Babbo, da alcuni anni maresciallo maggiore, appena giunti nel nuovo paese, mi disse che la pacchia era finita, che ero la figlia del comandante della stazione dei carabinieri e dovevo comportarmi di conseguenza. Niente amicizie, niente passeggiate, niente ribellioni a qualsiasi adulto, a qualsiasi autorità. Solo doveri: aiutare mamma in casa, e studiare per andare bene a scuola perché lui non dovesse vergognarsi dello scarso rendimento di sua figlia con il preside e i professori. Pregò il segretario di iscrivermi alla classe femminile, ma per un casuale errore di segreteria fui destinata ad una classe mista, dove c’erano quattro sparuti ragazzi tra cui Primo. Anche lui reduce da vicissitudini personali di ribellione in un liceo scientifico, che aveva soffocato la sua creatività, e in esilio forzato come me. Fu così che, dopo essere stata per oltre un anno agli arresti domiciliari, in totale clausura e altrettanta disperazione, lasciai che il mio cuore si avventurasse nei pressi degli occhi teneri e ironici di Primo e vi mettesse radici. Era, tra i quattro, il più intelligente, il più bravo, il più sfrontato. Il bel tenebroso con fulminee battute al vetriolo e al miele. Il ragazzo brillante che persino i professori temevano per le sue risposte rapide e spesso irriverenti
(leone che io ti
conosco so tutto di te ti posso rovinare quando voglio… professore anch’io so
molte cose di lei e posso rovinarle la carriera e la vita più di quanto lei
possa fare con me… che vuoi dire? maleducato!... quello che ho detto e anche
lei sa benissimo a cosa mi riferisco… va bene leone come non detto facciamo
finta di non conoscerci noi due…)
In realtà, nel nuovo paese incontrai una
solitudine di caserma, grande, fredda, grigia, ma nella nuova scuola “che
sapeva di mare” incontrai l’amore e la poesia. E fu subito magia. Ma fu
anche l’incontro con un preside poeta a regalarmi il sogno di poter realizzare
i miei sogni, nonostante le catene.
Non passò molto tempo che, come erba tenera e papaveri in fiore, nello
sconfinato prato della mia testa-cuore-anima, cominciai a coltivare il
“pensiero unico”: il mio amore per quel ragazzo tanto diverso dagli altri, più
basso di statura, ma dominante su tutti per genialità. E, fosse stato per me,
non avrei scelto altro che lui, lui e soltanto lui. (…)
L’anno seguente ci fu anche la conclusione
eroicomica del mio forzato esilio, con gli Esami di Stato, da me affrontati
neghittosamente, e il fuoco d’artificio nelle materie umanistiche e gli
inevitabili colpi a vuoto della mia impreparazione in tutte le altre materie, ma
con risultati insperati e lusinghieri, dopo i primi due anni che, come avevo
previsto, non furono niente affatto facili per me. Prima di partire avevo
fatto un sogno molto strano: Ero in riva al mare. Stavo cominciando a
sfidare le onde, quando una voce maschile mi fermava sollecitandomi a guardare
il muro d’acqua altissimo che si ergeva davanti a me. “Basta un soffio di
vento”, diceva la voce, “per fartelo crollare addosso e travolgerti”. Mi giravo
di colpo e tentavo disperatamente di correre per raggiungere la riva e
allontanarmi dalla spiaggia, ma non riuscivo a muovermi. Avevo le gambe
inchiodate alle onde che mi sembravano di pietra. Alle spalle il muro
grigiastro, minaccioso, terrificante. Ad un tratto, mi sentivo sollevare e
strappare a quel mare solido e pesante come una roccia fino a lasciarmi sulla
riva. “Ci sono qua io”, mi mormorava la voce, ancora la voce, in un sussurro.
In quel frastuono d’acque e di vento non mi era stata chiara la voce di mio
nonno, ma quelle parole mi riportarono a lui: era sicuramente lui ed era un
avviso di pericolo. (Solo un anno fa, pubblicando una mia nuova raccolta di
poesie, ho ricevuto in dono da una nota pittrice, nata dalle nostre parti ma
famosa a livello internazionale, la possibilità di usare, come immagine di
copertina, un suo dipinto meraviglioso, con una fanciulla piegata e assorta su
un lembo di mare che somiglia a una pietra. Quella fanciulla e quel mare quasi solido mi
hanno riportato alla mente le pietrificate onde di quel sogno lontano in un
presagio di nuovi passi da sradicare da quelle rive perdute eppure desiderate).
Dopo quel sogno/incubo, partii con il timore
di ripercorrere con babbo giorni difficili di incomprensioni e di paure e di
attraversare vuoti di tempo di tenere complicità senza il mio adorato papà, e
mi spaventava anche scoprire, in varie sequenze oniriche ricorrenti, di avere
le gambe spezzate che mi impedivano di camminare (spəzzàtə də gàmmə appìrsə a mè… con le
gambe spezzate accanto a me… nel ricorrente anatema
tutto bitontino, la voce della nonna a rincorrermi in un’angoscia senza
fine…)
Il primo anno fu davvero avvilente. Niente
amiche, niente passeggiate, niente sogni. Quando Lizia venne a trovarmi con i
nonni a Natale, si rese conto che ero infelice. Uscimmo insieme e ci
allontanammo verso il lungomare, dove singhiozzammo in due: io, per la mia
prigionia; lei, per lo scoramento nel vedermi così provata.
Avrei trascorso quasi l’intero anno scolastico in quella solitudine, se
non avessi avuto una crisi di nervi una sera in cui sapevo che i miei compagni
di classe si sarebbero incontrati per andare a ballare. Ero stanca anche perché
nell’ultimo mese mamma non era stata bene, avendo avuto per la prima volta i
prodromi della menopausa con mestruazioni così abbondanti e prolungate nel
tempo da indebolirla molto, per cui mi ero dovuta sostituire a lei nella cura
dei più piccoli e della casa. Non
avevamo più la cameriera perché ora le ragazzine, come già evidenziato per il
Salento, quasi dappertutto nel nostro lento Sud, piuttosto che “andare a
servizio”, preferivano il lavoro di operaie nei diversi stabilimenti di
conserve, abbigliamento, articoli per la casa, che stavano fiorendo come funghi
dopo la prolungata pioggia.
Cominciai a piangere, a battere la testa contro il muro e ad accusare
mamma di non aver contrastato minimamente suo marito nel Diktat di non farmi
uscire oltre le ore di scuola.
L’accusai di lamentarsi sempre e di non darmi così neppure la
possibilità, durante le vacanze di Pasqua, di tornare nella casa del gelso e
delle rose, per respirare aria d’amore e di libertà.
L’accusai di essere ormai la mia carceriera e la mia nemica.
L’accusai di essere debole, senza spina dorsale, di accontentare sempre e
comunque suo marito.
L’accusai di non conoscermi affatto e di non capirmi minimamente
altrimenti si sarebbe opposta a farmi frequentare l’Istituto Magistrale; si
sarebbe opposta a mandarmi dalle suore; si sarebbe opposta a farmi tornare con loro
strappandomi ai nonni, alle mie amiche, ai miei amici, a tutte le cose care che
ora mi mancavano.
L’accusai di non tenerci affatto alla mia felicità.
L’accusai di essere insensibile e di pensare solo a sé stessa.
L’accusai.
Non capirsi è terribile -
Non capirsi e abbracciarsi,
benché sembri strano,
è altrettanto terribile
capirsi totalmente.
In un modo o nell’altro ci feriamo.
Ed io, precocemente illuminato,
la tenera tua anima non voglio
mortificare con l’incomprensione,
né con la comprensione uccidere.
(Evgenij Evtusenko,
“Non capirsi”,
Poesie d’amore, Newton Compton, Roma
1986, trad. it. E. Pascucci)
Mamma si spaventò di fronte alla mia veemenza, alle
mie lacrime e alle mie accuse. Si affacciò al balcone per cercare lungo il
corso che serpeggiava ai nostri piedi qualche mia compagna di classe con cui
farmi uscire e la sentii veramente disperata quanto me o forse anche di più. Le
gridai dietro senza provare rimorso: “Cosa fai? Lo vuoi capire che non ho
amiche io? Che mi avete spezzato le ali e condannato alla solitudine?”.
Pallidissima e distrutta, nonostante non stesse per niente bene, mamma si vestì
e mi costrinse ad uscire con lei, pregando Anna Maria di badare agli altri.
Lungo il corso non scambiammo neppure una parola né eravamo in grado di farlo
né di vedere la gente che ci sfiorava, chiuse come eravamo nel nostro comune e
individuale dolore. Ce ne tornammo a casa. Anche mamma scoppiò in lacrime e per
la prima volta si rese conto della mia infelicità. Io della sua. Mi sentii un
verme. Ci riconciliammo con un abbraccio intriso di pianto. Sentendoci ferite
entrambe ed entrambe assolte. (Avrei
rivissuto anch’io quelle terribili accuse di incomprensioni molto più tardi con
le mie giovani figlie, ritornando indietro nel tempo e rivivendo le inevitabili
tensioni che anche in un rapporto di amore oblativo si sedimentano ed
esplodono, incapaci come siamo di farci carico delle motivazioni e delle
reazioni delle persone più care, che avvertono maggiormente le ferite
dell’incomprensione e delle attese disattese. Con i maschi tutto questo perlopiù non
avviene perché raramente hanno la capacità tutta femminile della introspezione,
di viaggiare dentro di sé e nella psiche degli altri, fosse pure della madre.
E, per fortuna, con il figlio certe lacerazioni difficilmente accadono. Ci sono
magari chiusure, distacchi, ma non devastanti squarci e strappi feroci nella
delicata seta dei percorsi dell’anima femminile. Tu forse hai sempre ignorato
questa pagina infelice della mia storia con mamma e della mia storia con le mie
figlie. Sono pagine che non si vorrebbero mai scrivere, ma la vita è crudele
anche nei rapporti più profondi e veri. Anzi, proprio in quelli. Perché ci
toccano più da vicino e ci fanno più male. Ma poi, per fortuna, si ricompongono.
Bastano uno sguardo, un sorriso, due braccia ad accoglierci con amore).
Da quel giorno della mia
ribellione, comunque, mamma ottenne da babbo il permesso che sarei potuta
andare al cinema non soltanto con loro ma anche con Anna Maria, che da quel
momento in poi divenne la mia ombra. E in classe c’era anche Primo che mi faceva ridere.
Cominciò, pian piano, col passare dei mesi, a corteggiarmi alla sua maniera:
petali di rose (strappate dalle piante che costeggiavano l’ingresso aperto al
sorriso del mare o al suo brontolio di onde alte e rabbiose), con i mille ti
amo infilati nei cappucci delle penne che volavano sui banchi; frasi d’amore
scritte col gesso ai bordi della cattedra, mentre veniva interrogato,
suscitando un brusio divertito da parte dei compagni e rimproveri quotidiani da
parte dei professori, a cui lui rispondeva sempre per le rime. Fu un amore nato
tra i banchi di scuola e destinato forse a rimanere tale, se non fosse stato
contrastato fin dal suo nascere, e se non fosse stato per il nostro
appuntamento quotidiano nei vari cinema di quel ridente paese cullato dal mare.
A
scuola il preside, che era anche un poeta ed era un capo d’Istituto giovane e
abbastanza severo, aveva atteggiamenti di grande comprensione verso il mondo
dei giovani.
Intanto,
insieme a un gruppetto di altri arditi come noi, rivoluzionammo la classe,
cominciando anche a scrivere un giornalino scolastico, dove proprio noi due ci
assegnammo il compito di redigere le pagine più importanti: la critica
letteraria e di costume, la poesia dei grandi e le nostre poesie, i racconti
degli autori famosi e i nostri racconti, le parodie. Ma il nostro “diario di
bordo” finì miseramente i suoi giorni, strangolato dalla mia presunzione,
superficialità e ingenuità. Scrivevo parodie irriverenti sui nostri professori
e quasi tutti gli “attaccati” ridevano di buon grado soprattutto quando si
trattava dei miei strali contro i colleghi. E tutti mi dettero il loro consenso
quando criticai una professoressa in modo feroce da farle prendere un colpo
alla lettura dei versi incriminati che la riguardavano. Svenne e dovettero
ricoverarla in ospedale. Successe il finimondo in tutta la scuola. Venne fuori
il mio nome. Fui chiamata dal preside che si disse costretto a “buttare a mare”
il nostro giornalino perché “rischiavamo il naufragio” per mancanza di maturità
e giudizio. Io, rammaricata e piena di rimorsi, mi assunsi ogni responsabilità
e promisi a me stessa che mai più avrei usato le parole per ferire qualcuno. E,
ancor di più sentii valida dentro di me quella promessa quando, molti anni più
tardi, seppi della morte per infarto della professoressa così tanto provata dai
miei incoscienti versi a lei rivolti. Ancora oggi mantengo quella lontana ma
salutare regola di comunicazione verso gli altri. (Mai usare la parola come
spada. Può davvero uccidere! Ma quanti se ne rendono conto, oggi, in questa
nostra società violenta, volgare, respingente?). Le mie dis-avventure
scolastiche nascevano dalla mia natura ribelle, ma anche paradossalmente da una
buona dose di ingenuità. Ma poi, in qualche modo, ho imparato ad essere più
accorta e cauta. E così, anche oggi, piuttosto che rischiare, taccio. Allora,
eravamo in due, io e Primo, ad anticipare di un decennio (si fa per dire!) il
Sessantotto ed era inevitabile che c’incontrassimo sul filo della creatività,
della incoscienza e della nobile aspirazione all’utopia e alla libertà.
Acrobati noi delle parole coraggiose e folli nei numerosi percorsi alternativi.
Decisamente diversi eppure tanto uguali. Ormai guardavamo il mondo con occhi
innamorati. E nella stessa direzione. Anche se con personalità completamente
diverse e, in qualche modo, incompatibili.
Il primo ad accorgersi
del nostro amore fu proprio il preside che, dopo una “visita di istruzione” nel
territorio dauno, scoprì tra le fotografie delle classi in gita alcune nostre
foto in cui avevamo fermato il tempo tra le nostre mani intrecciate sul nostro
pasticciato sogno di essere in due. Ci chiamò in presidenza e, invece di
rimproverarci come ci aspettavamo, ci sorrise chiedendoci: “È una cosa seria?”.
Intuii allora la tenerezza del suo cuore. Sì, un poeta che aveva sposato una
donna più anziana di lui, amandola più della sua stessa poesia. Scoprii tutto
questo alcuni mesi dopo quando, agli Esami di Stato, seppe che avevo scritto un
tema di quattro fogli di protocollo fittissimi (suscitando l’allarmata
perplessità della Commissione) sui versi de “La signora Lalla” di Marino
Moretti
(“Quando l’anima è stanca e troppo
sola/ e il cuore non basta a farle compagnia/ si tornerebbe discoli per via,/
si tornerebbe scolaretti a scuola.// Ma sì prendiamo la cartella scura,/ il
calamaio in forma di barchetta,/ i pennini, la gomma e la cannetta,/ e la
storia sacra e il libro di lettura…).
Se ne fece un gran
parlare dentro e fuori la scuola. Lui mi chiamò in presidenza e mi disse che,
se avessi avuto bisogno di approfondire altri autori non contemplati nel
programma d’esame, mi avrebbe prestato volentieri alcuni suoi libri perché li
leggessi durante l’estate per scoprire la ricchezza della letteratura
contemporanea che la scuola purtroppo ancora ignorava. Non li
avrei neppure aperti, ne ero sicura, presa com’ero dalle magiche scoperte
dell’amore e dalla mia perseverante scarsa voglia di studiare persino per gli
imminenti esami orali, ma accettai ugualmente la sua proposta, curiosa di
vedere la sua casa e di conoscere sua moglie ed eventuali figli. In realtà, poi
quei libri li divorai perché mi dischiusero orizzonti più ampi di poesia che
ignoravo. Andai con Primo a casa sua in una stradina che dal corso portava al
mare, Arco Boccolicchio, oggi famosa proprio per alcuni suoi bellissimi
rammemoranti versi. Fu allora che ci presentò sua moglie e ci parlò di lei con parole
molto tenere. Rimasi incantata. Non parlò affatto delle sue poesie. Come se
volesse fermare il tempo su di lei. E rimanere in secondo piano. Lui, annullato
in lei. Andammo altre volte a casa sua, invitati anche dalla signora Delia,
sempre molto accogliente e affabile. A due passi, il rumore del mare fu
dolcissima o impetuosa musica di sottofondo alle nostre vivaci e sorridenti
chiacchierate. Siamo stati fortunati io e Primo ad averlo frequentato per un
paio d’anni, ma non ci venne mai in mente di chiedere dei suoi versi o di
fargli leggere i nostri. Era, tra l’altro, uno studioso della cultura dauna e
della identità etnica di un popolo sempre dimidiato tra l’attaccamento alla
terra e alla civiltà occidentale e la libertà del mare verso l’Oriente magico,
mitico e fantastico. Con Federico II e re Manfredi a sintetizzare perfettamente
questi due mondi. Molti suoi saggi lo attestano. Allora, però, era solo il
nostro preside con un’apertura culturale e mentale diversa da quella degli
altri dirigenti scolastici.
E anche per oggi mi fermo qui. A domani forse o a dopodomani. Intanto,
se avete testi in prosa o in poesia sui diritti della Donna scriveteli su FB o
Messenger perché io possa recuperarli per tempo. Grazie. Angela/Lina
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