mito è una movenza dell’anima primitiva che precede l’uomo storico, dotato di ragione. Il quale cerca un ordine perché non può fare a meno di un ordine. Dobbiamo pensare il mito come qualcosa che si mette a disposizione, che parla evocando, senza cercare spiegazioni. È un linguaggio che ritorna al fondo sconosciuto da cui è stato generato. È un modo di vivere e di pensare che noi non conosciamo, è un’esperienza della parola che ha a che fare con ciò che è originario. Il mito indica qualcosa che sfugge a ogni interpretazione…”. E qui mi piacerebbe sentire la voce di una grande giovanissima studiosa dei miti antichi rivisitandoli alla luce del mondo contemporaneo, la mia dottissima amica Bianca Sorrentino.  Solo un brevissimo ricordo del suo primo saggio sul Mito (Mito classico e poeti del ‘900, Stilo Editrice 2016), a cui approdò quale vincitrice di un importante Concorso Letterario in Puglia e che io, in una recensione, semplificai così: “comincio dalle sue parole che qui hanno sapore fresco e antico del raccontarsi per raccontare l’importanza del mito greco-latino e di ogni altro mito che accende di luce la quotidianità e la trasforma in vivida realtà/irrealtà, avventura/sogno, lama/balsamo per le ferite che la vita distribuisce agli umani, noncurante di volti e di costellazioni. Solo il nome rimane per sempre incancellato, nella unicità di una storia/leggenda che ci riguarda un po’ tutti. Nomi di uomini, certo, ma anche di animali, oggetti e ricami di stelle nel cielo, attraversati dal Fato, ora crudele ora generoso, che ha scritto quei nomi nel grande Libro delle Possibilità. Forse per insegnarci a vivere epifanicamente il quotidiano, nonostante il quotidiano morire…”. Ma, al di là del Mito, che anche Vittorino ha così bene definito, mi piace concludere tutto il mio discorso su questo nostro grande poeta e non solo con le sue conclusive parole sui consigli da dare ai giovani e giovanissimi poeti dell’ultima generazione: “La prima cosa di cui deve essere consapevole un poeta è che la poesia non è un fatto personale. Voglio dire il linguaggio va sempre incontro a qualcuno. Un poeta, inoltre, deve provare un vero interesse per la vita degli altri. E poi, sì, deve leggere, deve leggere molto, anzi, più che leggere, deve studiare. Sono due cose diverse, leggere e studiare. Studiare significa concedersi tutto il tempo necessario per fare le cose. Significa riflettere, collegare, distinguere, approfondire, fermarsi, rileggere. È un lavoro che non finisce mai. Ma forse il miglior consiglio che potrei dare a chi desidera scrivere poesie è lo stesso che dava Charlie Parker ai giovani musicisti: “Studiate tutto quello che potete sulla musica e sul vostro strumento. Poi andate sul palco, dimenticate tutto e suonate”. In tutto ciò - sembrerà strano - la parte più difficile è dimenticare. Ma è lì, nella meraviglia di quel vuoto, che inizia il vero processo creativo”. E noi gli crediamo! Mi rimane ancora lo spazio per tre riflessioni: 1) mi piace molto la poesia dei giovani e giovanissimi autori, ma forse perché figli di questo secolo, che Miguel Benasayag e Gérard Schmit hanno definito “delle passioni tristi” (cfr. M. Benasayag- G. Schmit, L’epoca selle passioni tristi, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2014), scrivono versi molto amari, disincantati, delusi. Di un nichilismo nietzschiano (ripreso da Umberto Galimberti nel suo L’ospite inquietante di alcuni anni fa), che mi sgomenta e mi spinge a lottare per loro. 2) Occorre rispolverare la speranza riportandoci ai valori di sempre attraverso un percorso di “coscientizzazione” degli adulti perché possano imparare ad “ascoltare” i giovani per conoscerli meglio e capirli di più. 3) La poesia può aiutarci a venire fuori dalla desertificazione dei sentimenti alla luce di quanto detto sin qui.

Infine, tutti i vostri commenti, le vostre poesie, le vostre riflessioni saranno i contenuti delle prossime pagine sul “nostro” blog. Alla prossima. Ciao   

 

 

 

 

 

  

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