A distanza di soli quattro giorni, in questo dicembre di culle e di urne, sono nati Nico Mori e la sua amatissima figlia Manuela. Ed è una immersione nel dolore da quando Nico è urna e non solo culla. Oggi, perciò, vorrei parlare del dolore sempre presente alla nostra vita, senza distinzione alcuna. Non c’è persona al mondo che non l’abbia conosciuto nelle sue innumerevoli forme fisiche, psicologiche, spirituali, e vissuto in vari modi del tutto personali: chi tacendo, chi urlando, chi pregando, chi imprecando e bestemmiando; chi con paura, chi con coraggio; chi subendolo stoicamente, chi ribellandosi e adottando tutti i mezzi per debellarlo. Manuela spesso lo fa con la sapida ironia ereditata da entrambi i genitori, e soprattutto da suo padre. Ma, anche una volta sconfitto, esso ritorna e ritorna ancora, come l’alta marea, come la risacca alla battigia, come il pianto del bimbo nella culla. Come strada lastricata di pietre d’inciampo che fanno male, senza soluzione di continuità. A salvarci potrebbe essere l’Arte nelle sue innumerevoli forme. Sì, penso che l’Arte in qualche modo ci possa salvare. C’è chi si distrae dalla sofferenza cercando rifugio nella musica, chi gettando colori su una tela, chi costruendo un puzzle, chi usando parole per gioco, passione, necessità, scrivendo un romanzo o poesie, chi esercitando la mente a pensare, leggendo e rileggendo il pensiero dei grandi filosofi dell’antichità o del cristianesimo e, via via, fino ai nostri giorni. Chi scrivendo a tale riguardo un saggio. Chi amando il teatro come attore o come spettatore. Ognuno impara strategie di sopravvivenza pur di non soccombere al male. È il nostro stesso spirito di conservazione o “slancio vitale” a darci la forza di tentare tutte le strade per venirne fuori. Fino al prossimo assalto. Non ho le conoscenze e le competenze giuste per poterne parlare a livello filosofico o scientifico. In letteratura forse. Ma in letteratura infiniti sono gli esempi di autori che hanno parlato del dolore, essendo uno dei temi più presenti in tutte le opere letterarie dell’intera umanità. Persino quando gli scrittori si propongono di far ridere a bel guardare non possono che filtrare la risata attraverso il pianto. Dovrei scrivere trattati e in un blog manca lo spazio e il tempo, manca anche la pazienza e la perseveranza dei lettori a leggere testi lunghi, come mi ammoniscono i miei figli e i miei nipoti ogni volta che scrivo una pagina che si moltiplica per quattro o più. E allora non mi resta che fare, prima o poi, riferimento ai poeti e scrittori contemporanei, magari anche a quelli che conosco, che incontro su FB, che mi permettono ricerche brevi e a portata di mano, che però abbiano qualcosa di incisivo da dire e che quel qualcosa susciti emozione, empatia, condivisione. Regalandoci la possibilità di essere insieme e di sentirci meglio. Di superare, in questo caso, per la frazione di un attimo, i nostri inevitabili dolori. Già parlarne è, a mio parere, catartico.
E comincio dalla canzone di un grande poeta e cantautore
Roberto Vecchioni “Ho conosciuto il dolore” perché mi ha dato lo spunto per
parlarne: Ho conosciuto il dolore/ (Di persona, s’intende)/ E lui mi ha
conosciuto:/ Siamo amici da sempre,/ Io non l’ho mai perduto;/ Lui tanto meno,/
Che anzi si sente come finito/ Se, per un giorno solo/ Non mi vede o non mi
sente./ Ho conosciuto il dolore/ E mi è sembrato ridicolo,/ Quando gli do di
gomito,/ Quando gli dico in faccia:/ “Ma a chi vuoi fare paura?”/ Ho conosciuto
il dolore:/ Era il figlio malato,/ La ragazza perduta all’orizzonte,/ Il sogno
strozzato,/ L’indifferenza del mondo alla fame,/ Alla povertà, alla vita…/ Il
brigante nell’angolo/ Nascosto vigliacco battuto tumore/ Dio che non c’era/ E
giurava di esserci, ah se giurava di esserci… e non c’era./ Ho conosciuto il
dolore/ E l’ho preso a colpi di canzoni e parole/ Per farlo tremare,/ Per farlo
impallidire,/ Per farlo tornare all’angolo,/ Così pieno di botte,/ Così
massacrato stordito imballato…/ Così sputtanato che al segnale del gong/ Saltò
fuori dal ring e non si fece mai più/ Mai più vedere./ Poi l’ho fermato in un
bar,/ Che neanche lo conosceva la gente;/ L’ho fermato per dirgli:/ “Con me non
puoi niente!”./ Ho conosciuto il dolore/ E ho avuto pietà di lui,/ Della sua
solitudine,/ Delle sue dita di ragno/ Di essere condannato al suo mestiere/
Condannato al suo dolore;/ L’ho guardato negli occhi,/ Che sono voragini e
strappi/ Di sogni infranti: respiri interrotti/ Ultime stelle di disperati
amanti/ - Ti vuoi fermare un momento? - Gli ho chiesto -/ Insomma vuoi
smetterla di nasconderti?/ Ti vuoi sedere?/ Per una volta ascoltami! Ascoltami/
… E non fiatare!/ Hai fatto tutto/ Per disarmarmi la vita/ E non sai, non puoi
sapere/ Che mi passi come un’ombra sottile/ Sfiorante,/ Appena-appena
toccante,/ E non hai via d’uscita/ Perché, nel cuore rappreso,/ In questo attendere/
Anche in un solo attimo,/ L’emozione di amici che partono,/ Figli che nascono,/
Sogni che corrono nel mio presente,/ Io sono vivo/ E tu, mio dolore,/ Non conti
un cazzo;/ Non conti un cazzo di niente.// Ti ho conosciuto dolore in una notte
d’inverno/ Una di quelle notti che assomigliano a un giorno/ Ma in mezzo alle
stelle invisibili e spente/ Io sono un uomo… e tu non sei un cazzo di niente.
Un pugno nello stomaco davvero. Ecco, Vecchioni reagisce a
muso duro per tenere a bada il dolore e, da uomo che sente ancora emozioni e
vive ancora sogni e dignità di uomo solidale, è sicuramente vincente.
Il dolore di Manuela somiglia molto a quello di Vecchioni,
anche se ogni dolore ha una sua ragione d’essere e un modo unico di esprimersi,
manifestandosi o meno. Ma ogni dolore può somigliare ad ogni altro dolore? Pare
proprio di no perché, anche se scoprissimo una matrice comune, per esempio il
cancro, penso che toglieremmo verità a quello dell’altro malato dello stesso
male: la reazione sia fisica che mentale e psicologica sarebbe inevitabilmente
diversa per molteplici fattori endogeni (la soglia del dolore soggettiva, la
personalità, il proprio vissuto o i traumi dell’infanzia mai superati…) ed
esogeni (la cultura familiare, sociale, comunitaria, gli esempi o modelli di
vita…), che potrebbero accelerare il decorso della malattia o ritardarlo.
L’accettazione cristiana della sofferenza o la ribellione di chi non si affida
ad alcun dio.
C’è un libro di Nico Mori che ci mette di fronte al suo
dolore e a quello di Manuela. È Al confine di me (della SECOP
edizioni, 2015). Il Prologo è una lettera proprio a Manuela. Prendo alcuni
stralci fondamentali: Stanotte lui è venuto. All’improvviso ha smesso
di essere solo una parola scritta su un referto e mi ha azzannato con denti di
iena, contemporaneamente, in tutte le parti di me che silenziosamente in un
anno ha saputo conquistare. La casa dormiva (…). Eravamo soli lui e
io e mi avvolgeva con spire possenti (…). Ho realizzato,
incredulo, che stavo morendo. Ma prima di quello che mi è parso come l’ultimo
respiro, mi è esploso in cuore un urlo d’ira ed ho iniziato a difendermi,
gridando al bastardo che non mi sarei arreso facilmente. Lui non sapeva, non sa,
quanto a lungo io abbia resistito, negli anni di una vita intera, al dolore di
un’anima maciullata dal tempo e dalla solitudine ma che ancora si ostina a
inseguire teorie d’incanto. Un’anima che non smetterà mai di andare in cerca di
meraviglie, dovunque si nascondano, quale che sia il prezzo da pagare anche
solo per osservarle. Lui non sapeva, non sa, che opporre dolore a dolore può
essere una strategia vincente e che quel nero d’anima che mi porto dentro è
infinitamente più lancinante e distruttivo dei suoi morsi. (…). Non
so, Manuela, se ti è capitato di leggere il Libro dell’inquietudine di
Fernando Pessoa. Nelle sue parole, tu come nessun altro, riconoscerai gran
parte di me, di quello che sono oggi:
… all’improvviso sono giunto ad una sensazione assurda. Ho
capito, in una folgorazione intima, di non essere nessuno. Nessuno,
assolutamente nessuno. (…)…
Ed è qui che Nico, non riconoscendosi più perché si sente
nessuno (devastante sensazione di “non appartenenza” neppure al proprio “io”)
consegna il suo dolore a sua figlia, facendola complice della sua immane
sofferenza psicologica, più dilaniante degli artigli della iena che gli lacera
il petto, le carni e tutto il corpo martoriato.
Poi, però, Nico continua: Ma questa non è una
lettera triste, è una lettera d’amore e tu, come nessun altro, sai anche che
non sono sempre e solo quello delle parole di Pessoa. Il tuo papozzo è
e sarà sempre anche il compagno con cui andare a mangiare - complici - il
gelato d’inverno a Torre a Mare o quello che ti sorride con il cuore quando gli
dici seria e determinata: “Tu devi stare bene! Non puoi ammalarti senza il mio
permesso, ed io questo permesso non lo darò mai!”…
E questa è la risposta di Manuela alla revoca, da parte del padre, della consegna di quel suo lacerante dolore per alleggerirne l’impatto dell’enorme peso sulle spalle certo forti della prediletta figlia, ma pur sempre asimmetriche nella misura degli anni che a dicembre si facevano/fanno culla per entrambi. Il suo “papozzo” non era/è solo dolore ma anche “complicità d’allegria, di segreti d’amore incommensurabile come l’oceano-mare che li attraversava/ attraversa. E Manuela ha condiviso quel dolore complice di lacrime e di segrete ribellioni e meraviglie fino alla notte in cui ho sentito in un sussurro la sua voce ferma e tremante: “Nico non c’è più!”. E il dolore non ha più parole. Angela
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