E riprendo a raccontare gli anni delle mie ribellioni distoniche che fecero da collante tra quella che ero agli albori della mia prima giovinezza e quella che via via sono diventata nel tempo fino ai nostri giorni. E mi assalgono i ricordi che si venano inevitabilmente di nostalgia: <La favola sempre attesa e mai finita che il nonno raccontava nelle sere colme di stelle e d’ingenuità? La risata lunga e soffocata di mia nonna sospesa, sempre, all’eco dello stupore che il suo vecchio le dava col suo cuore di ragazzo. Il cortile, le rose i gatti i sogni? Non un filo, dunque, una trama labirintica di percorsi a riportarmi alle radici. La mia terra d’ulivi e di preghiere. (Lina, su svegliati, si va in campagna, ti porto a vedere le olive, sono grosse così…, questa è un’annata buona. Sul carro gli occhi addormentati hanno rami d’ulivi nel groviglio del cielo dell’alba. Fantastico storie di lune e di licantropi. Rabbrividisco. La paura ha il sapore dell’avventura. Gli ulivi sono fantasmi di contadini piegati dalla fatica. Corpi nodosi di dolore. Un sottile piacere d’essere viva tra gli alberi stempera la paura. Mi rassicura la favola lunga del nonno «sette scarpe di ferro ho consumato. . . »). Sento i piedi gonfi per la notte trascorsa in treno. Aggiusto il tiro: «Sette paia di scarpe ho consumato / di tutto ferro per te ritrovare». Ma questo l’ho imparato a scuola. La voce del nonno si fa fioca e lontana, si mescola alla voce della professoressa che recita Carducci e la favola finisce. Mi piacciono gli errori del mio vecchio, non la perfezione della scuola. Amo i miei nonni visceralmente: sono vissuta con loro fino alla prima giovinezza. (Abbasso la scuola: - Questa ragazza spreca la sua intelligenza. Non ha un briciolo di volontà e sì che potrebbe fare molto, potrebbe essere la prima della classe. - Perché, figlia mia, non studi? Cosa dobbiamo dire a tuo padre? Vedi tua sorella? Non ci dà preoccupazioni, anzi! E tu? Se riuscirai a prenderti un pezzo di carta, dovrai dire grazie a tua nonna…)>.
La
società era in rapido movimento. Tutto veniva cambiato, rinnovato, scoperto.
Sostituito. Senza rimpianti, ma con una energia nuova e quasi frenetica per
lasciare il passato al passato. La scuola, perno fondamentale di questo
cambiamento, divenne “di massa” e subito si verificò la “mortalità scolastica”
dei più diseredati che non conoscevano una sola parola di italiano e in classe
si parlava solo quello. Ben presto divennero “stranieri in patria”, come li
definì don Lorenzo Milani che comprese il loro dramma di perenni bocciati e si
premurò di insegnargli soprattutto la lingua, “passaporto” per ogni altro
apprendimento. Ma, alla buona volontà di pochi si oppose la rigidità di molti
insegnanti che pretendevano di insegnare ancora alla vecchia maniera e di
bocciare chi non seguiva il programma ministeriale, valido da Nord a Sud per le
amorfe scolaresche e comunità scolastiche in cui il singolo si perdeva
completamente nella indistinta scolaresca o classe. Fino al Sessantotto, che
spazzò via ogni tradizionalismo e inaugurò il “sei politico” per tutti, dalla
scuola dell’obbligo all’università. E fu così che paradossalmente la scuola di
massa non elevò i diseredati ad una cultura superiore, ma livellò verso il
basso l’istruzione con le conseguenze di un analfabetismo culturale che ancora
oggi ci fa pagare il prezzo di certe scelte avventate e solo apparentemente più
democratiche. La democrazia aveva ancora un lungo cammino da percorrere in
salita. E non bastò neppure inserire e poi integrare i portatori di handicap
nelle classi normali e nelle scuole di ogni ordine e grado.
<Tu
sospiravi e sostenevi che stavano meglio prima gli scemi e gli storpiati a cui
l’intero paese voleva bene e che accettava così come erano senza che venissero
umiliati perché non capivano e non imparavano.
Si sapeva che non capivano e basta. “Come il ciuccio che non può
diventare cavallo”… (E, infatti, mio caro papà, ancora oggi si combatte una
dura battaglia per far rispettare nella scuola e nella società i loro diritti
faticosamente conquistati: gli insegnanti di sostegno devono armarsi di
coraggio per rimanere in classe con tutti gli alunni e allievi da coinvolgere
in un processo di apprendimento che non esclude quelli che incontrano maggiori
difficoltà nell’imparare e nel realizzarsi, perché devono scoprire innanzitutto
come valorizzare le personali aree intellettive, motorie e sensoriali rimaste
intatte. Ma è discorso molto lungo da affrontare, certamente non in questo
libro). Non so perché mi attardo a parlarti di questi problemi, papà, ben
sapendo che non facevano parte delle tue conoscenze dirette, ma ritengo che
siano anche queste confidenze necessarie per raccontarti i passaggi epocali
della mia vita e della società vissuti con te e dopo di te, in un processo di
trasformazione individuale e collettiva non sempre vissuta come progresso ed
evoluzione. E ora mi sembra persino più facile parlartene. Ora che tutto ti è
chiaro e che potrei persino fare a meno della mediazione delle mie parole. Ma
io, come te, non riesco proprio a liberarmi dalla necessità di raccontare. Come
non dirti dei miei personali mutamenti, man mano che crescevo, dei miei
interessi e delle mie passioni? Nel campo letterario, per esempio, da me quasi
ignorato fino a qualche anno prima, presi piano piano coscienza dei nuovi
gruppi di scrittori e poeti che, negli anni della mia adolescenza, andavano
completando ciò che Marinetti e i futuristi avevano cominciato a smantellare
nella nostra lingua e letteratura ai primi del secolo, rivoluzionando sempre
più la tradizione, i vecchi schemi e costrutti linguistici. Ora c’erano le “neoavanguardie”
con il Gruppo 63, nato proprio in quegli anni a Palermo. Quanto avveniva, poi,
oltreoceano cominciò a sorprenderci e a scandalizzarci. Scoprimmo finalmente
anche la Beat Generation. In Europa
esplodeva la letteratura mittleuropea che coinvolgeva anche l’Italia e, in
particolar modo quella del Nord. Nuovi fermenti culturali, perciò, cominciarono
a catturarci, mentre anche il nostro paese di provincia si stava risvegliando
piano piano grazie alla nuova generazione, più istruita e più colta di quella
di voi nonni e dei nostri padri. Tu non seguivi questa rivoluzione culturale
che ti vide estraneo anche se sempre appassionato di sapere. Le tue conoscenze
si fermavano ai fatti di cronaca e ai dibattiti politici della DC e del PCI con
uomini della statura di Alcide De Gasperi e Palmito Togliatti; ma anche degli
altri partiti: Pietro Nenni (PSI) e Saragat (PSDI), Giorgio Almirante (MSI) e
La Malfa (PRI) e Malagodi (PLI), di cui discutevi soprattutto con tuo nipote
Pasquale, che era impegnato politicamente nella DC, filiazione del Partito
Popolare di Don Luigi Sturzo, e via via capeggiata da De Gasperi, Moro, Andreotti,
Fanfani, e tanti altri. (Tuo nipote, parecchi anni dopo, sarebbe diventato
anche consigliere comunale o assessore, non ricordo bene e tu tenevi in grande
considerazione il suo parere in fatto di politica. E, del resto, si trattava di
grandi statisti, su cui ti piaceva confrontarti con gli uomini che
frequentavano la nostra casa). Le donne
ignoravano completamente questa realtà così importante per il nostro Paese. La politica era un argomento o un impegno
per soli uomini. A me, di tanto in tanto, quando mi capitava di orecchiare
qualche dibattito fra i leader dei vari partiti, piaceva ascoltare Trombadori,
Almirante e Malagodi non perché condividessi le loro idee, di cui neppure
sapevo granché, ma perché erano dei grandi affabulatori. Mi incantavano, pur
contestandoli in maniera acritica e superficiale. Trombadori e Malagodi pare
fossero anche poeti. Era questo che mi intrigava. Ma i miei interessi, in
quegli anni della mia adolescenza e prima giovinezza, nella nostra casa e anche
altrove, furono larvatamente letterari, musicali, televisivi, cinematografici.
Interessi, di cui raramente facevo parola con te, men che mai con la nonna
perché non rientravano nella vostra quotidianità. Sempre più mi appassionai,
alla mia maniera, frammentaria e superficiale, a scoprire nuovi modi di
scrivere degli autori italiani e stranieri e mi accorsi che le neoavanguardie
non mi emozionavano e gli sperimentalismi di quegli anni mi lasciavano
indifferente, anche se mi piaceva molto giocare con le rime, le assonanze, le
combinazioni di termini diversi che, però, dovevano sempre dare un senso alle
storie o alle poesie lette e a quelle da me inventate e scritte. Io e Lizia
facevamo ormai, anche in fatto di letture, scelte diverse. Lei preferiva i
classici o la saggistica. Io mi avventuravo in terreni meno battuti. Entrambe,
però, eravamo anche appassionate di musica lirica, che tu ci avevi insegnato ad
apprezzare. E ci piaceva l’operetta, il teatro, il cinema. Conoscevamo a
memoria molte opere di Verdi, Rossini, Puccini, Donizetti. I libretti di
Francesco Maria Piave. Io cantavo molte arie de La Traviata, La
Norma, Il Rigoletto, La Turandot, La Tosca,
La Bohème, Madame Butterfly, L’elisir d’amore, e
anche de La vedova allegra, Il paese dei campanelli, Salomè. Ma gli acuti continuavo a strozzarli tutti in
gola. Non sarei mai diventata un soprano>.
Ora,
però, sto divagando, mentre voglio fare nuovamente un salto indietro per
rituffarmi con te nella foce a delta dei nostri anni Cinquanta, quando in
quella casa di via Generale Montemar tutto aveva ancora sapore di antico con
alcuni squarci di novità.
<Inevitabilmente,
intanto, Lizia e io diventavamo sempre più due mondi paralleli con rari momenti
d’incontro. Lei ormai aveva amici e amiche che frequentavano il Liceo; io
quelli di sempre e le nuove compagne del Magistrale. Studi diversi. Interessi
diversi. Passeggiate diverse. Ma più o meno stesse feste. Stessi film. Stessi
libri di lettura che andavamo a comprare insieme da tempo immemorabile ormai
nell’unica cartolibreria del paese, gestita da due persone note e particolari,
forse fratelli o forse marito e moglie, non ricordo più: lui, leggermente
claudicante, era sempre sorridente con noi e ci indicava le novità; lei,
gioviale e attenta, ci riassumeva le trame dei romanzi che riteneva più
avvincenti per invogliarci a comprarli. Era una vera libraia, come raramente
oggi mi capita di incontrare. E noi spendevamo tutti i nostri averi in fumetti,
libri e riviste e non mancavamo mai di comprare <Grand Hotel> per te e la
nonna e <Sorrisi e Canzoni> per noi, per leggere i programmi da seguire
per radio o televisione. In quella libreria “Garofalo” in via Mercanti eravamo
di casa ormai ed eravamo sempre accolte con grandi sorrisi in un’atmosfera di
quasi familiare complicità. (Mi è dispiaciuto tanto, molti anni dopo,
scontrarmi con la sua porta chiusa “sormontata” ancora dall’irriducibile
insegna “CARTOLIBRERIA”. Altro tassello della mia adolescenza e prima
giovinezza che si è sgretolato sotto il maglio del tempo). Allora, però,
giunse presto anche il tempo di andare in esilio, sotto la stretta sorveglianza
di babbo che da buon militare dettò subito le regole di caserma. E la caserma
si trasformò immediatamente in galera, nonostante la mia buona volontà di
evitare punizioni. Ma non era questione di reati e di pene. Era questione di
princìpi. Ero una reclusa e basta. Con permesso di ore di aria da trascorrere
esclusivamente a scuola. Passai così dalla libertà del tuo cortile alla
prigione di un paese che aveva una tenerezza d’azzurro e di grano dorato tra la
culla del suo sconfinato mare e la preghiera in verticale di quei monti, che
sapevano di miracoli.
Accadde il 1958 che io andassi via con babbo e mamma per continuare gli studi in una scuola statale. Ma prima avrei vissuto quel 1956, che fu per me un anno magico e triste per via di quegli esami di terza media così devastanti per il mio ego e per i romantici primi batticuori, in quell’anno di neve e di fiaba. (…). Anno dei primi televisori in bella mostra lungo il corso cittadino e del mio stupore nel vederli accesi su grandi prati e sparute pecorelle a brucare l’erba. Meraviglia delle meraviglie! Anno che mi vide iscritta, mio malgrado, dalle suore per frequentare l’lstituto Magistrale dopo quella deludente, e per molti aspetti feroce, prova degli esami di passaggio alla scuola superiore. “Sì sciótə a fərnèscə arrèjtə chə chìrə càpə də pézzə fìgghia mè…”) (“Sei di nuovo tornata a frequentare un convento di suore figlia mia…”). In apparenza, non me la presi più di tanto per la scelta non mia. Non amavo studiare e questo era un dato di fatto. In realtà, non ero contenta della scuola che sarei stata costretta a frequentare soprattutto perché retta dalle suore e naturalmente tutta al femminile. In compenso, noi sfilavamo, ogni giorno, come fiume in piena fra argini di ragazzi che venivano a scortarci, dimentichi delle loro compagne di classe, più vicine e, perciò, più abbordabili e meno appetibili. Si sa, “l’erba del vicino è sempre più verde!”. Nell’Istituto Magistrale, ubicato in un convento di suore, appunto, conobbi una nuova realtà e nuovi insegnanti, quasi tutti giovani. La preside era anche la chiacchierata superiora del convento. Alcune suore novizie frequentavano la scuola con noi nelle stesse classi. Io continuai, per dispetto e disaffezione, a non studiare, a non mettere gli occhiali, a litigare con il professore di matematica, a prendere buoni voti solo in italiano, a scrivere poesie e racconti, a leggere i miei autori preferiti, ad innamorarmi di trapezisti e giocolieri, a seguire Sanremo ora anche per televisione, i programmi a quiz, gli sceneggiati, i varietà, i film d’amore, le mille chiacchiere con le amiche, le fanfaronate con gli amici. A cantare. Tu, alcune volte, quando litigavo con la nonna e subito dopo mi mettevo a cantare a squarciagola, dicevi ridendo: “l’uccellino di gabbia non canta per amore canta per rabbia”. Furono due anni di tira a campare, senza lode né infamia. Bene nelle materie umanistiche, male in quelle scientifiche. Litigi col professore di matematica che ci ripeteva che nessuno di noi era in gamba come i suoi figli, che erano bravissimi a scuola perché intelligentissimi e studiosi. Ed io rintuzzavo dentro di me la battuta ricorrente a quei tempi: “Sai qual è il colmo per un professore di matematica? Avere un animo retto, un cervello acuto e un figlio ottuso”. Mio malgrado, neanche quella soddisfazione mi potevo prendere. I suoi figli erano, del resto, veramente bravi! E oggi un suo nipote è diventato mio nipote acquisito. Bravissimo ragazzo pure lui. Il mondo è piccolo e tutto può accadere nella vita. Mai dire mai. Banalmente, ma dobbiamo arrenderci a questa evidenza. Oggi più che mai nel nostro “villaggio globale”. E, così, furono altri due anni di studio zero. Amiche tante. Tantissima superficialità. Sogni sogni sogni. Perlopiù ad occhi aperti. (…). Tu e la nonna eravate ora seriamente preoccupati. Sempre più preoccupati. Sentivate la responsabilità di una ragazzina esuberante e ribelle che mal si adattava alla disciplina scolastica, alle regole della famiglia, alle convenzioni sociali. La casa in via Generale Montemar fu così la mia allegria e la mia dannazione. Era, come tu eri solito dire, “la casa del buon Gesù, chi entra non esce più”. Lo dicevi con un pizzico di compiacimento. La saracinesca sempre aperta permetteva a chiunque di entrare nel cortile per fare quattro chiacchiere con la nonna e spesso capitava che si parlasse di me: - della mia scarsa voglia di studiare (nàn vòulə fəcàzzə!...) (non ha amore per lo studio!) (Traduzione in dialetto di quanto i professori, nei rarissimi incontri di fine trimestre con babbo, gli dicevano: “intelligente, ma svogliata. Potrebbe fare molto di più ma non ne vuole sapere…). - delle mie impennate contro i loro pettegolezzi (non m’importa un tubo di ciò che dice la gente… chi è la gente? si preoccupa di sapere come sto la gente? se sono viva o morta, se ho bisogno di qualcosa, se mi manca mia madre?) (…). La nonna ascoltava ascoltava ascoltava sempre più cupa in volto con la voglia di farmi passare la voglia di commettere tante imprudenze, in un paese che aveva cento occhi e mille bocche, a suon di bastonate con il manico della scopa, con cui mi rincorreva senza prendermi mai. Tu t’innervosivi nell’ascoltare quei pettegolezzi senza fondamento e canzonavi le maldicenti con il solito ritornello che le metteva alla berlina e che loro ignoravano perché non avevano l’acume necessario per capire che ne erano le destinatarie (e sémbə da càpə e nu pəgghiàmə e sémbə da càpə e nu pəgghiàmə…) (e continuiamo a ripetere sempre la stessa cosa…).
Anch’io, però, ero stanca di tante inutili dicerie, di tanta ottusa e ipocrita maldicenza, di quel perbenismo bigotto che mi stava sempre più stretto, facendomi allontanare anche dalla chiesa e dalle “bizzoche” che la frequentavano. Le chiamavo ironicamente “le pie donne” e mi stavano cordialmente “sulla bocca del piloro”. Anche se, per alcune (la signorina Lucia R., laureata in Lettere e Presidente dell’Azione Cattolica, elegante, delicata, moderatamente severa, ma anche sorridente, con la sorella più giovane, Pasqualina, cara amica di Lizia e poi anche mia; la sua aiutante e amica Nina P., colta, ironica, divertente, poi diventata zia acquisita di Raffaella, mia figlia; le tre affettuose e dolci sorelle M., la più giovane delle quali, Damiana, morì giovanissima di diabete, se non ricordo male) nutrivo ammirazione e affetto. Erano più aperte e vicine a noi adolescenti. Fiorivo alla vita nella maniera più candida possibile, farfalla luminosa con ali di gioia e di spensieratezza, che altri volevano tarparmi a tutti i costi con i macigni delle loro maligne supposizioni. Io non ci stavo a farmi seppellire dalle loro pietre. Ero già frantumata dentro per l’esito degli esami che aveva distrutto ogni mia sicurezza e velleità, e il mio fiducioso abbandono alla tua comprensione. Rimanevo, perciò, nonostante la mia incoscienza, turbata e ferita. (…). Poi, dopo quell’ultima estate nel Salento, trascorsa come sempre con mamma e babbo e i piccoli, partii nuovamente con loro in esilio. Avevano deciso che avrei frequentato la scuola statale nella nuova residenza di babbo. Mancavano solo due anni al diploma. Un nuovo feroce strappo. Una nuova separazione. Da te. Dalla nonna. Da Lizia ormai prossima ad iscriversi all’Università, alla Facoltà di Lettere classiche. Dal mio cortile. Dai miei amici. Dai miei animali. Dal mio gelso. Dalle mie rose. Dal mio pianoforte. Dai miei libri e quaderni che intenzionalmente non portai con me. Dal paterno teologo, il saggio e colto sacerdote Don Nicola…. Dal mio paese che amavo e dalla gente che sentivo ancora legata a schemi tradizionali e asfittici della loro esistenza faticosa e buia. La mia gente, in buona parte, senza una luce nello sguardo a illuminarsi di cielo. Tutto mi sembrava mio e tutto in realtà non mi apparteneva. Io stessa non appartenevo più a me stessa. Erano sempre gli altri a decidere per me. Studi, dimore, paesi. Senza deleghe. Tutti credevano di pensare con la mia testa e si arrogavano il diritto di scegliere per me. Solo tu, tuo malgrado, ti arrendevi, inevitabilmente dispiaciuto, alla sacrosanta autorità genitoriale. (oggi, invece, sono io a delegare sempre perché non ho imparato mai a gestirmi da sola… ma anche questa è un’altra storia tutta da approfondire. La maggior parte della nostra vita rimane in sospensione di giudizio…)
Andai
via senza una lacrima. Tu mi abbracciasti con occhi di pianto. Nonna. Lizia.
Gli
amici mi accompagnarono in città col treno per prendere la corriera che mi
avrebbe portato a destinazione. E lì, rincantucciata sul sedile accanto al
finestrino senza neppure vedere campi e alberi e tratti di mare, che mi
sfuggivano senza tregua, finalmente piansi. E quel pianto non si risolse in canto,
come spesso mi accadeva.
La caduta
il tonfo
lacerato deserto
il cuore
Conchiglia vuota
l’anima fossile
cade
a spegnersi
tra fondali sabbiosi.
Era spuma di mare
(“frammento”, Il pozzo
della luna, Carello Editore, Catanzaro 1993)>
E anche per oggi va bene
così. Alla prossima, sperando che non ci siano ripetizioni in tanto mio
raccontarmi, recuperando a piene mani dai due libri Le piogge e i ciliegi i
miei ricordi… a presto. Angela o Lina che dir si voglia.
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