domenica 4 giugno 2023

Domenica 4 giugno 2023: Ti canto ancora dopo quindici anni da...

Andasti via per non più tornare, ma tu sei ancora qui. “Sei nell’anima e lì rimani per sempre…”. Gianna Nannini me lo ricorda spesso. Ma desidero riportare alla memoria attimo per attimo il suo salutarmi prima di andare via. 4 giugno 2008 <Primo… due ore dopo la mezzanotte. Furtivamente. Ha lasciato il letto, la casa, le sue tele, i suoi innumerevoli strumenti elettronici, i suoi racconti, le sue poesie sempre più tristi e disperate, i suoi progetti di pubblicare ancora, i suoi sogni. I miei capelli. Le mie mani. I miei tormenti (dormi adesso, ne parliamo domani, ma perché mi devi parlare di notte e non di giorno? Dormi che è meglio…). Ed io ho continuato a non dormire e a scrivere per colmare ormai i vuoti di troppe assenze. Sì. Primo. che non temeva la morte. Che le faceva uno sberleffo ogni volta che entrava nella nostra casa. Ogni volta che la vedeva affacciarsi nella casa degli altri. Perdemmo saluto e amicizia con alcuni coinquilini quando, alle grida disperate dei nipoti di una vecchina ultranovantenne nel nostro stabile, lui, sornione e irriverente, ci tranquillizzò gridandoci dalla tromba delle scale: “non è successo niente, è solo morta la nonna del primo piano”. E a noi che, pavidi per tanto pianto, eravamo dietro l’uscio socchiuso della nostra casa non sapendo cosa fosse realmente accaduto, si appiccicò addosso e nelle ossa un ulteriore sgomento. Lui era fatto così. Doveva ironizzare su tutto. E non risparmiava neppure la morte, che non lo risparmiò, visto che avrebbe potuto ancora contare calendari e scrivere e dipingere ancora e ancora godere delle albe e dei tramonti. Del mare.

                                                         Primo 

In poco più di mezz’ora, in quella notte d’inizio giugno, di pioggia sui tetti e di ciliegie sul tavolo in cucina, e di attesa di rivedere il mare, ho perso Primo con la sua ultima disperata dichiarazione d’amore.

                             “Ti ho amato sempre Ti ho amato tanto”

mi sussurrò poco prima di accasciarsi completamente sul nostro letto e l’anima già gli volava via. Alcuni minuti prima, si era alzato per andare in bagno e subito dopo un colpo di tosse altissimo gli aveva fatto sputare sangue e l’aveva spinto a rifugiarsi da me, seduta sulla sponda del letto in ascolto del suo ritorno. Si sedette anche lui e io presi ad accarezzarlo e a rincuorarlo in attesa che arrivassero i soccorritori chiamati subito da Raffaella che si era allarmata a quel grido di squassati muri e di infranto   silenzio. Respirava a fatica e mi disse che stava morendo col capo chiuso nell’incavo tra il mio braccio e il mio seno.

                                              “Non respiro più”

“Respira, respira. Stanno arrivando. Adesso ti aiutano. Ti salvano”.

Si rialzò per abbracciarmi e per darmi un bacio, l’ultimo, sentendo venirgli meno le forze. Ma quell’abbraccio e quel bacio ci furono solo a metà. Più nelle sue intenzioni che realmente. Mi prese la mano mentre cadeva riverso sul letto. Le sue parole d’amore si fermarono a metà tra le sue labbra e i miei occhi. Forse vi lesse un filo d’incredulità, che passò nel suo sguardo di disperato rammarico. Non aveva più il tempo di provarmelo, non ci sarebbe stato più il tempo di dimostrarmelo. Gli accarezzai la fronte pallidissima madida di sudore.

“Resisti”, gli dissi, “resisti, respira, stanno arrivando, adesso ti aiutano”.

E feci spazio al medico e agli infermieri che già sentivo per le scale. Il medico gli si avvicinò e gli chiese: “Come ti chiami?”.

Vidi le sue labbra muoversi impercettibilmente nello sforzo di rispondere, ma non articolò suono alcuno. Gli infermieri gli misero immediatamente la mascherina per l’ossigeno, ma fu allora che roteò gli occhi e spirò.

Gli tolsero la mascherina e spinsero il letto per adagiarlo per terra e azionare febbrilmente il defibrillatore.

Raffaella mi chiamò ed io uscii dalla nostra camera con negli occhi le sue gambe che sussultavano inerti ad ogni nuova scossa. Raffaella mi ingiunse di scendere con lei. La mia presenza era ormai inutile e forse ingombrante. Sapevo già, ma non volevo crederci.

                                       Aspettavo Aspettavo Aspettavo

 Aspettai fino al certificato di morte da firmare. Incredula.

                                            Io lo sapevo immortale

Anche se alcuni giorni prima, vedendolo così affaticato, mi ero sorpresa a pensare:

‘ma come fa a non preoccuparsi della sua salute in quelle condizioni?!?’.

Erano, però, pensieri fugaci, che non avevano reale consistenza né una preoccupazione vera, anche se più volte avevo sollecitato una visita specialistica dal cardiologo. Saremmo dovuti andare il lunedì successivo.

E, comunque, quella notte, dopo che si era alzato dal letto in tutta fretta per andare a tossire in bagno, io non pensai minimamente a un suo serio malore. Erano colpi di tosse e basta. Avevamo appena consumato ancora una volta la voglia di noi. Neppure per un istante mi sfiorò il pensiero che stesse già lottando con la morte. Che di lì a poco sarebbe tutto finito. Ero incredula e confusa ma stranamente tranquilla. Preoccupata e stranamente tranquilla. Incredula e stranamente tranquilla. Confusa e stranamente tranquilla. Forse il buon Dio (o madre natura) toglie in questi casi il “ben dell’intelletto”, coscienza e consapevolezza, perché non venga vissuto quel momento in maniera drammatica da chi sta per andare via e da chi rimane. Perché non sia un addio disperante. Devastante. Io non pensavo alla morte. Pensavo a procurare la roba pulita per un eventuale ricovero in ospedale. Perché fosse pronto. Lo sollecitavo ad indossare la canottiera, i pantaloni, una maglietta. Cercavo di aiutarlo ad indossarli e lui mi lasciava fare, ma non ce la faceva. Provò a mettere sotto la lingua una pillola salvavita ma gli sfuggì dalle labbra con una smorfia di rassegnato disappunto. Aveva bisogno solo di rifugiarsi sul mio petto e di sentirsi protetto dalla mia carezza e dalle mie parole di incoraggiamento a resistere ché presto sarebbero venuti quelli del 118 ad aiutarlo. Mi disse soltanto con una quiete insolita nella voce:

“Sto morendo. Non riesco più a respirare. Tra un minuto non respiro più. Finisce qui il mio tempo. Finisce qui la mia storia. Finisce qui il racconto di noi due”.  

Ed io ancora ad insistere:

“Adesso vengono e ti salvano”.

Non ci fu il tempo del ricovero e di niente altro. Non ci fu più il tempo. Se non del suo dirmi l’amore. Tanto e per sempre. Ed io ancora oggi mi chiedo come abbia potuto io non capire che stava morendo, stargli accanto fino all’ultimo respiro senza provare l’impulso di scappare terrorizzata dalla parola “fine”, come mi capitava fino a qualche anno prima.

                                                        Dopo

gli misero un vestito dignitoso, ne aveva tanti e tutti di ottima fattura.

Non il migliore, uno dei tanti.

Gli misero una bella camicia. Non la più bella, una delle tante.

Anche la cravatta originale. Non la più originale. Una delle tante.

Non era lui a scegliere, come aveva sempre fatto. Non fui io a scegliere come non avevo mai fatto. Casomai gli facevo da specchio.

Hanno scelto gli altri per lui. Per me. Lui non lo avrebbe permesso. E hanno scelto come hanno potuto. Io non sapevo neppure dare le indicazioni giuste:

“Nell’armadio di sopra, no bisogna andare giù. No, no, è meglio quello nero, anzi meglio l’antracite, il blu, il rigato, non so, fate voi…”.

Lui non l’avrebbe permesso. Io sì, come sempre. Delegare delegare delegare. Ad alcuni sembra il mio motto.

(cooosa? Ma dove credi di andare tu con quella patente se non hai i riflessi pronti? Vuoi ammazzare subito quelli che malauguratamente si troveranno sulla tua strada? Stattene tranquilla che quando avrai bisogno di uscire con la macchina provvederò io…)

Provvedimenti sempre richiesti a viva voce e solo raramente concessi.

Per anni c’era sempre stato chi pensasse per me e provvedesse a sostituirsi nelle scelte che avrei dovuto fare io, nelle iniziative da proporre, nelle faccende da sbrigare fuori di casa. Poi, era subentrato l’adattamento. Con l’adattamento, l’abitudine. E, alla fine, pur volendo essere autonoma con tutte le bandiere issate per dire “sono uno Stato Sovrano”, mi accorsi che di sovranità non ne avevo neppure un briciolo: mi mancavano i mezzi, l’esperienza, la fierezza, l’ardire.

Io, libera solo con te, ma figlia sempre: del padre-padrone, del marito-padrone e dei figli-padroni. Con i quali è stato solo un chiedere per evitare di dovermi giustificare dei miei limiti e per le tante cose che non sapevo e non so fare

(come mai non hai imparato a fare cose che s’imparano fino a dieci-quindici anni e non oltre?).

Come spiegare? Cosa spiegare e a chi? Personalità? Condizionamenti? Esperienze vissute e quelle mancate? E, dopo aver spiegato o tentato di spiegare, mi sarei salvata? Avrei imparato? Sarei stata perfetta come io avrei voluto e come gli altri richiedevano che fossi? E ho capitolato su tutti i fronti. Sì, mio caro e buon papà, ho capitolato. Elogio dell’imperfezione.

       Nella imperfezione la serenità di una vita che è umana e mai eroica

 Di accettazione di sé nel tentativo di migliorarsi per quanto possibile, senza inutili stress e illusioni.

Ma, quel giorno della morte del mio compagno di vita, questi pensieri mi accompagnavano forse soltanto per non pensare non pensare non pensare.

                                                       Dopo

quando l’ho visto per l’ultima volta, per l’ultimo bacio sulla fronte, anche la sua di gelido marmo, per l’ultima carezza, tenera sulla guancia morbida e con la barba docile e il volto sereno come se dormisse, era bello e quieto. Con l’addome gonfio. Ebbi timore di sistemargli meglio la giacca su quella pancia enfiata. Né volli indagare sul suo collo che mi dissero arrossato come di sangue che s’allargava in lago o mare o oceano, non seppi mai. Mi colpirono le mani chiuse a pugno. Le sue belle mani quadrate eppure magre, da artista. Non avrebbero mai più dipinto quelle mani. Mai più scritto. Mai più digitato. Mai più accarezzato, coppa di tenerezza e passione, i miei lunghi capelli che voleva sempre più lunghi. Per affondare meglio, le sue mani, nel biondo ormai colorato di quelle spighe sempre indocili e sempre appassionate in lunghe e mai stanche notti d’amore...

Ma anche quelle mani erano pensieri per non pensare. Per non ricordare. Per non proiettarmi in un futuro, che era già presente, senza...

(“fa’ che i tuoi capelli siano sempre più lunghi/ perché solo così sei più bella che mai…”)

                                 Lui mi dedicava E ora io cantavo

Lo avevo perso e cantavo, sì, ancora e ancora e ancora, io cantavo.

Per andare in deviazione. Per non pensare. Per non soffrire.

Strano medico la mente. Strano medico il cuore. Strano medico la vita

(voglio amarti così/ teneramente/ voglio amarti ogni dì/ con tutto il cuor…)

Cantavo tutte le nostre passate canzoni. Cantavo il passato perché il futuro sarebbe stato senza più “canzoni con dedica”, come dicevo io…

(Tutto passa lina tutto passa)

Dicevi tu ed ora era un ritornello che mi ossessionava per fare passare il tempo del dolore.

(Tutto passa lina tutto passa).

La pioggia stava cominciando a cadere mentre sorgeva l’alba e cominciava a venire gente. Sorgeva una nuova alba senza. E la gente veniva perché per tutti sorgeva l’alba. E per tutti cadeva la pioggia

(tttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttt) 

(Tutto passa lina tutto passa).

Vennero le mie sorelle e i miei fratelli, i miei cognati e le mie cognate. Poi arrivarono gli altri miei tre figli e l’altro mio genero e piansero senza darsi pace e senza darsi voce. Sgomenti. Arrivarono da lontano gli amici e i nipoti: quelli che potettero venire. I miei. I suoi. Lo portarono poi nella Sala dell’ultima Accoglienza al centro del paese con la pioggia battente come il dolore. Ero là, circondata da tutti e da nessuno e i ricordi mi assalivano per rendermi lontana da tutti e da nessuno. E i rimorsi e i ripensamenti e i dubbi e se… forse sarebbe ancora vivo… non sarebbe stato nell’Altrove in cui mi perdevo… (…). (Che stupidi ricordi si affacciavano alla mente ora che era necessario cancellarli tutti: stupidi inopportuni inutili… eppure erano lì a blaterare occupando tutti gli spazi possibili. Che strano clown la mente per distrarci dal dolore e permetterci di sopravvivere).

E ora ero davvero in un altrove che era già passato. Il mio e quello di Primo. Non ci sarebbe stato più il presente o il futuro per noi due. Solo il passato. E ogni parola, ogni coniugazione, ogni immagine, ogni suono di noi due era al passato. Fino a sole poche ore prima c’era stato il presente. Ora non più. Non più neppure la nostra casa. Tutto al passato. Io stessa ero un passato. Non più “coniugata”, ma “vedova”. Non più con, ma senza. Non più potenziata dall’altra metà, ma mancante dell’altra metà 

(tutto passa, lina, tutto passa).

E anche quel giorno di pioggia battente e di ciliegie abbandonate sul tavolo in cucina passò e noi andammo a casa a riposare.

La Casa dell’ultima Accoglienza si chiuse alle nostre spalle ed io sentii una stretta al cuore nel saperlo solo. Nessuno a fargli compagnia. Ora era solo. Ed io avevo tutti accanto a me. Mi sembrò un’ingiustizia. Mi sembrò una situazione irreale. L’incubo da cui mi sarei svegliata.

                                                         Mi misi a letto

Ebbi la sensazione fisica, reale, vera che mi si fosse coricato accanto. Per la frazione di un secondo sentii il suo corpo e mi spostai per fargli spazio. Poi lo sognai ed eravamo in una grande piazza seduti ad un bar, ma sopraggiungeva improvvisamente sul versante opposto della piazza un treno e lui mi salutava in fretta perché doveva necessariamente salire su quel treno, glielo aveva ordinato la Regina a cui non poteva assolutamente disubbidire. Cercavo disperatamente di trattenerlo, ma lui correva a perdifiato e prima che il treno ripartisse scorgevo dal finestrino il suo profilo che andava via e sentivo la sua voce accanto a me:

“Ho fatto uno scherzo a chi mi voleva portare via. Ho mandato uno che mi somiglia al posto mio ed io sono rimasto con te. Vedi, non posso lasciarti”.

Mi svegliai delusa nel vedere il suo posto vuoto e ricordai tutte le volte che, durante il servizio militare, aveva falsificato la firma del comandante per venirmi a trovare con un permesso di tre giorni. Quante quante volte. Ora non più. Non ci sarebbero stati più permessi né scadenze né firme false a dirmi il suo amore. Solo la sua capacità di prendere a schiaffi il mondo con la sua audacia, incoscienza, ironia, ora riversatesi in un sogno reale più della realtà. Il giorno si schiuse con il pensiero ricorrente che mi sollecitava a ricordare la canzone di Gabriella Ferri “È scesa ormai la sera” perché in quelle parole avrei ritrovato la nostra storia. Le ultime parole della canzone stranamente tanto simili alle sue in quell’addio così lacerante e disperato. Non ascoltavamo più questa nostra cantante tanto amata da quando aveva posto fine tragicamente ai suoi giorni e le cassette delle sue canzoni erano tante e sparse dappertutto nella nostra casa supertecnologica. Eppure, mi alzai e automaticamente aprii una scatola di audiocassette e presi la prima che mi capitasse sotto le dita. Era quella giusta. Aveva guidato lui i miei passi e la mia mano? Ancora oggi me lo chiedo senza saper dare risposte. Forse ora tutti voi potreste darmele. Ma io non voglio più. Ho paura dei sogni rivelatori e ancor di più di quelli premonitori… L’ascoltai tremante

È scesa ormai la sera
L'ultima nostra sera
Sul nostro viso, senza parole
Muore l'amore
E niente c'è da dire
Più di questo… silenzio!

È finito ormai il racconto di noi due
Vorrei, come vorrei
Dirti ti amo
Dammi la mano
Il coraggio mio sei tu
Ma sei lontano ormai
E ti vorrei sì ti vorrei
Ti amo come ti amo
Ed ho paura... dammi la mano
Il coraggio mio sei tu
Ma sei lontano ormai
E ti vorrei…

(Gabriella Ferri, stralcio della canzone “È scesa ormai la sera”)

Sì, era la nostra storia. Che lui mi voleva ricordare. Non mi aveva detto poco prima del suo addio “finisce qui il mio tempo, finisce qui la mia storia, finisce qui il nostro racconto”? Il racconto di noi due.> (da A. De Leo. Le piogge e i ciliegi, 2° vol. SECOP edizioni 2018). A presto. Angela/Lina

Nessun commento:

Posta un commento