La
poesia di Cris, postata ieri, è una pioggia immensa di emozioni… E me lo
conferma anche Caterina, sua figlia, che mi ha inviato tra mercoledì e oggi due
commenti che mi confortano e mi commuovono: Grazie Angela davvero davvero per queste pagine dedicate a
papà che esprimono il sincero e grande affetto che vi legava e che lui in
qualche modo ha trasmesso a me certo che avrei saputo coltivarlo con cura. È il
suo amore che ci lega... per sempre❤️ E quello riguardante la poesia
postata ieri: una delle mie preferite🌸
Anche per me vale quanto Caterina mi ha scritto. Le voglio un bene immenso, frutto del gran bene che mi lega ancora oggi a suo padre. E anche la poesia è tra le mie preferite. Ma c’è una poesia che mi fa tremare tanto è vicina a questo nostro tempo di guerra, di lutti e di dolore.
SUOR ADDOLORATA DEL SUPPLIZIO
Dio
d'amore coi lunghi capelli
Nino
aveva i riccioli neri
- Un
velo di latte Madre mia
la camicia di lino che mi portò
Ahi Madonna di mille grazie
aveva denti di margherita
mi chiamava Maria
Nino dal petto bruno
Nino di notte
di giorno di sera -
Partì
soldato
col
cuore di zinco
Morì
alla guerra
col
nome Maria
- Un grido di sangue Madre mia
la notizia di spine che mi arrivò
Aveva denti di margherita
Nino aveva i riccioli neri -
Perdona
Dio
d'amore coi lunghi capelli
Suor
Addolorata del Supplizio
se
morta
in
paradiso
cercherà chi chiama Maria (Cris/O)
Ogni commento è superfluo, sciuperebbe la struggente bellezza di questi versi. Ma mi piace riportare, a questo punto, un testo poetico in prosa, che ha un finale tragico, che deve molto farci riflettere. Un blog serve anche a questo: a “tenerci insieme” nei momenti di profonde riflessioni e verità. il testo si intitola “La guerra è finita” ed è di Daniela Leone, l’ultima mia nata che aveva meno di diciotto anni quando lo scrisse, ma è attualissimo:
L’uomo dalla barba troppo lunga camminava scalzo lungo il marciapiede.
I suoi passi - ritmicamente cadenzati senza perdere mai un colpo - sembravano calcolare quasi perfettamente la distanza da strada a strada, macinando infinite volte la stessa lingua d’asfalto. I suoi piedi avevano tutta l’aria di essere stati troppo a lungo attanagliati da due pesanti scarponi e adesso reclamavano ad alta voce la loro legittima libertà. Era quasi impressionante la meccanicità dei suoi movimenti. Incurante dei passanti con i loro sguardi sprezzanti, marciava - su e giù - senza mai alzare gli occhi da terra.
- Sguardo vuoto su piedi di polvere e squarci -. Non si era fermato neanche davanti ai pezzi di vetro sparsi per terra appartenuti alla bottiglia di vino rosso che il bimbo con le mani da bimbo aveva fatto cadere poco prima - e il bimbo biondo era ancora lì che piangeva, guardandosi le mani come fossero state pezzi di burro - e nelle lacrime tutto il terrore di una punizione senza ragione -.
L’uomo aveva continuato per tutto il tempo a marciare. Marciava la sua barba, marciavano i capelli, marciava il suo respiro, la sua ombra. Non aveva avuto la voglia di smuovere neanche un muscolo del viso di fronte a quel gruppo di ragazzi idioti che avevano continuato a seguirlo, in mezzo a boccacce e risa e insulti, per un buon quarto d’ora.
Non danzavano le sue mani. Erano lasciate penzoloni lungo la robustezza sei suoi fianchi. Urlavano stanchezza nel loro desiderio di immobilità, avrebbero forse voluto fermare il tempo, trattenere quella marcia infinita e armonizzare il tutto nella staticità del loro essere.
Poi, di colpo, come fosse stato svegliato da una violenta dolcezza, si fermò.
Alzò lo sguardo al cielo.
Mosse il viso in posizione di sorriso.
Uno scintillio di ferocia impotente attraversò le pupille.
Dalla tasca destra tirò fuori una rivoltella.
Uno sparo… e il resto del mondo si fermò a guardare… (da: Perituoidiciottanni, raccolta di poesie e prose di Daniela Leone a cura di Angela De Leo, 1994)
E anche noi ci fermiamo col cuore
in gola per tanta straziante solitudine e per tanto doloroso ricordo di una
guerra mai finita nell’anima martoriata più del corpo dell’uomo possente e
disperato, che continua la sua marcia all’infinito. E i tanti dettagli, anche
ossimorici, servono a definire la situazione oggettiva del mondo che gli ruota
intorno e la condizione soggettiva di chi ha troppo lottato la violenza con la
violenza, ricavandone sconfitta e disinganno. E una stanchezza impotente per la
propria finitudine sul vuoto assoluto dell’abissale distanza del cielo come
unico richiamo... Mi sorprende, comunque, ancora oggi la
profondità di pensiero e la cifra stilistica già ben definita dell’autrice non
ancora diciottenne.
A questo punto, desidero riportare qui la cronaca, altrettanto
amara, proprio di questi giorni di una scrittrice affermata anche se
giovanissima, di appena ventitré anni, Angelica Grivel Serra, mia tenerissima
amica:
Considerate se questo è un uomo. Cinque dicembre. Sino a quattro
giorni prima, il nonno Riccardo, alla soglia dei novantanove anni, cuciva le
asole e rassettava i bottoni sbilenchi, concentrando lo sguardo e i moti veloci
dell’ago minuscolo tra le sue mani senili, secondo gli usi dell’antico
mestiere. Di colpo, piomba. Una rapace fiacchezza gli avvince il corpo. Dorme,
perlopiù. Nel riconoscere i nostri volti, in quei rari barlumi di vaga
coscienza, dispensa un sorriso; ma un sonno invincibile avviluppa ogni ora
della sua giornata. Sei dicembre, prime ore del pomeriggio. Urge un’ambulanza.
La febbre è vertiginosa e impenna ai quaranta. Il termometro s’accende di
rosso. È un principio di bronchite, ci dicono. E non è gestibile in casa.
L’ambulanza lo porta via. Il nonno Riccardo, novantanove anni il primo di
gennaio, finisce al Policlinico di Monserrato. Una prima chiamata placa per un
istante il peggio: no, niente Covid. E no, non c’è degenerazione in
broncopolmonite. L’istante dopo, il gelo: no, non potete fargli visita. E no,
nei prossimi giorni non avrete informazioni. Perché? Ci sono le festività,
rispondono. Perciò, c’è solo un medico di guardia. Ci danno dei numeri. Ma ogni
chiamata è un incontro col vuoto. Non rispondono mai. Il nonno Riccardo,
vegliato e vigilato qui con l’attenzione e la delicatezza di cui la sua fragile
età necessitano, ora lo immagino lì, solo. Chi gli terrà la mano nottetempo?
Chi gli porgerà uno sguardo amico? Chi ravviverà il suo coraggio? E
soprattutto: quando risponderanno al telefono? Quando ci diranno se mio nonno è
ancora vivo? Considerate se questo è un uomo. (Angelica
Grivel Serra).
Angelica Grivel Serra non ha bisogno di ulteriori presentazioni. In tantissimi conoscono la bellezza della sua persona, l’eleganza dei modi, la schiettezza e la chiarezza dei sentimenti verso la vita e verso gli altri. Le sue attività culturali e artistiche che abitano la sua amata Sardegna, dilatandosi verso orizzonti sempre più ampi e lontani. L’originalità raffinata della sua scrittura. Ho letto questa sua cronaca intensa e amara dei primi di dicembre e ritengo sia giusto pubblicarla qui, nel nostro blog, in queste drammatiche vicende umane spesso “disumane”, perché “Se questo è un uomo”, in cui fa capolino anche la disperata condizione di Primo Levi, ha il coraggio di nonno Riccardo nella compiutezza della sua Persona, e la straordinaria sensibilità affettiva di Angelica a testimoniare una Umanità migliore.
Spero, intanto, che nonno Riccardo stia ancora lottando per regalarci il 1° gennaio la gioia di festeggiare insieme i suoi mitici 100 anni. E devo confessarvi, commossa, che il 1° gennaio ci saranno con noi altri tre compleanni da festeggiare: quello del mio adorato nonno Mincuccio (1/1/1882 - 11/1/1967), di mio padre Raffaele (1/1/1910 - 21/10/1986), e il compleanno di Primo, mio tempestoso e geniale marito (1/1/1941 - 4/6/2008). Sarà un incontro a metà strada tra le stelle del Cielo e quelle delle luci a rendere splendente il nuovo Capodanno. Ma occorre stemperare da subito tanta tristezza e tanta solitudine con due poesie, scoperte nelle Pagine FB di due carissime amiche, spesso presenti nel nostro blog: Maria Pia Latorre e Mariateresa Bari. Della prima ecco la dolcezza dell’Attesa, incarnata nel seno “di sferica perfezione” della Vergine Maria. “Ed è lì tutto l’indicibile amore”; della seconda leggeremo “Gaudete”.
D’umiltà magnifica/ il tuo sguardo/ culla notti stellate mentre/
in ventre tuo/ naviga/ il sogno incarnato// Limpido arco nel cielo/ in te si
compie l’attesa/ sferica perfezione/ nell’universo silente/ Ed è lì/ tutto l’indicibile
amore (Maria Pia Latorre).
Agguantato di stelle/ uno stupore fanciullo/ carezza il
disincanto/ e si nastrina di silenzio// Stempera il lamentario/ del rimorso/
imperdonabile l’errore// Il perdono è guizzo di neve/ nel sonno del dire/ a rallegrare
il tempo del fare (Mariateresa Bari).
Anche in queste due poesie, ricche
di metafore e di simboli, con un linguaggio che sta definendo la poesia del
terzo millennio, il messaggio e chiaro e luminoso per invitarci a “guardare” il
Mistero del Natale come LUCE di RI-NASCITA, di GIOIA e di AMORE.
Oltre il buio doloroso delle
vicende umane...
A domani. Angela
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