Quattro anni fa, dopo sette mesi di soggiorno forzato in varie strutture ospedaliere: dalla Mater Dei di Bari, (clinica di eccellenza dove vari Primari con diverse competenze di chirurgia ortopedica in due giorni fecero due interventi difficilissimi all’anca, ingabbiando l’intero arto in una struttura metallica da manuale, e al ginocchio, mettendo insieme ossa praticamente frantumate con vari chiodi e viti e… in soggetto allergico persino ai cerotti anallergici) all’Oasi di Corato (Centro di sanificazione e di prima mobilitazione degli arti, nonché soggiorno per anziani con varie patologie) a Riabilia nei pressi di Santo Spirito (Centro rinomato per la riabilitazione psico-fisica dei pazienti operati in varie Centri ospedalieri della Puglia), il 19 maggio tornai finalmente a casa…
Ed ecco il racconto, già pubblicato
allora su La Gazzetta del Mezzogiorno (se non ricordo male), per ricordare una
giornata di grandi emozioni nel sapermi viva e attesa con tanta gioia da tutti
i miei cari. Elodie è lo pseudonimo dei miei primi lavori di scrittura, quando
ero appena adolescente, e non avevo il coraggio di firmare col mio nome e
cognome.
<Elodie attese con ansia e pazienza
che suo genero andasse a riprenderla, dopo sette mesi di lunga degenza in vari
centri ospedalieri e diverse strutture di riabilitazione nei reparti di
ortopedia, per riportarla finalmente a casa.
19 maggio 2020: dimissioni. Le erano
state comunicate qualche giorno prima per farla abituare all’idea del ritorno.
E lei aveva impiegato quei giorni a rimettere un po’ di ordine nella sua testa
formicolante, dove tempo e spazio non trovavano più posto né il senso della
gente che vociferava fuori. Tutto per lei era ormai fermo in quello spazio di
camici bianchi e verdi, di pareti azzurrine, di vetri ad escluderla dal cielo,
di attrezzature con cui esercitare gambe e braccia a riprendere a funzionare. Per
ore la paziente Anna, sua fisioterapista di elezione, la aiutava a venire fuori
dal tunnel di due gambe offese, fragili, deboli, incapaci di sperare. Per ore
le Beatrice, Angela, Annamaria lavoravano con i disastrati pazienti sui lettini
del “dolore buono” per il recupero di un arto un dito, un pensiero, la parola,
lo sguardo. Lei guardava anche gli altri per vincere la sua inerzia e
districare matasse dolorose nei pensieri. E Giacomo di pomeriggio l’aiutava con
altre conquiste: salire e scendere i pochi brevi gradini per sentirsi ancora in
volo libero. Missione impossibile. E Icaro lontano. Ma era bello andare oltre
quel generatore che nella testa faceva brulicare continui ricordi vaganti,
ondivaghi, destrutturanti, che tentava di afferrare di qua e di là e che,
simili a folate di vento, le sfuggivano come i fili dei palloncini nelle mani
dei bambini. E li ripescava di notte, quando il cielo era un mare calmo di
silenzio più facilmente raggiungibile; i corridoi si acquietavano; le corsie si
addormentavano a tratti scosse da lamenti e urla e richieste di aiuto. Rapidi
passi silenziosi distribuivano cure e parole rassicuranti e tutto risprofondava
nell’abisso del nulla.
Lei non si lamentava. Amava quei passi
rassicuranti che frantumavano la notte e il buio, ma non chiedeva aiuto per sé.
Sapeva che Mara, tenero sorriso di complice premura, sarebbe entrata
silenziosa, con le sue ali d’angelo, e l’avrebbe aiutata, cambiata, lavata,
asciugata, rivestita come si fa con i neonati. Protetta. E lei rinasceva ogni
notte grazie a quelle mani, a quelle ali. Prendeva il cellulare dal comodino,
lo accendeva, cercava l’icona di “note” e scriveva il vuoto/pieno dei suoi
pensieri che magicamente si trasformavano in parole colorate di poesia. E ogni
notte così si salvava. Ritornava a vivere. Poi di giorno si ricominciava: le
dottoresse, le infermiere, le assistenti. Annamaria… Laura… Anna… le sue
infermiere col sorriso e l’allegria. E Isa… la sua premurosa compagna di stanza…
e Teresa sempre pronta ad affacciarsi con il suo “buongiorno” carico di sorrisi
esibiti e lacrime nascoste… E poi Maria più ingabbiata di lei e più bisognosa
di lei in un alternarsi di prestazioni di reciproco aiuto, avendo imparato il
dono della “cordata della solidarietà”, insegnatale da suor Maria Paola nella
precedente struttura ospedaliera, dove per fortuna i frammenti del suo corpo
martoriato avevano trovato rifugio e ristoro nella sua saggezza e umanità. E,
ancora prima, altra struttura, altre infermiere (Elena), altra fisioterapista a
salvare le sue gambe inerti, e altri angeli ad assisterla: Mimmo, Nicola, Luisa…
Volti… voci… mani… passi… Risorse e Speranze per rinascere… Ed ora, dopo ben sette mesi, e tante
turnazioni, lei restava lì a guardare dai vetri il mondo lontano… Fino alla
vigilia di quel 19 maggio, che aveva immaginato scritto di rosso sul muro
azzurrino, intoccato. Fuori la paura del Covid 19. Ancora un 19. Uno di ritorno
alla vita. L’altro di perdita della vita. Eterna contraddizione della vita
stessa.
Quel giorno aveva chiesto a Mara quale
fosse il suo turno. “Di mattina”, le aveva risposto lei. “Dopo la palestra
vieni a farmi bella per il ritorno a casa?”, aveva mormorato Elodie, vincendo
il senso di alienazione che l’attanagliava in un abisso di non ricordi. Scotomizzati volutamente, dimenticati
involontariamente. “Certo”, avevano risposto le sue ali con quel sorriso
luminoso che la rassicurava: acqua sui capelli e sul corpo a rivoli, a cascata,
e poi riccioli appena accennati tra ciocche asfittiche di neve sfilacciata e
sole radente e sfinito. “Voglio unghie smaltate di rossofuoco come i papaveri a
primavera”, Elodie le aveva chiesto con un’occhiata di complicità birichina,
mentre stava pensando, compiaciuta, che magicamente “sentiva” il cervello a
posto senza formiche e senza vento, senza abissi e spaventi. Stava ricordando
bene. Sì, era proprio primavera ed era maggio, il mese dei papaveri a riempire
di baci ardenti il verde delle foglie bambine al primo canto. Il suo mese di
meraviglie e magie: rose accese di rosso nel cortile; anni giovani da sfogliare
come petali di rosso profumo; preghiere di rosso tramonto che s’inerpicavano al
cielo delle dodici stelle a incoronare una Madonnina come tenera carezza
d’anima che i nonni donavano ai vicini di casa in un coro di canti e di fede
ingenua e vera. I suoi sogni che non andavano lontano eppure si libravano in
volo. Oltre il cortile.
Quando era adolescente era un rito andare in campagna con le amiche per fare un gioco divertente e simpatico, che le metteva addosso tanta allegria e tanta voglia di vivere, di amare ed essere amata: prendevano a turno le spighe di grano non ancora maturo e, spingendo con le dita le piumette verso l’alto sulla schiena di ciascuna a turno, le vedevano uncinarsi, impigliate, nella trama dei loro maglioncini leggeri. Si contavano le piume e si ipotizzavano i vari ammiratori da prendere in considerazione. Poi prendevano le bocche ridenti dei papaveri accesi di vento leggero e ogni petalo veniva racchiuso a palloncino fra le dita e schiacciato sulla fronte: se vi lasciava un cuoricino rosso stampigliato sulla pelle, avrebbero ricevuto a breve un bacio dal ragazzo abbinato, nella mente o ad alta voce, a quel petalo fino a raggiungere il numero delle piumette raccolte nell’altra mano, cioè di tutti i ragazzi elencati…Il gioco si faceva sempre più coinvolgente, soprattutto se nella comitiva c’erano anche i ragazzi, alcuni dei quali erano proprio quelli che facevano battere il loro cuore e a cui silenziosamente era rivolto l’intenso, trepidante desiderio di quel bacio… Il ricordo le accese gli occhi della rossa allegria dei papaveri che di riflesso imporporò le guance e fece vibrare le labbra ardenti dello stesso colore. Quanto tempo era passato da quella allegria? “Forse solo un minuto o un’eternità”, si disse Elodie con lo sguardo sognante, che nonostante tutto le era rimasto ancorato sul volto di eterna Alice.
Avrebbe chiesto a suo genero, che
tutti pensavano fosse suo figlio per le quotidiane cure che le prestava, anche
ora a distanza per via del virus, di portarla al mare prima del ritorno a casa.
Lungo la strada avrebbe, poi, visto tra l’erba dei declivi i papaveri che
l’avrebbero salutata e resa felice. Come un tempo sempre le accadeva ad ogni
suo rientro a maggio da altri Paesi e Città. Elodie amava molto viaggiare,
zingara nell’anima. E amava la poesia che riempiva la sua anima di colori di…
versi.
E Pietro arrivò da solo, puntuale. Il
Covid aveva ferree leggi da rispettare. Solo in due in macchina. Anche lei era
pronta. Con una piccola stretta al cuore per quella solitudine subìta anche ora
che avrebbe voluto cantare la sua libertà di nuovi abbracci e baci con i suoi
di casa. E uscì oltre la vetrata, oltre il cancello. Con un vestito nero su cui
ridevano papaveri squillanti come campane a festa a portarle una poesia di
giorni nuovi, di unghie e rossetto dimenticati e ritrovati. Un filo di matita
sugli occhi a ingigantirle lo sguardo di stupore. Per innamorarsi di nuovo del mondo,
fuori e dentro di lei. Una coccinella smaltata di rossofuoco si posò sulle sue
mani a salutarla festosa con l’intento non troppo nascosto di portarle fortuna.
Oltre la vetrata che l’aveva tenuta prigioniera, incartata come una caramella
alla fragola.
Era il suo primo giorno di vita.
Mara e Gianni e Anna e Giacomo,
commossi quanto lei, l’accompagnarono, col girello e le due stampelle di colore
verde prato, fuori fino alla macchina. Per aiutarla a salirvi. Le lacrime a
stento trattenute. Si salutarono con un “arrivederci” e con un battito d’ali
che non prevedeva un “addio”. Era fuori ed era libera! Dopo l’inferno, la luce
del primo nuovo giorno. La LUCE.
Solo più tardi Elodie si ritrovò tra
le braccia di sua figlia Nike, sguardo d’amore ali di vittoria su ogni male.
Prima, suo genero Pietro, roccia che sostiene e protegge, senza che lei glielo
avesse ancora chiesto, la portò al mare dei suoi tuffi bambini nel profumo
intenso d’alghe e di vento alla scogliera rumorosa di bianco merletto
d’improvvisata sposa, spuma leggera nuvola dorata di appena sole. E le fece una
fotografia-ricordo persa nell’azzurro cielo-mare, per immortalare il suo
sguardo a rincorrere l’orizzonte sfiorato da una vela in gara col suo cuore acceso.
Poi la riportò a casa lungo campi punteggiati di verde e di rosso. E davanti al
cancello l’aspettava, non più il suo cane “nuvolabianca”, ma un ciuffo di
papaveri rossofuoco a colorare di gioiosa festa le pietre vive del muro in
attesa del suo ritorno.
Dentro, ad aspettarla, c’erano sua
figlia e i due suoi adorati nipoti, in un coro di gioiosa esultanza, che era
cerchio d’AMORE INFINITO. E gli altri figli lontani già in videochiamata per
salutare il suo ritorno alla vita, al loro cuore e a quello di tutti i suoi
cari. Ignari della sua decisione di andare ad incontrarli quanto prima in un
luogo tra mari e monti e tanto cielo dove il Covid non era di casa. Lei zingara
anche ora. Viandante senza scarpe e senza catene. Anche le stampelle erano ali.
Ma, prima di entrare in quella vetrata
illuminata dalla luce del loro sorriso, Elodie, oltre il cancello, corse a
perdifiato, con gli occhi grandi di sogni e ricordi, lungo quel campo di baci
ardenti per non mancare all’appuntamento con il ragazzo che aveva avuto un
tempo tra le mani il suo cuore. E si sentì finalmente rinata con mille papaveri
in fiore tra i pensieri.
Sul
filo dei ricordi
stivaletti
rossi danzano
funamboli
di sogni
mai
dimenticati
E
il rosso del vestito
a
incendiare
i
tuoi occhi le tue mani
incapaci
di afferrarlo
Negli
anni più volte si spezzò
quel
filo strattonato dal vento
ma
sempre riuscì ad agganciarsi
al
cielo delle infinite lune…
(rossi
i papaveri ubriachi di sole)> (Angela
De Leo)
Spero che i papaveri ubriachi di sole illuminino questa domenica, che ha ancora ali di preghiera per nuovi miracoli che chiedo al Cielo perché sia un ritorno a casa anche per chi adesso ne ha bisogno per tornare a Vivere e a Sperare. Insieme ogni Rinascita è possibile. Grazie. Angela/lina
Carissima Angela (nomen omen !) ogni tuo scritto è prezioso perché ci regala bellezza e saggezza: non vedo l'ora di arrivare alla fine ma poi ritorno su a riguardare con calma le tue parole. Ti nutri di buoni sentimenti e chi ti legge si nutre di te. Grazie.
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