Esplose la sua poesia, e la sua fama, nel mondo delle lettere alcuni anni dopo. E oggi è conosciuto e apprezzato poeta, scrittore e saggista non solo in Italia, ma anche all’estero.
Ed io, stando a contatto
con il teologo Don Nicola nel mio paese d’origine e più tardi con il preside Cristanziano
Serricchio, ho maturato negli anni la consapevolezza che abbiamo bisogno di
“Maestri” anche quando abbiamo la presunzione o l’ingenuità, sia pure
supportata da un talento naturale, di cavarcela da soli. In realtà, da adulta e abbondantemente
inserita nel mondo scolastico, anche come preparatrice di candidati ai vari
Concorsi per entrare di ruolo nella scuola, ho sempre pensato, e finalmente a
giusta ragione, che abbiamo davvero tutti bisogno di Maestri per andare oltre
nei vari nostri percorsi individuali del sapere. Non tutto si può apprendere da
soli.
Bernardo
di Chartres (filosofo
francese, vissuto nella prima metà del XII secolo) soleva dire: “Siamo come
nani sulle spalle dei giganti”. Interessante metafora con cui possiamo
raffigurarci il bisogno di ricorrere a chi ne sa più di noi perché ha fatto
esperienza del mondo prima di noi. Aforisma ripreso persino da Newton per dire che la cultura è una
costruzione che parte da lontano per andare lontano grazie ai giganti della
conoscenza che ci aiutano a vedere oltre le nostre individuali possibilità di
scoprire e apprendere orizzonti sempre più ampi. Ed è conferma di tutto questo
persino la mia straordinaria “performance” durante gli Esami di Stato per
conseguire il Diploma Magistrale. Ecco la cronaca di quei giorni:
<Intanto, agli esami
orali per la maturità, il professore esterno d’italiano, dopo aver letto quel
tema-fiume con notevole interesse ma altrettanta diffidenza sulla sua autrice,
mi aspettò al varco, mettendomi di fronte a tre antologie e ingiungendomi di
scegliere almeno una tra le tante poesie più significative di alcuni autori della
nostra Letteratura, dalle Origini al Novecento. Mi suggerì anche di inquadrarli
nel periodo storico e nella corrente letteraria in cui la loro poetica era
maturata. Io non scelsi. Aprii la prima antologia a caso e lessi la poesia che
vi avevo trovato, mi divertii a commentarla, a modo mio, ad inquadrarla
storicamente e culturalmente, riferendomi a quanto avevo leggiucchiato e
orecchiato qua e là sul suo autore ed andai avanti per un bel pezzo,
continuando a girare pagine e a parlare di poesie e di poeti e scrittori,
giungendo così, come un fiume in piena, alla seconda e alla terza antologia.
Mi ispirasti tu? Sai
quanto poco avessi studiato per gli esami, con la mia solita incoscienza (anche
Lizia, venuta a sostenermi, si era detta scettica sul buon esito di quella
difficile prova di maturità, date le enormi lacune che anche con lei, che mi
interrogava, andavo riscontrando nelle mie conoscenze letterarie, filosofiche e
soprattutto scientifiche…), ma avevo letto gli autori che amavo per conto
mio, senza un programma, senza una regola, senza seguire un percorso
storico-letterario.
Quella
mattina, durante l’esame, avevo commentato a caso, attingendo dal mio intuito,
dalle poche letture fatte a macchia di leopardo. Articoli di giornali, riviste,
libri di poeti e scrittori: un po’ di biografia, qualche aneddoto simpatico
attinto da spigolature varie più per curiosità e diletto che come studio
sistematico e scolastico. Sentivo la tua presenza al mio fianco. Dentro di me. Quella di zio
Padre Leonardo con la sua “sterminata” cultura che sicuramente, grazie alle
nostre sporadiche ma intense chiacchierate, mi era venuta in soccorso. Quando
il professore mi bloccò, mi accorsi dell’ora tarda e del silenzio nell’aula
d’esame. Tutti i professori della Commissione si erano fermati ad ascoltare. Mi
sorpresi. Mi meravigliai. Non riuscii subito a decifrare quella insolita
situazione. Avevo fatto bene? Avevo detto corbellerie? Gli esami di terza
media mi avevano insegnato a frenare gli entusiasmi: nel primo caso, erano mancati
gli applausi; nel secondo, il biasimo. Quando raggiunsi Primo, Lizia e Anna Maria, che
erano in mezzo al pubblico dei familiari, vidi anche te tra loro. Anche se tu
eri a oltre cento chilometri di distanza. Tutti e quattro mi guardaste
esterrefatti senza pronunciare parola. Le avevo consumate tutte io. Furono loro
tre a dirmi che “li avevo stesi”. E tu mi sorridesti fiero e soddisfatto. La
tua “pecora zoppa”, almeno per quella mattinata, aveva raddrizzato il passo
percorrendo il sentiero giusto. Quasi una via maestra.
Purtroppo, due giorni
dopo, m’inabissai in quel buco nero che era per me la matematica, e mi
trascinai nell’abisso scienze e storia dell’arte e a nulla valsero i calci
negli stinchi della professoressa delle due prime discipline, membro interno,
per tutte le cavolate che potetti sparare. Praticamente, detti i numeri invece
di dimostrarli. Anche tu ti vergognasti di farmi da assistente. Non è, poi,
riferibile ai benpensanti il maldestro e neppure tanto intelligente (ma
ingegnoso, a mio parere!) marchingegno da me messo in atto per l’esame di
storia dell’arte:
mi era giunta voce che l’esaminatrice fosse
un’anziana professoressa piuttosto sorda e distratta. Ciò mi fece sentire
autorizzata a scrivere l’indice di tutti i capitoli con le pagine di riferimento
dietro la copertina del libro, che mi affrettai a coprire per il mio stupido
intento con una sovraccopertina trasparente. All’inizio l’esame andò benissimo:
ad ogni domanda io davo un’occhiata alla pagina in cui avrei trovato
l’argomento, aprivo il libro e tranquillamente sintetizzavo la risposta mentre
la professoressa sonnecchiava. Poi, però, portarono il caffè e… i suoi occhi
ben desti scoprirono l’inganno e con fare aspro mi intimò di lasciar perdere e
di andare alla lavagna per copiare un disegno. Si trattava di una donna in
primo piano con un’anfora tra le mani. Non mi riuscì assolutamente di contenere
l’intero braccio destro nei limiti della lavagna e così anche gran parte
dell’anfora. La prof. ebbe un moto di stizza, non seppe trattenere un urlo
belluino per invitarmi ad andare via. Obbedii a testa china, vergognandomi
soprattutto perché sentivo dentro di me il tuo sguardo di amara
disapprovazione, e ti scorsi in fondo all’aula e mi parve di sentirti mormorare
sconsolato: ‘Chi gabba Gabba non gabba Gabba ma gabba chi gabba Gabba’.
Sì, io avevo commesso un
grave errore di presunzione, sottovalutando l’esaminatrice e raggirandola nella
maniera più sleale possibile. Il tuo bilancino pendeva tutto dalla parte della
mia colpevolezza. Se fossi stato davvero presente ti saresti mortificato, mi
avresti severamente rimproverata con lo sguardo ed io sarei davvero morta di
vergogna.
Creai nella Commissione
“un vero caso di coscienza”, come ebbe a dire il preside a babbo alcuni giorni
dopo. Alla fine fui promossa con ottimi voti in italiano e nelle materie
umanistiche e con appena la sufficienza in tutte le altre. Dovette piegarsi
anche la inviperita professoressa da me raggirata. Il preside confidò a babbo
che la Commissione d’esame aveva dovuto “tappare tre grosse falle”, con
addirittura un 2 in Storia dell’Arte, ma nessuno si era sentito in cuore di
rimandare un’alunna che aveva scritto un tema che era un saggio di critica
letteraria e aveva sostenuto in italiano un esame orale brillante, facendo simultaneamente
agganci con la storia, la geografia, la filosofia, la psicologia, ecc. ecc.
(“Per
riuscire a farsi strada nella vita ci vogliono Testa, Testone e un Diavolone.
La testa è la tua intelligenza, il testone è l’intelligenza chi ti giudica, e
il diavolone è la potenza di chi deve raccomandarti a chi ti deve giudicare
oppure semplicemente la fortuna”, avevi continuato a ripetermi tu dopo gli
esami di terza media perché avevi sentito che senza raccomandazione non si
andava da nessuna parte. Lizia aveva smentito quella diceria, io invece l’avevo
convalidata all’incontrario: “non c’erano state per me raccomandazioni” e
neppure “un colpo di fortuna”. Volevi difendermi. Difendere l’indifendibile.
Sapevamo entrambi che ero stata rimandata perché avevo ignorato libri ed esami.
E che aborrivamo in famiglia qualsiasi tipo di raccomandazione. Ora, dovesti
ricrederti: avevo superato gli esami di maturità solo con Testa e Testone
perché Diavolone fu sempre e comunque la mia testa, con la mia incoscienza
certo, ma anche con la mia innata capacità di leggere criticamente i versi di
qualsiasi autore. Era un dato di fatto inconfutabile. Un dono piovutomi dal
cielo. Un dono di cui non avevo e non ho alcun merito. Non una faticosa
conquista, dunque, ma uno squarcio d’azzurro e un brulichio di stelle e di onde
e di corolle fiorite nella mia testa. Al posto delle vecchie formiche, mosche e
cicale. Al posto dei miei ingarbugliati
pensieri tra le nuvole. Persino a mia insaputa).
Poggiai il mio piede nel vento
E questo mi sostenne
(Hilde Domin, Solo una rosa a sostegno, Fischer-Verlag, Frankfurt 1987, trad. it.
Vito Di Chio, nel suo profondissimo
e dettagliato libro/saggio Bisogno di
Maestri, purtroppo non ricordo più la Casa editrice e l’anno di
pubblicazione e non ho in questo momento il libro a portata di mano). Riconquistai l’autostima perduta,
nonostante la mia incredulità. (non mollare mai non mollare anche quando tutto sembra andare a
rotoli non mollare tutto passa e tutto resta, resta quello che sei passa quello
che gli altri pensano di te che non sarà mai quello che realmente sei, neanche
tu sai realmente quello che sei, ma non mollare mai non perdere mai la fiducia
in te stessa non perderla di nuovo… la mancanza di amor proprio ti blocca e ti
fa perdere la capacità di scegliere, di osare, di andare avanti…). Mi dissi.
E mi convinsi che meglio di così non avrei potuto fare. E probabilmente era
vero. Vissi, infatti, il mio momento di gloria e di celebrità. Fui invitata a
turno dai miei docenti a fare quattro chiacchiere con loro sugli studi da
intraprendere dopo il diploma. Non ne avevo idea. Non avevo mai messo in conto
di frequentare l’Università. Non m’interessava. Non avrei mai voluto insegnare.
Non avevo ambizioni di sorta. Mi piaceva scrivere e basta. Solo scrivere e
magari raccontare… Ma ero costantemente pungolata da alcuni professori (non
soltanto della mia classe e della mia scuola), con i quali, d’estate, avevo la
dis-avventura di incontrarmi al mare. Ormai si era a fine luglio e, sotto
l’ombrellone, al “Lido Tricarico”, si parlava purtroppo di università e di
indirizzi da prendere in considerazione: letterario, filosofico o psicologico,
dato che avevo dimostrato del talento, dicevano, per la scrittura e per i
fondamentali problemi dell’uomo e della sua psiche. Fui anche spesso invitata
dal mio professore di filosofia a “discettare” sui vari filosofi contemporanei
che non avevamo potuto studiare a scuola. Si divertiva con me ad aprire ampie
conversazioni su Nietzsche perché trovava interessanti le mie disquisizioni,
dettate più dalla mia irruenza e incompetenza che dalle teorie codificate nei
libri di critica di quegli ultimi anni e che io ignoravo del tutto. Curioso come un
gatto, si divertiva a farmi domande, aspettando con malcelato interesse le mie
risposte, che accoglieva con una faccia compunta e assorta, ma trapuntata di
sorpresa e dubbi e punti interrogativi. Si divertiva. E mi divertivo anch’io a
guardare le facce che faceva nell’attento ascolto delle mie balordaggini. Anche lui mi
sollecitava a non abbandonare gli studi. E non li abbandonai. Grazie non agli
interventi del preside o dei vari professori, ma solo grazie a Primo che aveva
deciso di iscriversi alla Facoltà di Lingue nel nostro capoluogo ed io volevo
stare con lui. Solo per amore, dunque. Ancora una volta, solo per amore!
Non degli studi, di cui non m’importava un bel niente, ma del mio amore, di cui
non avrei sopportato la lontananza.
Dammi la tua mano…
Vedi?
Adesso tutto pesa la metà…
(Leo Delibes)
… La cosa più bella del nostro amore
è che esso cammina sull’acqua
e non affonda.
(Nizar Qabbani)
E mi fermo qui. Avete scritto o reperito qualche bel testo (in prosa o in poesia) per domani 8 marzo? Io vado a cercarlo sulla vostra pagina FB. Grazie. Angela/Lina
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