Mi è appena giunto Cadenze per la fine del tempo, la nuova silloge poetica di Vittorino Curci appena pubblicata, suscitando in me grande emozione. Immediatamente mi ha intrigato il titolo sulla pagina tutta bianca che connota le pubblicazioni di Vittorino. Tantissime ormai, e molte hanno ottenuto e stanno ottenendo prestigiosi premi.
Il titolo, dunque. “Cadenze” mi ha
affascinato da subito. Al plurale poi! Le cadenze contengono in sé il ritmo
della musica e quello della poesia. L’autore ha una vocazione innata per l’una
e per l’altra. Un talento straordinario che visceralmente lo abita e che anima
un comune ritmo musicale, una uguale partitura, la stessa armonia.
Profondamente. Il musicista e il poeta sono inscindibili e imprescindibili
nelle vibrazioni sonore di un verso o del sassofono, compagno di viaggio, da
cui il musicista-poeta trae magicamente “musica improvvisata”… Poi il titolo
continua: “per la fine del tempo” che, invece, pur nell’amara accezione
iniziale, non mi meraviglia più ti tanto perché Vittorino ha dato sempre, nelle
sue opere e alle sue opere, una scansione temporale. Il Tempo sarebbe il
protagonista indiscusso della sua costante riflessione sulla vita e sulla
morte. Sulla esistenza. Sulla parola. Tempo, che si fa spazio e si slarga a
comprendere ogni altra esperienza umana in un continuo visionario perdersi e
ritrovarsi oltre il tempo e lo spazio in un surrealismo artistico, pittorico,
letterario, filmico, tipico dei primi decenni del Novecento; surrealismo, che
in Vittorino supera ogni limite imposto dalla stessa natura delle cose, e
s’incunea nella parola come necessità di essere/non essere nello spazio e nel
tempo oltre lo spazio e il tempo.
Già nella silloge Poesie (2020-1997, La Vita
Felice 2021) l’autore sembra andare indietro nel tempo per ritrovare
l’umanità vagheggiata per la frazione di un secondo e perduta nello stesso
lasso spazio-temporale. In “quella terra
sconsolata/ sfuggita alle carte geografiche/ dell’eterno”, infatti, lo
spazio/tempo del poeta non è mai il suo luogo e il suo momento.
In Cadenze
per la fine del tempo assistiamo, in più, alla frammentazione di attimi di
tempo per dilazionare la presa di coscienza di una opportunità di tempo perduta
per sempre ai primordi dell’umanità. E, mentre in Poesie si scopre nel poeta “il bisogno di riprendersi l’infanzia
per ritrovare una sorta di gioiosa innocenza”, “con ‘i pensieri di un bambino’ che traghettano il suo ‘io’ adulto tra
due secoli così contrastanti tra loro da non lasciare speranza nel futuro”, in
quest’ultima silloge Vittorino sembra scendere a patti con i suoi anni maturi
(mai contati, mai realmente vissuti) per ritrovare forse una vaga possibilità
di salvezza dell’umanità, anche se pessimisticamente si fa cantore della “fine
del tempo”, “cadenzando” alla moviola appigli che sono e non sono, in uno
sguardo “obliquo” (come in Sylvia Plath), per superare la linea orizzontale e
sfuggire a quella verticale per attestare e scotomizzare la propria identità di
musicista e poeta e riscoprirla in alcune parole chiave per un futuro migliore che è straniamento più
che realistica utopia. E l’utopia, come mi piace ricordare (ma non ricordo più
chi l’abbia detto), non è ciò che non può mai accadere, ma quanto non si è
ancora avverato.
E, in questo ultimo libro, ci troviamo
di fronte a una umanità che ancora una volta sembra esistere senza esistere,
persa nelle brume di un vago ricordo; una umanità che perde continuamente sé
stessa tra silenzio e rumore: il “silenzio” su quanto possa essere realmente
accaduto o non accaduto (le nostre sono soltanto ipotesi, che si attengono a
vari studi di paleoantropologia, geologia - morfologia terrestre e atmosfera
intorno al nostro pianeta - e la loro evoluzione che, nel tempo, le attuali
navicelle spaziali portano alla luce).
Con la “parola”, invece, si compì per
l’uomo il prodigio di varcare dalla preistoria le soglie magiche della storia,
memoria della nostra stessa umanità.
Ma i pensieri, i sentimenti, le
emozioni, la fatica di vivere, di adattarsi reattivamente ad un ambiente ostile
da abbandonare o da trasformare dove sono?
Il “rumore” di ogni idea che si fece
azione, invenzione, persino arte, come i graffiti nelle caverne dove ricercarlo
con la stessa intensità di quel tempo, lo stesso significato? Lo stesso
attonito stupore, la stessa trepidante paura dei nostri antenati?
Il nomadismo e poi gli stanziamenti
con le prime case a imitazione dei nidi degli uccelli, primi architetti e
costruttori del creato?
La ruota, il fuoco. L’amore. I figli.
Le tribù, le lotte per la sopravvivenza, la sconfitta e le lacrime, la vittoria
e la gioia, il riso e il pianto. Vero?
Falso? Invenzione e fantasia. Racconto. Solo narrazione?
La creatività del poeta
nell’inventarsi una umanità da raccontare o la creatività degli antenati
nell’inventare ogni nuovo giorno dall’alba al tramonto in un tempo di “non
conoscenza” e di passi tra i sassi e l’erba, le acque e i mari, le montagne e
le nuvole per scoprire e sapere?
Il dio fulmine e la dea pioggia, la
terra-Madre e gli dèi antropomorfi, a cui seguirono gli eroi, i miti e le
leggende, la parola incisa e poi quella scritta. I numeri, contando le pietre
sulla terra e le stelle nel cielo. Appigli di una umanità senza nome e senza
volto, a cui una pozzanghera restituì all’uomo il primo volto, la parola il
nome. L’identità inventata. Irripetibilità di ciò che è stato o non è stato e
di ciò che sarà o potrebbe essere...
E, come in Poesie, anche qui i pensieri di Vittorino Curci sembrano
sbriciolarsi in “frammenti di ricordi che conservano l’incanto della prima
volta, ma anche il tormento della irripetibilità dell’attimo di quella
emozione, quel sentimento, quella situazione/condizione di vita, che il poeta
avverte mai propriamente sua perché immersa nella storia degli altri, che
rinascono ogni volta in storie diverse, simili e mai uguali” e mai vere e mai
false:
il
tanto è separato dal quanto nel dettato che ha nutrito fin qui la tua
immaginazione: andare incontro agli altri non per la via trafficata ma per
quella solitaria
i
renitenti, al tramonto, non guardano mai dalla parte sbagliata. accendono un
fuoco di sarmenti e fuori da qualsiasi racconto si rendono visibili come rovine
(“I SETTE GIORNI DEL FULMINE”).
E tutto e il contrario di tutto è la
cifra poetica e stilistica di Vittorino Curci, “dissentendo con garbo” e
raffinatezza per giungere a una qualche verità mai vera. E sono le parole a fare la spola tra un mondo e l’altro.
Il visionario e l’eccentrico in un
realismo magico che sa di passato ma riguarda l’avvenire dei giovani poeti che
scriveranno la storia del mondo di domani.
Forse “un sentiero di rinascita” come
afferma, con grande audacia e maestria analitica, il critico letterario Luciano
Pagano… “per comprendere l’umanità e il
suo contrario”. E non gli si può dare torto.
Persino il dolore che è, o dovrebbe
essere, la misura più vera della nostra umanità, viene messo in discussione in
versi come questi: sembrava fosse venuta
da un’altra ruota del tempo/ (la natura trova sempre il modo/ per prendersi
gioco di noi) prima di volare via/ nel suo notturno sconosciuto/ dove nessuno
fu mai al sicuro./ insieme agli altri cercava segni e sentieri nuovi/ nel bosco
dove la ragione aveva fallito// come sono lucenti a quest’ora/ le foglie del
vecchio ulivo che sovrasta/ il muro del giardino…/ di albe come questa ne ha
conosciute/ molte più di noi che siamo larve già pronte/ per essere schiacciate
sotto un piede/ non appena oseremo credere in noi// la distruzione non ha
potere sull’eco della stanza/ e sulle esse delle clavicole e dei sorrisi./ qui
niente si mostra agli dèi del sonno/ e della salute, i mortali trafiggono se
stessi/ con l’accidia e l’ambizione, e svilisce se stesso/ il dolore che spinge
al canto le sofferenze più vere/ che restano senza un nome
Ma, riproponendo quanto ho scritto per
Poesie, desidero evidenziare ancora
una volta il mio pensiero nei riguardi della poetica curciana: “mi piace
pensare (non so fino a che punto sia esatto o sbagliato il mio pensiero!) che
una ‘situazione’ sia momentanea e modificabile anche in breve tempo perché
riguarda quel momento e poi passa; la ‘condizione’ è qualcosa di permanente,
riguarda un modo di essere, magari anche di apparire, ma permane. E, tra
l’altro, Vittorino è egli stesso un ‘verso scazonte’ sempre in consonanza col
ritmo interiore della sua musica e sempre ribelle a schemi di perfezione e
armonia, pur nella versatilità del ‘trimetro giambico’ della sua anima. Mai
sola. Mai in compagnia. Sempre spaiata. L’unico paio uncinato nel cuore
riguarda quel ragazzino, che “giocava a
morra con le ore della notte” per sentirsi vincente”.
Senza riuscire mai a sentirsi
veramente tale, ma sempre eternamente discepolo dei Maestri, anche ora che è il
mentore più efficace e convincente dei giovani poeti che impugnano sbarre metalliche/ muovendosi tra limoni, libri e
ciottoli/ disseminati sul parquet (VANITAS VANITATUM).
Di certo, i suoi versi, anche oggi che il passato si sovrappone a un altro
passato/ e nulla è mai accaduto “si trasformano in musica che si fa nuova
generazione e ‘rigenerazione’ di un millennio che è agli esordi, ma ci indica
già un inizio e una fine tra paure, contraddizioni, nascite, rinascite e morti,
come ancora in Poesie:
Siamo
in pochi, sempre meno, nel nostro misero/ accampamento. La sfrontatezza dei
lavori arbitrari/ è appena un ricordo./ Come un finale a tempo/ e una voce
fuoricampo che invita a sgombrare/ il passato.
Ma, anche se tutto torna e poi
scompare nel nulla di una realtà che non è neppure tale, a me piace pensare,
quasi una conclusione ottimistica, che “la fine del tempo”, anche se non lascia
molto spazio a equivoci e dubbi e speranze, sia almeno nelle intenzioni più
intime di Vittorino, preludio all’inizio di un tempo migliore per l’umanità del
prossimo futuro, senza “contrario” di sorta.
Abbiamo anche i figli e i figli dei
nostri figli da salvaguardare e salvare. La poesia è, o dovrebbe essere (il
condizionale con Vittorino è d’obbligo!) salvifica sempre…
Angela
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