Evito ormai da qualche tempo di guardare il telegiornale per molti motivi. La violenza in tutte le sue svariate e smodate forme mi fa stare male. I reportage raccapriccianti di guerra e i vari “ritrovamenti”, peggio. Ammetto di essere codarda e di non sopportarne la visione devastante della crudeltà feroce degli uomini che di umano non hanno più niente, neppure il rimorso. Per aver seminato e per continuare a seminare il terrore. Fosse stata paura, forse avrei accettato di guardarla in faccia, ma il terrore proprio no. E tento di spiegarne il perché. Penso che in guerra, e purtroppo siamo in guerra, perennemente in guerra, anche nelle nostre piccole o grandi guerre personali, persino nelle battaglie quotidiane, una delle poche possibilità di difesa sia proprio la paura. Sì, è la paura che spesso ci salva dal baratro di una situazione che sembra senza via di scampo e che mette in azione tutte le energie residue quali ancore di salvezza. Il terrore, invece, blocca la persona in un “timor panico” che ne impedisce ogni reazione. La immobilizza e la sconfigge del tutto. Ben venga, quindi, la paura a salvarci nei momenti difficili. Ricordo benissimo la terribile sensazione di disperata e disperante impotenza che provai il giorno in cui, in una bellissima estate nel Salento, che ci vide tutti coabitare nella villa dei miei suoceri a due passi dal mare, vidi Raffaella, la mia prima nata, a poco più di due anni, se non ricordo male, sparire d’improvviso sotto un’onda anomale, più alta delle altre. Eravamo semplicemente a riva. Ad un passo dal bagnasciuga. Io ad un passo da lei. Rimasi immobile, terrorizzata da quanto stava accadendo sotto i miei occhi. Fu mia cognata Nella di parecchi anni più giovane di me, e solo ad un passo dietro di me, che, con tutta la paura che le percepii addosso (solo molto tempo dopo però), corse ad afferrarla per il culetto e a riportarla a riva, tra le mie braccia inerti fino al suo pianto e ai suoi insistenti colpi di tosse. Solo allora mi scossi e fui in grado di mescolare le mie lacrime alle sue. Se non ci fosse stata la reazione istantanea di mia cognata alla paura di quella scena tragica, oggi non avrei con me mia figlia, con cui ci colmiamo di reciproco amore, ma moltissimi rimorsi, di cui non mi sarei mai liberata. Non avrei potuto ricordare con la forza del miracolo la leggerezza di quel bikini rosa sulle sue gambette malferme e sempre in movimento. Tutto questo preambolo mi serve per parlare, ancora una volta, dei miracoli che chiamiamo coincidenze solo perché non sappiamo vederli e decodificarli come tali. Ma non sempre essi sono gratuiti. Spesso ci chiedono un risarcimento fatto di sofferenze e di numerose “pietre d’inciampo” difficili da sostenere e superare. Occorre molto coraggio e determinazione a non lasciarsi abbattere per continuare ad andare avanti, e VIVERE. Certo, “nessuno si salva da solo”, come ci ha insegnato la scrittrice Margaret Mazzantini in un suo libro del 2015. Parole riprese anche da Papa Francesco durante la Quaresima di quest’anno, ribadendo che “Nessuno si salva da solo, perché siamo tutti nella stessa barca tra le tempeste della storia…”, ma occorre che ci sia Qualcuno che ci salvi, oltre i pochi o i tanti che potrebbero tenderci una mano per attenzione, amore, prontezza di riflessi, carità cristiana. Ecco perché, a mio parere, occorre imparare a “fare rete”, avere anche la forza di chiedere aiuto, di raccontare e raccontarsi perché gli altri possano sapere, capire, confrontarsi e prodigarsi in una reciprocità che è il cuore della fratellanza e della riscoperta della nostra stessa umanità.
Le
volte precedenti non ho avuto remore, infatti, a raccontare tutti i prodigi di
cui è costellata la mia vita sino dalla nascita, ma ho anche parlato di tutte
le mie fragilità, le mie “diversità”, le mie paure, i miei terrori, gli
impedimenti, i condizionamenti, le incomprensioni, gli ambienti fisici e
psicologici più volte persi e ritrovati. Durante l’infanzia e l’adolescenza. Persa
io a me stessa, e persi i punti di riferimento valoriali e affettivi che ho
dovuto a fatica recuperare per salvarmi. È stato un racconto abbastanza diverso
da quello delle ultime pagine del blog, in cui dominanti sono stati i prodigi.
Ho cominciato molto presto, in verità, a soffrire di “esaurimento nervoso”,
come un tempo veniva definita la depressione, quel tunnel buio che ti
attanaglia la gola, ti fa battere il cuore improvvisamente senza una ragione
evidente, in una situazione che percepisci soggettivamente comunque
angosciante. Mi venne a visitare la prima volta a 20 anni, in seguito alla
morte, per aneurisma cerebrale, nell’arco di una notte, di una mia ex compagna
di scuola. Eravamo entrambe all’università in facoltà diverse quando mi
raggiunse la fucilata in pieno petto. Per due anni somatizzai tutti i sintomi
dell’aneurisma fino al punto da non poter leggere o scrivere una sola riga
senza che mi assalisse un drammatico mal di testa con gonfiori sparsi sul cuoio
capelluto. Due anni senza poter sostenere un solo esame. Mi salvò l’amore dei
nonni. Ma le ricadute furono frequenti e sempre più difficili da superare.
Bastava un nonnulla. La morte mi terrorizzava. Un minimo riferimento mi
procurava discese nell’inferno da cui bisognava risalire. Ed erano anni in cui
la salute dei nonni divenne sempre più precaria e problematica. La lontananza
da Primo che, a vent’anni, aveva vinto il Concorso Magistrale a cui io non
avevo partecipato, e, dopo il primo anno d’insegnamento a Bari, dovette
trasferirsi a Minervino Murge, costituì continue “battute d’arresto” per il mio
equilibrio psicofisico instabile. L’attesa spasmodica delle sue lettere, e dei
suoi ritorni, spesso procrastinati per il maltempo o qualche imprevisto,
accendevano dubbi, che quotidianamente logoravano i miei nervi. Poi il mio
amatissimo nonno ebbe una emiparesi che lo tenne tra la vita e la morte per un
paio d’anni. Anche la nonna aveva problemi di salute sempre più seri e mamma
dovette far ritorno a Bitonto per prendersi cura di entrambi i genitori. Non
l’ho vista mai così stanca e spenta come in quel periodo. Tutto contribuiva a
togliermi serenità e voglia di vivere. Anche se i miracoli accadevano ancora,
eccome se accadevano (mio nonno ebbe la cancrena al lato destro immobile, con
perdita di tutta la parte inferiore del piede e dolori atroci. Eppure,
improvvisamente vedemmo la parte mancante ricrescere e farsi meno violenta la
sofferenza), ma io non avevo più lo spirito giusto per saperli cogliere e farne
preghiera. E sogni premonitori che mi spaventavano invece di portarmi luce e
sollievo. Anche quando non erano incubi, ma semplicemente preavvisi di quanto
sarebbe accaduto nelle settimane o nei giorni successivi. E tutto accadeva
esattamente come avevo sognato ad occhi chiusi o “visto” ad occhi aperti. I vari
shock anafilattici di mio marito, allergico agli antibiotici e alla penicillina,
e dei miei figli Ombretta e Giuliano, in tempi diversi e per cause diverse, ma
con le stesse allergie. Salvati per un niente che era un tutto: la vicina di
casa che, invocata dalla mia mente, aveva sentito la mia silenziosa
disperazione e aveva tempestivamente chiamato il nostro medico di famiglia, che
aveva lo studio all’altro capo del paese; il dottore giunto miracolosamente in
tempi brevissimi per scongiurarne la morte. La mia forza centuplicata nel
trasportare tra le braccia mia figlia esanime, dal bagno al salone, per
adagiarla suo divano in attesa dell’intervento tempestivo del nostro salvifico
dr. Michele. E potrei continuare senza quasi soluzione di continuità tra gli
episodi sognati e il loro accadimento alla lettera, ma mi occorrerebbe tanto
spazio-tempo per raccontarli tutti e non è possibile approfittare della
pazienza di chi mi segue sempre con tanta partecipazione e condivisione. Piano
piano, però, le matasse saranno dipanate e troveremo sempre il bandolo per
ricominciare. La narrazione non ha mai fine. Perché le storie da raccontare,
mie e degli altri, sono, a saperle/poterle riportare alla memoria, i n f i n i
t e, come infinito è il mistero che ci contiene tutti: il primo è l’Amore, il
più grande miracolo che difficilmente riteniamo tale. Proprio per questo, prima
di concludere desidero rendere omaggio a Giorgio Bàrberi
Squarotti con una sua breve ma intensa poesia, sintesi perfetta della sua
Persona come linguista, poeta, credente. Mio preziosissimo amico, in tutta la
sua grandezza e la sua umiltà:
“L’amore”
È certamente uno di loro (lui?)
per discrezione camuffato: appoggia
alla fine la mano sulla nostra
spalla, la scuote un poco, la sospinge
verso l’amore che la pietà vince
e il tempo, da quell’attimo di luce
vivo per sempre.
(Torino, 1 luglio 2015)
È l’unica poesia che esplicita con
chiarezza la parola amore. E soprattutto l’amore di
Dio, (lui?) in minuscolo. Pure si ha un inizio che ha in sé una certezza
incontrovertibile (“È certamente”), anche se subito dopo sopravviene il dubbio
allusivo (“(lui?)”), che è più di una conferma. E poi, via via, leggendo tutti
gli altri versi: “per discrezione camuffato”: Dio non irrompe nella vita di
ciascuno di noi, imponendo la sua presenza, ma lo fa con “discrezione”, spesso
sotto mentite spoglie, che comunque Lo rivelano. “Appoggia/ alla fine la mano
sulla nostra/ spalla, la scuote un poco, la sospinge…”: dunque, solo più tardi,
fa sentire la sua amorevole presenza al nostro fianco, magari dandoci qualche
segnale forte perché ci giunga il suo richiamo, ma poi continua a “sospingerci”
con delicatezza verso la concretezza e la verità del suo amore, che tutto
“vince”, originandosi “da quell’attimo di luce” di quando ci dette la vita.
Attimo di luce che è “vivo per sempre”. È, infatti, quella Scintilla divina che
si accende in ogni creatura, irradiandosi per sempre in tutto l’universo.
È questo il MISTERO IMMENSO DELLA
VITA. “Quell’‘attimo di luce’ è pienezza in sé conchiusa. E la luce è, fu,
e sarà. Come eterna Presenza che ci eterna, nonostante l’amara consapevolezza
di un mondo dissacratorio e violento” che offende qualsiasi divinità, lo stesso
respiro della nostra anima. Dio, invece, “è presente, testardamente presente,
infinitamente presente”. Senza un legame visibile, che si fa tangibile “in ogni
voce, ogni luogo, ogni volto. In ogni fremito di foglia. È nel cuore del poeta
che pure, data la grande sensibilità, parla con pudore della Sua immanente
trascendenza e della Sua divina immensità per il timore, tutto umano, che la
segreta ansia di Lui, la sua segreta certezza possano essere violate dalla sua
stessa narrazione. Dio è l’Inesprimibile. Più dell’amore e di ogni altro
umano sentimento, sentito intensamente e intensamente vissuto nell’intimità
della propria anima…” (cfr. A. De Leo, piccolo stralcio della Prefazione
a Le voci e la vita di Giorgio Bàrberi Squarotti, SECOP
edizioni, Corato-Bari 2015).
E non ci sono parole da aggiungere. Spero solo nei vostri commenti per confrontarci. Angela.
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