Parto da una citazione: Franz Kafka nella lettera a Oskar Pollak (novembre 1903) così scrive: Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi. Ma è bene se la coscienza riceve larghe ferite perché in tal modo diventa più sensibile al morso…
Punto focale, dunque, delle mie
riflessioni, dopo aver letto il romanzo di Isabella
Antonacci Era solo una bambina, è
che un libro deve lasciare “tracce” profonde, vere e proprie ferite e
cicatrici, da cui rinascere possibilmente migliori. È questo, a mio parere, uno
dei compiti fondamentali di un libro: renderci
possibilmente migliori.
E, infatti, l’autrice, in questo suo
coraggioso romanzo d’esordio, affronta un tema quanto mai “aspro e pungente”:
la storia di Mariuccia, la
protagonista, che a soli nove anni viene stuprata con sadica violenza dal suo
fratellastro non consanguineo, Angioletto,
che “squassa” tutta la sua vita di bambina, facendola precipitare, ironia della sorte
nettamente in contrasto con quel suo nome protettivo, nell’inferno familiare, e
di una vita, molto breve tra l’altro, vissuta tragicamente tra tormenti,
vessazioni, incomprensioni di ogni genere, maltrattamenti, dovuti ai pregiudizi, che si rivelano i sotterranei e
impietosi coprotagonisti di tutta la vicenda. Rapinandola della vita e dei
sogni. Rapinandola della sua stessa identità di bambina, costretta, appena
dodicenne, ad andare sposa al suo stupratore da un terribile complotto, ordito
senza scrupoli, da chi avrebbe dovuto difenderla e salvaguardarla da ogni male,
per salvaguardare invece l’onore della famiglia e la sorte delle figlie più
piccole, che prima o poi avrebbero dovuto trovare marito pure loro, ora che la
notizia era sfuggita alle strettissime maglie-prigione della casa. Incolpevole,
ma ferocemente colpevolizzata, vittima sacrificale Mariuccia ha pure un figlio,
a cui dedica tutto l’amore che le è stato negato, ma il destino a volte si
accanisce di più su chi ha già tanto sofferto. Il bimbo muore con conseguenze
ancora più devastanti per la povera bambina-madre, subito abbandonata dal
neghittoso marito con la scusa di dover servire la patria.
È bene ricordare che i fatti avvengono
nel lontano 1933, agli albori del Novecento, definito, nel 1994, dallo storico
marxista Eric Hobsbawm “il secolo
breve”, perché racchiuso tra due date storiche molto significative: 1914
(scoppio della Prima Guerra Mondiale) e il 1991 (crollo dell’Unione Sovietica).
In pratica, in un tempo molto travagliato, attraversato da due guerre mondiali,
dal fascismo e dalle ferree leggi razziali che devastarono l’Italia, l’Europa e
il mondo intero. A discapito della povera gente che viveva, tra analfabetismo
quasi totale e conseguente ignoranza, una condizione di vita che, per quanto
assurda e distante anni luce dalla nostra esperienza esistenziale di persone in
transizione tra il secondo e terzo millennio, è stata la intricata realtà di quegli
anni.
Isabella Antonacci ha il grande merito
di aver narrato quella realtà in maniera apparentemente semplice e lineare, ma
in verità ricca di vivide sfumature per descrivere con estrema chiarezza e con
il linguaggio tipico della povera gente del Sud, verosimilmente di Bari e
dintorni, i modi di essere e di comportarsi, sopraffatta dall’analfabetismo,
dalla miseria materiale e morale, dai pregiudizi. Con una sua intransigente regola
di vita, legata ad una particolare idea di “sacralità della famiglia”, in cui
era intoccabile l’atavico ruolo di capofamiglia del marito, al quale moglie e
figli dovevano cieca obbedienza per il suo lavoro nei campi o in bottega in
grado di poter sfamare tutti i conviventi nella stessa casa. Ma, in fin dei
conti, il ruolo principale, proprio nella casa, lo ricopriva la moglie, quale “vestale
del focolare domestico”, dalla quale dipendeva il buon funzionamento o meno
dell’intero universo familiare. Con le consuetudini, i modi di dire, i
sentimenti chiusi a doppia mandata, e i risentimenti palesati con schiaffi e
parolacce e rancori, covati in famiglia ma mai messi in piazza per “l’occhio
della gente”, vera e propria iattura a cui nessuno sfuggiva, maschi e donne, ma
soprattutto queste ultime che si nutrivano, all’ombra delle finestre, di
pettegolezzi, credenze, asfittiche preghiere frammentate e sempre uguali, senza
un briciolo di senso critico e di libertà, interiore ed esteriore.
Furono errori maturati in quel
ginepraio di secolari tabù mai messi in discussione per mancanza di orizzonti
più ampi, soprattutto per la povera gente del meridione. Si svilupparono,
perciò, tragedie che neppure il buon senso riuscì ad evitare; tragedie causate
anche dal degrado dei paesi del Sud, degli ambienti domestici piccoli per mancanza
di mezzi economici, l’inevitabile promiscuità, l’asservimento totale della
donna all’uomo per assenza di sostentamento personale.
In quei tragici anni nacque un fiore
di rara bellezza, purezza, intelligenza, generosità, amore, Mariuccia, appunto,
incapace per dote naturale di pensare il male e di farlo nei riguardi di
chicchessia, destinata a “grandi imprese”, se un destino avverso non l’avesse
segnata sin dalla culla.
Fondamentali, a mio parere, per
districare meglio l’intricata matassa della sua storia, sono le “biografie” di
ciascun personaggio del romanzo, ricche di sfumature importantissime, legate
alle difficoltà di vivere, di affermarsi, di riconoscersi e di essere
riconosciuti, come opportunamente l’autrice scrive, sul retro-copertina, per
bocca di Suor Camilla, di cui si
parlerà tra poco. Ma il riferimento è anche alla personalità e/o carattere, e/o
inclinazione e/o temperamento di ciascuno che ne ha condizionato comportamenti,
sentimenti, emozioni, scelte, conseguenze. A partire dalla protagonista. E con
lei Rosellina, altra anima
sensibilissima e bella, sua compagna di banco, figlia di Guglielmo, il misterioso, taciturno, ma gentile avvocato venuto dal
Nord, con un alone di semi-clandestinità, che ha alimentato a lungo sospetti e
pregiudizi su di lui, fino “a prova contraria”.
E occorre precisare che la narratrice
ha l’abilità particolare di usare parole ed espressioni che rendono vive e
palpitanti le tante storie raccontante, che vanno a confluire nella più grande
storia della protagonista in una esemplare coralità di voci positive e/o
negative.
Luminoso contraltare di Mariuccia, per
esempio, è Rosellina. Entrambe anime elette, con una vita breve e colma di
poche rose e tante spine.
Isabella Antonacci è una coraggiosa voce femminile che non fa sconti alle voci “sbagliate” di tante donne presenti nel romanzo, prima fra tutte Nellina, sciagurata madre di Mariuccia, vittima anche lei di sua madre e degli atavici errori comportamentali delle precedenti generazioni. Ma ci offre anche la carezza delle donne “giuste”: Suor Camilla in primis, la madre superiora di un convento di manzoniana memoria. Quest’ultima, al contrario di suor Gertrude, è ricca di talento e di carità cristiana, ma con mille dubbi sul suo apostolato in un luogo chiuso e protetto quale era il convento invece che nel mondo esterno e tra la gente carica di sofferenze morali e materiali, come avrebbe tanto desiderato senza riuscirci mai. Comare Bice, moglie di Comba’ Colin, altre due persone degne di rispetto e considerazione perché, non avendo avuto i tanto desiderati figli, sono stati e sono sempre premurose, protettive e presenti nelle tristi vicissitudini della ragazzina e di suo fratello Mimì, che tanto avrebbero voluto adottare come figlio, se non fosse stato per le reticenze della famiglia per evitare paventati pettegolezzi. Suor Agata, anziana ma forte e volitiva presenza nel convento, quale esempio di giustizia, solidarietà e umiltà. Sono figure femminili molto importanti perché pronte a farsi testimonianza, con la loro esperienza di vita, della infinita bontà e misericordia di Dio, nonostante tutto.
Ma ci sono anche voci maschili da
prendere in considerazione, nel bene e nel male: il buon don Savino, parroco generoso e attento a tutte le sue pecorelle, ma
che, per eccesso di zelo, non sempre riesce nel suo intento di proteggere
Mariuccia e di essere portatore di serenità e di pace nella sua famiglia. A volte,
suo malgrado, avviene proprio il contrario. Anche lui, causa indiretta e
incolpevole, di tutti i mali della piccola protagonista del libro. L’avvocato
Guglielmo, di cui si è già parlato. Tonino,
sposo innamorato e sensibile di Graziella,
la sorellastra di Mariuccia. Tonino fino alla sua triste fine fu sempre attento
alla infelice sorte de Mariuccia, difendendola sempre dalle immeritate
vessazioni della sua famiglia. Ma c’è anche la figura ambigua e negativa del
funzionario comunale Giovanni Cerchetti,
da oltre vent’anni impiegato nel municipio del paese, grazie a sua madre e alle
di lei equivoche frequentazioni maschili e femminili. Entrambi saranno alla
base della tragedia finale della povera Mariuccia. Del balordo fratellastro
Angioletto si è già parlato col disprezzo che merita.
La “traccia” più nobile che fa nido
nel nostro cuore ce la lascia proprio la protagonista del romanzo che,
nonostante tutte le angherie, le continue beffe di un destino crudele e
impietoso, è esempio di infinita bontà, comprensione, generosità, amore persino
verso i suoi aguzzini. E vorrei ricordare che tra la povera gente del Sud la
parola amore in dialetto non era contemplata fino a qualche decennio del secolo
scorso. Si usava “amàur” con significato di “sapore” e mai di “sentimento”. È superfluo
ricordare che in quegli anni, giù o su di lì, ci si sposava solo per
convenienza e spesso senza neppure conoscere lo sposo scelto dai genitori e dal parentame. Mariuccia è un dono del Cielo perché e impregnata d’AMORE.
Ed ora una puntualizzazione o forse una provocazione.
Finalmente, con Isabella
Antonacci, abbiamo una voce di donna che tratta un tema così delicato e
scabroso con la sua lettura da donna e non maschile come perlopiù è avvenuto
fino quasi ai nostri giorni per via di un maschilismo dominante per secoli,
anche se attutito negli ultimi due secoli dalle rivendicazioni dell’universo
femminile (e non femminista come molti sostengono ancora). Per parlarne meglio
traggo spunto da alcune importanti riflessioni, di qualche anno fa, sul mondo
maschile e femminile di un grande filosofo e saggista Umberto Galimberti, che in Le cose dell’amore (Feltrinelli Editore, Milano 2013) parla della donna nella sua più alta espressione di
Persona, che è innanzitutto dono di sé a sé stessa per essere in grado di
donarsi e di donare agli altri, perché è essenzialmente una Donna d’Amore e
l’Amore comporta anche tanta passione e condivisione, “tra entusiasmo e follia”, quale creatura che “sfiora il divino”, in quanto detentrice del potere della “creazione”. Per questo, rivisitando la Donna attraverso la Storia della Letteratura mondiale e tutte le altre espressioni artistiche, dalla Pittura alla Musica, alla Scultura, al Teatro, ci rendiamo conto che, sino ad oggi, si
è trattato pur sempre di una donna cantata in queste molteplici forme dall’uomo
e mai vissuta in prima persona dalla donna per le altre donne e per l’uomo
stesso. Con le sole caratteristiche di seduzione fisica che l’universo
razionale maschile le concedeva di scoprire e comprendere. Inevitabilmente ne
viene fuori l’immagine di una donna a metà. Mai del tutto falsa. Mai del tutto
vera. Sta di fatto che una donna è molto di più, delle singole tessere che gli
uomini hanno presentato e presentano al mondo, non per incapacità nel definirle
in maniera diversa e completa (cosa del resto impossibile per la sua
imprendibilità), ma per l’impossibilità dovuta essenzialmente al loro pensiero
logico-matematico che è in eterno conflitto con la natura erotico-romantico-creativa
e generativa femminile, di cui non può assolutamente cogliere l’anima, molto
più complessa della propria razionalità, rivolta al politico-sociale e semplice
e chiara come la luce del giorno. La donna, invece, è notturna e misteriosa,
lunare, fredda e lontana solo in apparenza perché poi ha quotidiane maree ad
attirare a sé le forze marine sotterranee e in superficie, che solo la donna
conosce e può rivendicare per sé e per le altre, assegnandosi il valore
incommensurabile, dovuto alla cognizione profonda e inviolabile del suo potere
di immortalità che può regalare o negare all’umanità. Ed è questo valore che le
donne oggi vanno scoprendo e riscoprendo in sé stesse. Unito all’Amore oblativo
che le porta a donarsi senza riserve e calcolo alcuno agli altri, in ogni
ambito della loro umana esperienza. E l’AMORE ha il potere di cambiare il mondo
e di renderlo sicuramente migliore con il sostegno e la forza dell’uomo al loro
fianco, non un passo avanti o indietro o in altra direzione. È la Donna che
scientemente e sapientemente deve dare la mano al suo uomo (sempre più in crisi
di identità) per affrontare insieme con coraggio e determinazione le battaglie
della vita e venirne fuori vincitori. È questa la Donna a cui rendere
quotidianamente omaggio in trecentosessantacinque 8 marzo all’anno… (visto che
ci siamo incontrati per presentare il romanzo nelle Libreria del Teatro Traetta di Bitonto, egregiamente gestita da Gianluca Rossiello, proprio il giorno
della rivendicazione dei diritti delle donne. Gli uomini che si sono arrogati
il diritto di parlarne o di scriverne non hanno potuto mai penetrare nel segreto
e nel mistero della sua anima più profonda perché non hanno potuto sostituirsi
a lei nella percezione reale del suo dolore o della sua gioia, del suo desiderio
o rifiuto della maternità o della rinuncia di quest’ultima per motivi personali,
difficilmente elencabili, ricorrendo a un aborto spesso clandestino a rischio
della propria vita. La lacerazione di un abbandono, richiesto da circostanze su
cui e difficile e non sempre opportuno indagare. Nelle parole di un uomo la
donna è rimasta sempre mutilata, frammentata, sconosciuta. a meno che non si tratti di un uomo molto sensibile che riesce a fare sue le istanze di una donna, come Umberto Di Bari, innamoratissimo marito di Isabella. Occorre, perciò, prenderne
atto e rimediare una volta per tutte, facendo spazio alla scrittura coraggiosa
di narratrici e scrittrici che hanno scritto un’altra storia delle donne, più
autentica e vera. E l’elenco nei secoli e soprattutto in questi ultimi si è
fatto sempre più lungo e fiero.
Tra
queste comincia oggi a farsi strada Isabella Antonacci, con la sua Mariuccia, scampolo di cielo terso verso
cui alzare lo sguardo per ritrovarla in tutta la verità del suo essere “Donna-Bambina”
mai colpevole (neppure nella scelta di morire per Amore dei suoi cari), pronta
ad offrirci entro gli argini di queste due età sempre compresenti in lei, l’esempio
sublime del Perdono. PER-DONO: un dono grande per tutti i lettori. Nelle parole
di Isabella Antonacci il suo Riscatto e la nostra Preghiera.
E
se ho cominciato con la citazione delle parole di Franz Kafka, desidero
concludere con quelle dello psicanalista e scrittore (e non solo) Massimo Recalcati, il quale scrive: Il libro è un coltello, un corpo e un mare
(da: A libro aperto. Una vita è i suoi
libri, Feltrinelli, Milano 2018). Ed è un coltello perché bisogna fenderlo
per aprirlo e leggerlo, pagina dopo pagina; è un corpo, perché è attraverso
quest’ultimo che percepiamo e sentiamo il mondo esterno e interno per assaporare
emozioni, sentimenti, stupori; è un mare, in quanto si slarga sempre più verso
viaggi che portano lontano, se si ha il coraggio di attraversarlo, verso altre
geografie e altri porti e altri popoli e altri usi e costumi, modelli di vita. Ma
è anche percorribile nei sotterranei di coralli dei suoi fondali, dove
albergano sogni e forzieri di nuovi misteri, nuove verità, celati ad occhi
indiscreti e rivelati solo alla nostra anima…
Alla
prossima. Angela/Lina
Cara Angela, sai qual è il problema che si crea quando il lettore comincia a leggere un tuo scritto? è che non saprà mai - prima - cosa gli accadrà. Il tuo raccontare è come una grande onda che ti porta leggera verso una meta che ignori ma che ti attrae. E così , immersa in quell'acqua, vai, senza altri pensieri e senza tempo. Alla fine della storia io, cara Angela, (ma credo chiunque ti legga) non vedo l'ora di comprare questo libro e farlo mio.
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