Domenica 19 novembre: 100 anni dalla nascita di Don Milani (19 novembre 1923-2023)
Parlare di don Lorenzo Milani è sempre una gioia immensa perché, in qualità di preparatrice di tanti allievi, per oltre trent’anni, fino al 2001, per i Concorsi di immissione in ruolo nelle Scuole di ogni ordine e grado e persino per i Dirigenti scolastici, ho sempre scelto di parlare del “prete scomodo” e della sua scuola di Barbiana, dove era stato confinato per punizione e dove svolse la sua opera pedagogica e didattica nei riguardi dei ragazzi provenienti dai ceti più umili, che venivano ignorati o ripetutamente bocciati nella scuola pubblica. Quest’ultima, nel 1962, aveva unificato i due rami scolastici: la Scuola Media, a cui si accedeva attraverso gli esami di ammissione, e l’Avviamento Professionale, a cui si accedeva direttamente dopo la quinta elementare. Nella scuola media unificata venne decretata la “mortalità scolastica”. Don Milani accolse i ragazzi “rifiutati” dalla scuola statale lavorando con loro ventiquattro ore su ventiquattro e tutti i giorni compresa la domenica. Era una scuola poverissima con un solo libro di testo e tanti giornali, che i ragazzi a turno leggevano per cercare le parole che non conoscevano e che imparavano a conoscere nel loro significato grazie alle discussioni tra loro, al confronto continuo di idee e di intuizioni, alle spiegazioni del loro maestro. Don Lorenzo dava estrema importanza alle parole, mezzo di emancipazione da ogni schiavitù mentale, sociale, morale. Era questo il suo metodo pedagogico-didattico: guidare i ragazzi poveri di ogni età a scoprire il senso, il significato, il valore di ogni parola per diventare cittadini liberi, consapevoli e sicuri di sé, solidali con gli altri. Nella sua scuola, inoltre, gli allievi non solo imparavano ad esprimersi correttamente in italiano, ma imparavano più lingue per potersi recare all’estero con l’intento di fare nuove esperienze lavorative, seguite sempre da lontano dal loro Priore, e per acquisire maggiore capacità critica. Diventavano così consapevoli dei propri talenti, ma anche della carenza di conoscenze a più vasto raggio. Scoprivano, inoltre, le personali inclinazioni da seguire per realizzarsi al meglio di sé, senza inutili e dannose perdite di tempo.La scuola di Barbiana, del resto, non aveva cattedra né banchi, ma venne costruita tutta dai ragazzi a seconda delle loro capacità, abilità, predisposizioni. Tagliarono alberi, lavorarono il legno, costruirono un lungo tavolo con delle sedie. Intorno al tavolo ci si sedeva per leggere i giornali, commentarli, discuterne, confrontarsi, parlarne in maniera critico-costruttiva.
Don Milani, era stato mandato a Barbiana per punizione dai suoi superiori, ma non si scoraggiò mai, mai si dette per vinto. Anzi! E qui riprendo quanto da me già scritto su di lui e la sua scuola:
<Fece scrivere su un cartello all’ingresso della scuola il motto “I CARE”, ripreso poi come mantra da molte organizzazioni politiche e religiose, fino a uno degli ultimi Presidenti degli USA: Obama.
“Tutto mi sta a cuore”, una frase che riassumeva bene le finalità di cura educativa di una scuola orientata a promuovere una forma di sollecitudine per le persone, la natura, le cose.
Il prendersi “cura”, infatti, è la forma più alta dell’amore da donare agli altri, sia che si tratti dei nostri cari, sia che si tratti dei ragazzi che ci vengono affidati per un intero corso di studi: dalla Scuola dell’Infanzia alle Scuole superiori.
Il “prendersi cura” sottintende una sorta di necessaria continuità tra la famiglia, primaria fonte di educazione, e la scuola, tra un grado e l’altro della istituzione scolastica. Tra un ciclo e l’altro. Tra un anno e l’altro.
Non basta alla scuola dei nostri giorni “accogliere”, occorre prolungarne l’azione perché l’educatore abbia tempi e modi per avviare un processo di conoscenza dei suoi allievi; conoscenza, che li porterà ad acquisire quel senso di fiducia e di autostima che li accompagnerà per tutta la vita, sempre grati a quel “maestro” che si era rivelato tre volte tale (magis-ter) con loro, nell’arco di tempo dell’insegnamento-apprendimento svolto insieme.
La didattica, arte/scienza dell’“insegnare” non deve essere mai disgiunta dalla “matetica”, arte/scienza dell’apprendere.
“I care” trasporta come messaggio la disponibilità a non essere centrati su sé stessi e riconcentra l’attenzione e l’interesse al mondo degli altri, sollecitando un comportamento di rispetto della dignità della persona. Di ciascuna persona. Di ciascun alunno, con i suoi “punti di forza” da valorizzare e le sue “fragilità” da superare.
“Tutto mi sta a cuore” era, comunque, una frase in netta contrapposizione al “Me ne frego”, di pretta marca fascista.
Don Lorenzo aveva, nonostante le sue radici alto-borghesi, colte e laiche (nipote del grande Comparetti, filologo, grecista e latinista, che gli inculcò l’amore per la PAROLA), era soprattutto un uomo di sinistra>.
Con grande disappunto dei genitori agnostici e anticlericali, non prese mai la laurea e, dopo un periodo di sincera conversione, volle farsi sacerdote per essere in contatto con la Parola di Cristo e del Vangelo, per seguirne le orme, mettendosi sempre dalla parte degli ultimi, ma ribellandosi alla stessa chiesa, da lui ritenuta tradizionalista e classista, come riteneva tradizionalista e classista la stessa scuola pubblica. Le due Istituzioni erano restie al cambiamento, come lo era la società del tempo, ancorata al passato senza la luce della inevitabile, necessaria trasformazione anche culturale che l’avrebbe traghettata verso il presente e il futuro delle nuove generazioni.
Ma l’analfabetismo era dominante, di qui anche le prevenzioni e i pregiudizi.
Don Lorenzo, invece, respirava aria di ribellione da tutte le “catene” negative del passato. Voleva soprattutto una chiesa e una scuola per la gente umile e diseredata, in quanto il buon Dio non faceva distinzioni tra i ricchi e i poveri, avendo dotato tutti della stessa intelligenza e capacità d’imparare.
<Era per i poveri, i derelitti, per tutti coloro che non avevano mai avuto “voce”, sia nella loro storia personale che in quella più ampia della Storia dell’umanità>.
Soprattutto era per la costruzione di un pensiero libero di tutti i suoi ragazzi, nessuno escluso, perché ciascuno si potesse confrontare con tutti i possibili interlocutori. Anche coltivando uno spirito acuto all’insegna dell’ironia e dell’autoironia, armi vincenti nel misurare sé stessi e i propri sogni e progetti per trasformare il mondo.
Infatti, <a Barbiana, oltre al motto “I care”, i ragazzi costruirono un mosaico, che appesero alle pareti, con raffigurato un ragazzo con l’aureola, intento a leggere un libro. Si trattava di un messaggio simpaticamente autoironico, riguardante il “santo scolaro”.
La prova della loro bravura nell’usare appropriatamente la parola scritta fu, però, Lettera ad una professoressa (pubblicata da LEF una piccola casa editrice fiorentina), frutto interamente del loro impegno nel denunciare tutte le pecche della scuola pubblica di quegli anni, una scuola che “curava i sani ignorando i malati” e che era solita “fare giustizia fra disuguali”, non tenendo conto delle diverse condizioni sociali, culturali familiari e umane di ogni allievo. La gente di quel tempo, però, non era preparata al cambiamento nella scuola come nella vita e per questo la Lettera, che aveva avuto varie fasi di stesura per renderne agevole la comprensione dei contenuti a tutti, persino agli analfabeti (quasi tutti a quell’epoca) venne in un primo momento accolta freddamente dall’opinione pubblica.
Solo dopo la morte di Don Lorenzo ha avuto la risonanza pedagogica e sociale che meritava. (Ma non sempre e non ancora).
E qui mi sembra doveroso riportare almeno una pagina della Lettera per comprendere l’importanza pedagogica fondamentale di un “maestro” tre volte tale per la cura che ebbe con tutti i “Gianni” che la scuola pubblica di quegli anni (e non solo) confinava all’ultimo banco in attesa di sbarazzarsene quanto prima.
"Io vi pagherei a cottimo..."
… Se ognuno di voi (insegnanti) sapesse che ha da portare innanzi a ogni costo tutti i ragazzi e in tutte le materie, aguzzerebbe l'ingegno per farli funzionare.
Io vi pagherei a cottimo.
Un tanto per ragazzo che impara tutte le materie. O meglio multa per ogni ragazzo che non ne impara una.
Allora l'occhio vi correrebbe sempre su Gianni (l'allievo più svantaggiato).
Cerchereste nel suo sguardo distratto l'intelligenza che Dio ci ha messa certo uguale agli altri.
Lottereste per il bambino che ha più bisogno, trascurando il più fortunato, come si fa in tutte le famiglie.
Vi svegliereste la notte con il pensiero fisso su lui a cercar un modo nuovo di fare scuola, tagliato su misura sua.
Andreste a cercarlo a casa sua se non torna.
Non vi dareste pace, perché la scuola che perde Gianni non è degna d'essere chiamata scuola…
Don Lorenzo Milani (da Lettera ad una professoressa, pag. 82)
A soli 44 anni don Milani, affetto da una grave malattia, si spense (26 giugno 1967), lasciando una eredità spirituale, oltre che pedagogica, di valore inestimabile.
Le sue ultime parole scritte furono rivolte ai suoi ragazzi:
Eccezionale testimonianza educativa, umana, religiosa, spirituale che rimarrà sempre nel nostro cuore, nella nostra mente, nelle nostre parole>.
A distanza di cento anni la straordinaria attualità della sua scuola è evidente.
Oggi si parla, infatti, di scuola “inclusiva” che utilizza la didattica laboratoriale per andare incontro a ciascun alunno con un lavoro di gruppo in cui ciascuno dà il suo apporto in base ai mezzi culturali che possiede. Ottima anche la soluzione del “peer learning”, della didattica ambientale dentro e fuori la scuola, dei gemellaggi, delle visite scolastiche guidate, dell’apprendimento dei linguaggi multimediali fino a quello dell’intelligenza artificiale.
Ma, a ben guardare, non è stata questa la lezione di Don Lorenzo Milani nell’insegnare più lingue, nel mandare all’estero i suoi allievi a lavorare o a studiare, a seconda delle personali inclinazioni, nell’utilizzare quanto potesse tornare utile alla realizzazione dei progetti di vita di tutti e di ciascuno? Nel guidarli con fermezza paterna e tenerezza materna a rivendicare i propri diritti nella consapevolezza dei propri doveri per realizzarsi come cittadini del mondo, inseguendo il sogno di “farsi uomini liberi”?
Non a caso, molti di loro sono diventati sindacalisti, in quanto la sua idea di una scuola democratica era anche politica. Significativo è stato, a tale riguardo, anche il rapporto di Don Milani con Mario Lodi nei primi anni Sessanta perché la scuola “cambiasse il mondo” e fosse “di tutti e di ciascuno”.
Ma ancora più significativo è stato l’incrociarsi di due vite abbastanza simili per credo pedagogico ed esperienza scolastica. Parlo di Don Lorenzo e di Gianni Rodari, quasi coetanei come età, entrambi ribelli alle regole sociali di quegli anni della loro formazione e di tutta la loro breve esperienza esistenziale. 1923-1967 la data di nascita e di morte del Priore di Barbiana, 1920-1980 la data di nascita e di morte di Gianni Rodari. Entrambi uomini di sinistra, anche se con origini sociali molto diverse: Don Lorenzo proveniente dall’alta borghesia ricca e colta, Gianni figlio di un fornaio morto prematuramente di broncopolmonite. Don Lorenzo fece studi classici senza laurearsi mai per via della sua vocazione sacerdotale, Gianni conseguì il Diploma Magistrale che gli consentì di fare il maestro per alcuni anni, poi divenne giornalista molto apprezzato e seguito di tante testate di sinistra, da <L’Unità> a <Paese Sera>. Entrambi puniti per le loro idee di sinistra. Gianni Rodari addirittura scomunicato perché comunista. Entrambi educatori e maestri rivoluzionari. Dai loro allievi molto amati, ma da alcuni intellettuali, docenti, presidi, giornalisti, contestati e denigrati come fautori di una scuola improvvisata, priva di programmi e di regole da una parte, fondata sulla fantasia più che sulla concretezza della realtà, dall’altra. Così Cesare Segre, filologo, semiologo, critico letterario e docente universitario. Così più tardi lo scrittore Sebastiano Vassalli e molti altri fino ai nostri giorni. Questi “intellettuali” accusarono e accusano Don Milani e Gianni Rodari di essere responsabili di una “didattica facile che ha cancellato la capacità di studiare” e altri “capi d’accusa” così risibili da non essere neppure degni di essere evidenziati. Mi sembra opportuno, invece, ricordare che proprio Rodari recensì la Lettera ad una professoressa con le seguenti parole dolci-amare: un libro urtante, senza peli sulla lingua, spara a zero in tutte le direzioni, non risparmia nessuno. Di una sincerità a volte brutale, di una ingenerosità scostante. Con tutto ciò il più bel libro che sia mai stato scritto sulla scuola italiana. Da questo libro abbiamo tutti da imparare: maestri, genitori, professori, giornalisti, uomini politici (cfr: FLC CGIL SCUOLA UNIVERSITARIA E AFAM RICERCA, “Ma davvero è tutta colpa di Rodari e Don Milani?”.
A questo punto, non mi resta che riportare qui la famosissima poesia di Gianni Rodari “Una scuola grande come il mondo”: C’è una scuola grande come il mondo./ Ci insegnano maestri e professori,/avvocati, muratori,/ televisori, giornali,/ cartelli stradali,/ il sole, i temporali, le stelle./ Ci sono lezioni facili/ e lezioni difficili,/ brutte, belle e così così…/ S’impara a parlare, a giocare,/ a dormire, a svegliarsi,/ a volersi bene e perfino ad arrabbiarsi./ Ci sono esami tutti i momenti,/ ma non ci sono ripetenti:/ nessuno può fermarsi a dieci anni,/ a quindici, a venti,/ e riposare un pochino./ Di imparare non si finisce mai,/ e quel che non si sa/ è sempre più importante/ di quel che si sa già./ Questa scuola è il mondo intero quanto è grosso:/ apri gli occhi e anche tu sarai promosso!
Sono quasi certa che Don Lorenzo apprezzerebbe molto…
Nessun commento:
Posta un commento