Due anni fa, il 17 luglio, moriva un grande scrittore di indiscusso coraggio e di immensa umanità. Aveva oltre novant’anni, era ormai quasi cieco, ma aveva un cuore ribelle e ostile alla resa. Era il tempo della nostra umanità ferita per i tanti migranti lasciati morire nelle acque del nostro Mediterraneo, ad un passo dalla costa italiana. Fino all’ultimo respiro si batté per invogliarci a riscoprirci Uomini, nutrendoci di Sorriso e di Speranza.
Io dedico a lui questa pagina e a tutti gli scrittori, i poeti, i
giornalisti, gli artisti che si battono per la libertà di parola, per la
oculata giustizia tra disuguali, per il sacrosanto rispetto dell’altro,
chiunque esso sia. Così mi è stato insegnato da “chi credette in
noi, le donne e gli uomini/ che ci tenevano in braccio…”. E ripropongo
due fondamentali versi di Vittorino Curci a tale riguardo. Ci sono insegnamenti
che vanno al di là del tempo e dello spazio perché continuano ad abitarci
dentro non come sterile abitudine ma come vivificante abito di comportamenti
kantiani (Il cielo stellato su di me, la
legge morale dentro di me). Questo riferimento mi riporta a Vittorino e
alla importante intervista “LA VERITA’ E’ ESSENZIALMENTE POETICA”, rilasciata,
per <Le città delle donne>, alla giornalista Gisella Blanco , la quale
così introduce: “L’arte, a volte, non è
solo una passione, una vocazione o un’indole: talvolta è la materia della vita,
la sostanza del tempo, l’ontologia della personalità. La ricerca della
particella minima ed essenziale che informa le più grandi strutture etiche è
alla base della sopravvivenza di una società in piena crisi convulsiva da
assuefazione alla fretta e alla esacerbazione della individualità,
polarizzazione della scelta, più o meno volontaria, di rinunciare alla
fragilità che ci rende ancora umani”. E non si può non convenire con quanto
la giornalista afferma sull’arte e sulla società contemporanea in funzione di
una prima rapidissima ma puntuale presentazione di Vittorino. E, infatti: “Abbiamo conversato con un intellettuale del
nostro tempo, Vittorino Curci, poeta, scrittore, critico letterario, musicista
e pittore, per conoscere il punto di vista autorevole dell’uomo artista
contemporaneo che attraversa la tortuosa necessaria via del cinismo per
giungere a una nuova infanzia umana, consapevole della propria inclinazione
alla pluralità che la rende adatta alla ferocia del quotidiano”. Anche qui
devo arrendermi all’evidenza. La giornalista ha fatto centro. Vittorino è anche
tutto questo, che la sua artistica poliedricità rivela ed evidenzia. Ed ecco
alcuni fondamentali stralci delle sue risposte alle interessanti domande della
Blanco: “Il ruolo della poesia oggi è lo
stesso di sempre, cioè quello di cercare un punto di vista sul mondo, lontano
da convenzionalismi radicate e automatismi inconcludenti (…) La verità è essenzialmente poetica”. Credo
di poter dire che in molte poesie la “sua” verità, la verità del nostro Autore,
sia pure velata da metafore e dinieghi, emerge come da un abisso insondabile ma,
perciò stesso, ricco di tesori nascosti. E ancora: “Di solito evito di tornare sulle cose che faccio. Cerco di essere
dispersivo perché non sono mai soddisfatto di me stesso. Mi illudo ancora di
poter scrivere una poesia, una sola, che mi rappresenti pienamente. Mi accontenterei
anche di un solo verso. Un solo verso per giustificare tutta la mia vita”. Anche
in queste dichiarazioni estreme, riscopriamo che la poesia si identifica con la
vita, per Vittorino Curci. Ma in esse c’è Rilke; ci sono Ungaretti di Allegria di naufragi e Montale di “Forse
un mattini andando” (“Ma sarà troppo
tardi; e io me n’andrò zitto/ tra gli uomini che non si voltano,/ col mio
segreto). E Dino Campana con i suoi Canti
Orfici. Certo, sono andata a sfociare nel Novecento, mentre qui si parla
del primo ventennio del nostro secolo. Dovrei rivolgermi al grande Franco
Buffoni e ai suoi “Quaderni”, che dagli anni Novanta selezionano i nuovi poeti
per raccontarci meglio la poetica di questo nuovo millennio, ma avrei notevoli difficoltà
nella scelta dei tanti validi poeti giovanissimi che fanno parte della sua
scuderia (rimando al suo libro freschissimo di stampa). Anche partendo da
quegli anni di fine secolo, rimarrebbero comunque fuori tutti quelli nati più o
meno a metà Novecento. Ma mi sembra giusto riportare qui uno stralcio del denso
e imperdibile libro IL TRIANGOLO
IMMAGINARIO (SECOP edizioni 2021), in cui sapientemente egli disquisisce di
poetica: “Da buon allievo <indiretto>
di Luciano Anceschi, non riesco a prescindere dalla sua definizione di poetica
ogni volta che mi capita di riflettere sul fatto di scrivere versi. È l’impasto
di quattro noti elementi - sistemi tecnici, note operative, moralità e ideali -
che nutre e sorregge la poetica di un autore. Che infine è anche il sapore del
pane, l’infanzia, l’odore della terra. È per questo che, pur avendo lavorato
molto sulle lingue straniere, valuto enormemente il lavoro che si fa sul
vernacolo, sul dialetto, su quella lingua che si apprende non a parole, ma a
frasi, a spezzoni di frasi, a brani di vita nei primissimi anni, perché con
essa s’impasta la poetica di un autore. Credo anche che poesia nasca da poesia,
che non esista creazione letteraria assolutamente originale (…) Va sottolineato anche l’aspetto dell’assorbimento
di poetiche precedenti, di autori precedenti. È evidente che se Vittorio Sereni
ha avuto a vent’anni il fascismo e a trenta la Seconda Guerra Mondiale, io a
venti ho avuto il Sessantotto e a trenta il Settantasette; mi sembra che si
tratti di esperienze molto diverse. Quindi, anche se menziono Sereni come autore
con cui è chiaro che ho un apparentamento, le nostre esperienze di vita sono
state così differenti, e i riferimenti storici sono talmente distanti che,
inevitabilmente, comportano una originalità anche nell’autore successore, se
provvisto di uno stile, di un ritmo interno alla scrittura sua propria”. Credo
di poter sottoscrivere, a cuor leggero ma non troppo (nel senso che me ne
assumo la responsabilità), che queste affermazioni vadano nella stessa
direzione di quelle di Vittorino Curci. Non fanno una grinza le une e le altre.
Sono indubbiamente sulla stessa lunghezza d’onda. Anzi mi sentirei di aggiungere
di Buffoni anche questa affermazione: “Il
ritmo è ancestrale: è quel respiro che viene dall’imparare a parlare, dal
battito del cuore materno”. Ecco perché il linguaggio poetico “ricorda l’infanzia dell’uomo e i poeti sono
eterni bambini” (Giancarlo Stoccoro in una intervista a Franco Buffoni, il
quale conferma: “Il ritmo interiore è la
musica più bella e senza melodia, che mi fa mettere le parole a posto
scuotendole e porgendomele all’orecchio come una conchiglia”). Ed ecco un
ritorno inevitabile al nostro Vittorino, che sembra fare eco a Buffoni e a
Keats, amato e studiato, quest’ultimo, profondamente da Buffoni: “Keats diceva che la poesia è musica senza melodia.
Io non faccio che cercare quella musica che, nel respiro dell’universo, è nata
prima di ogni altra musica e vive da sempre nel mito (anche se noi oggi non
abbiamo la più pallida idea di cosa sia un mito). Il mito è una movenza dell’anima
primitiva che precede l’uomo storico, dotato di ragione. Il quale cerca un
ordine perché non può fare a meno di un ordine. Dobbiamo pensare il mito come
qualcosa che si mette a disposizione, che parla evocando, senza cercare
spiegazioni. È un linguaggio che ritorna al fondo sconosciuto da cui è stato
generato. È un modo di vivere e di pensare che noi non conosciamo, è un’esperienza
della parola che ha a che fare con ciò che è originario. Il mito indica
qualcosa che sfugge a ogni interpretazione…”. E qui mi piacerebbe sentire
la voce di una grande giovanissima studiosa dei miti antichi rivisitandoli alla
luce del mondo contemporaneo, la mia dottissima amica Bianca Sorrentino. Solo un brevissimo ricordo del suo primo
saggio sul Mito (Mito classico e poeti
del ‘900, Stilo Editrice 2016), a cui approdò quale vincitrice di un
importante Concorso Letterario in Puglia e che io, in una recensione,
semplificai così: “comincio dalle sue
parole che qui hanno sapore fresco e antico del raccontarsi per raccontare l’importanza
del mito greco-latino e di ogni altro mito che accende di luce la quotidianità
e la trasforma in vivida realtà/irrealtà, avventura/sogno, lama/balsamo per le
ferite che la vita distribuisce agli umani, noncurante di volti e di
costellazioni. Solo il nome rimane per sempre incancellato, nella unicità di
una storia/leggenda che ci riguarda un po’ tutti. Nomi di uomini, certo, ma
anche di animali, oggetti e ricami di stelle nel cielo, attraversati dal Fato,
ora crudele ora generoso, che ha scritto quei nomi nel grande Libro delle
Possibilità. Forse per insegnarci a vivere epifanicamente il quotidiano,
nonostante il quotidiano morire…”. Ma, al di là del Mito, che anche Vittorino
ha così bene definito, mi piace concludere tutto il mio discorso su questo
nostro grande poeta e non solo con le sue conclusive parole sui consigli da
dare ai giovani e giovanissimi poeti dell’ultima generazione: “La prima cosa di cui deve essere consapevole
un poeta è che la poesia non è un fatto personale. Voglio dire il linguaggio va
sempre incontro a qualcuno. Un poeta, inoltre, deve provare un vero interesse
per la vita degli altri. E poi, sì, deve leggere, deve leggere molto, anzi, più
che leggere, deve studiare. Sono due cose diverse, leggere e studiare. Studiare
significa concedersi tutto il tempo necessario per fare le cose. Significa riflettere,
collegare, distinguere, approfondire, fermarsi, rileggere. È un lavoro che non
finisce mai. Ma forse il miglior consiglio che potrei dare a chi desidera
scrivere poesie è lo stesso che dava Charlie Parker ai giovani musicisti: “Studiate
tutto quello che potete sulla musica e sul vostro strumento. Poi andate sul palco,
dimenticate tutto e suonate”. In tutto ciò - sembrerà strano - la parte più
difficile è dimenticare. Ma è lì, nella meraviglia di quel vuoto, che inizia il
vero processo creativo”. E noi gli crediamo! Mi rimane ancora lo spazio per
tre riflessioni: 1) mi piace molto la poesia dei giovani e giovanissimi autori,
ma forse perché figli di questo secolo, che Miguel Benasayag e Gérard Schmit
hanno definito “delle passioni tristi” (cfr. M. Benasayag- G. Schmit, L’epoca selle passioni tristi,
Universale Economica Feltrinelli, Milano 2014), scrivono versi molto amari,
disincantati, delusi. Di un nichilismo nietzschiano (ripreso da Umberto
Galimberti nel suo L’ospite inquietante
di alcuni anni fa), che mi sgomenta e mi spinge a lottare per loro. 2) Occorre
rispolverare la speranza riportandoci ai valori di sempre attraverso un
percorso di “coscientizzazione” degli adulti perché possano imparare ad “ascoltare”
i giovani per conoscerli meglio e capirli di più. 3) La poesia può aiutarci a
venire fuori dalla desertificazione dei sentimenti alla luce di quanto detto
sin qui.
Infine, tutti i vostri commenti, le vostre poesie, le vostre
riflessioni saranno i contenuti delle prossime pagine sul “nostro” blog. Alla prossima.
Ciao
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