Ieri abbiamo parlato di cani e del loro amore assoluto e
oblativo per noi esseri umani che abbiamo la fortuna di trascorrere insieme un
tratto della nostra vita. Gli animali domestici ci insegnano tante virtù che
difficilmente possediamo. E oggi sento il bisogno di parlare ancora di Dylan,
l’ultimo cane vissuto nel nostro giardino che ora pullula di tanti altri
animali domestici e non: gatti, gatti innamorati che si baciano sempre vicini
vicini e si scambiano il cibo; gatte sempre incinte e gattoni in cerca di
avventure; gattini di tutti i colori, forme e dimensioni; tortorelle, gazze,
scriccioli, pettirossi… che mi riportano al passato, quando ero definita in
casa “la mamma degli animali”.
Ecco la sua storia, in parte anticipata ieri nella mia
poesia a lui dedicata “ E la notte si fa silezio”:
Il 4 aprile del 1994 Dylan, un incrocio tra volpino e
pastore maremmano, il nostro cane nuvola bianca, irruppe nella nostra casa e
nacque a noi. Aveva ancora gli occhietti semichiusi e si reggeva maldestramente
sulle zampine, tremava e aveva paura di tutto e di tutti. Decidemmo di
chiamarlo Dylan. Da Dylan Dog, personaggio forte e coraggioso;
l’intelligentissimo investigatore di casi truci, tra il noir e l’horror, tratti
dell’omonimo fumetto creato da Tiziano Sclavi e disegnato da Claudio Villa.
Pubblicato in Italia dalla Sergio Benelli Editore dal 1986, fu il mensile più
letto negli anni Novanta. E non mancava mai nella nostra casa.
Ebbene, il nostro Dylan, a dispetto del suo nome, che gli
avevamo dato proprio per sollecitarlo a rendersi emulo dell’eroe del fumetto,
fu a lungo un cucciolo tremebondo. Persino il guinzaglio per portarlo fuori
veniva da lui guardato con sospetto a tal punto che andava a rifugiarsi tutto
tremante sotto il letto o dietro al divano per la paura che glielo infilassimo.
E ci volle del bello e del buono per convincerlo che il guinzaglio serviva solo
per portarlo fuori e riportarlo a casa incolume. Aveva imparato il suono della
parola guinzaglio e, appena la sentiva pronunciare, correva a nascondersi.
Tenerezza infinita!
Dylan era tutto bianco con le orecchie (due conchiglie
trasparenti e leggere) di una rosa-sabbia delicatissimo ed era tutto sbilenco:
aveva un orecchio teso e l’altro sempre piegato, due occhioni languidi e un po’
strabici, le zampine sottili e divaricanti. E non ebbe quasi mai vita facile,
pur essendo amato con alterne vicende da tutti noi. Io ero la sua mamma. E,
sempre con alterne vicende, mi presi cura di lui, come potevo, fino alla fine.
Fu anche un cane, suo malgrado, viaggiatore. Per un po’ di
anni stette nella nostra casa, ma era destinato a rimanere per ore chiuso nella
camera di Giuliano, mio figlio, per molteplici ragioni che non è facile
spiegare in poche righe. Poi, proprio Giuliano lo portò con sé a Roma, sperando
di fargli fare vita migliore. Invano. Ancora una volta la sua vita si svolse in
una sorta di clausura nelle diverse case abitate dal suo padrone, che riusciva
a portarlo fuori solo di notte, quando tornava a casa.
Alla fine, sia il cane che il padrone rischiarono la
depressione perché in perenne attesa, il primo, in perenne ansia di evitargli
quella solitudine così triste, il secondo.
Decidemmo di farlo tornare a casa da noi in Puglia. E qui
ricominciò la sua prigionia da appartamento. Nessuno che potesse portarlo fuori
e potesse prendersi cura di lui. Fu così che lo portai in una pensione per
cani. Era un luogo ameno con gestione affidabile. Io andavo a trovarlo più o
meno ogni quindici giorni, sottoponendomi allo strazio di sentirlo abbaiare di
felicità ogni volta che mi veniva incontro per il nostro affettuosissimo
abbraccio, ma guaire disperatamente ad ogni mio allontanarmi tra lacrime
irrefrenabili per il dolore che gli procuravo. Così per due anni. Poi, si
profilò l’ipotesi di vendere la nostra casa per una villa dove anche Dylan
potesse vivere in libertà. E riuscimmo nel nostro intento. Ci spostammo di un
po’ di chilometri dal nostro paese per una casa con ampio giardino, dove Dylan
trovò la sua cuccia il 6 dicembre del 2001, giorno dell’onomastico di Nicola,
mio adorato nipotino, a cui fu portato in dono. Giorni di felicità per tutti.
Dylan era una nuvola saltellante e gioiosa tra tanto verde di alberi e di siepi
allora spoglie, che sarebbero fiorite di rose a primavera. Ma anche qui non
ebbe vita facile. Ben presto fu azzannato dagli altri cani della zona. Armatisi
contro l’intruso per difendere il loro territorio e le loro femmine. Fu salvato
a stento da un bravo veterinario che ricucì il suo ventre lacerato. Io ero in
vacanza e al mio ritorno lo vidi ancora sofferente, con un enorme collare che
gli impediva di leccarsi le ferite.
Si alzò a stento per venirmi incontro e lo vidi piangere.
Sì, io vidi piangere per la prima volta in vita mia un cane, il mio cane, il
mio amatissimo Dylan.
E quel suo addome lacerato divenne una profonda ferita nel
mio cuore.
Dylan sopravvisse e per altri cinque anni è stato libero nel
nostro giardino, con quotidiani scambi di sguardi d’amore tra me e lui. Le mie
ansie quando correva oltre il cancello, il suo rassicurante ritorno, docile
alle mie carezze.
Poi… non voglio ricordare. Il ricordo della sua morte è
ancora una ferita aperta… il rifiuto di un altro Dylan nel giardino perché
sarebbe un altro Dylan. Non il mio coraggioso l’eroe a donarmi una lacrima di
solitudine infinita e d’infinito amore…
A presto tra noi per altre storie da raccontare e su cui riflettere. Del resto Alessandro Baricco ha scritto: “Una storia è un campo di energia prodotto nell’animo di uno di noi dall’improvvisa vibrazione di una tessera di mondo. la sua genesi può durare un attimo o incubare per anni. il suo tempo di germinazione è misterioso (da A. Baricco, La via della narrazione, Feltrinelli, Milano 2022, p. 3). E io amo le storie e amo narrarle.
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