Con il tempo si impara la sottile differenza
fra sostenere una mano e incatenare un'anima, (…)
e uno comincia ad accettare le sue sconfitte
a testa alta e con gli occhi
aperti
e uno impara a costruire tutti i suoi cammini
nell'oggi,
perché il terreno di domani è troppo insicuro per
far piani… e i futuri hanno la forma di cadere
a metà.
(“Col tempo imparerai” recita una poesia
attribuita a Jorge Luis Borges)
E così, senza mai averlo messo in conto, sono diventata
insegnante, mio malgrado e con tanto amore, attraversando nel tempo quasi tutti
i gradi di Scuola fino a collaborare con l’Università per parecchi anni, fino a
quando la prima caduta mi precluse l’accesso al terzo piano dell’Ateneo, dove
c’erano le facoltà che più mi si confacevano. E sempre senza averlo mai messo
in conto nei miei rari progetti di vita, tra sogni a migliaia, sono stata
preparatrice per oltre trent’anni, quasi per caso, di centinaia di candidati ai
vari Concorsi di reclutamento nella Scuola di ogni ordine e grado, persino per
Dirigenti scolastici. Tutti gli anni della giovinezza e dell’età matura. Una
vita trascorsa sui libri e tra i libri. Chi l’avrebbe mai detto. Mai dire mai.
Eppure a sedici anni avevo detto: MAI! E, invece, fu lunghissimo impegno
vissuto con passione. SEMPRE! E tante parole ma anche tanto ascolto. Quanto
importante l’ascolto!(lina secondo te… lina che mi consigli… lina ho dei
problemi posso venire un po’ prima devo parlarti… lina mi spieghi di nuovo
questi appunti… lina ho il cuore gonfio… parliamone…
perché non metti sulla porta “succursale del centro di
ascolto” per cuori infranti per coppie in crisi per donne in preda alla
solitudine alla dispersione d’identità alle prese con il caos dei tanti appunti
da scrivere e studiare dei libri da consultare degli anta alle porte del tempo
che avanza e la beltà cancella?… Primo ironico sornione irridente…).
Io da anni insegnante. Io insegnante? Sì. Insegnante. Chi
l’avrebbe mai detto? Grazie a mio nonno, mio antico e ottimo maestro di ascolto
e di vita? A “rə sflamamìndə” (ai rimproveri a gran voce di nonna
Angelina? Al mio arrendermi a “fare di necessità virtù”? Non mi so rispondere.
Sta di fatto che nella mia vita non ho mai scelto quello che avrei fatto, sarei
diventata. Tutto mi è capitato per caso, sollecitato magari dagli altri. Non lo
so. Mi è capitato. Senza mai un’ambizione, una determinazione, una motivazione
a diventare, a fare… So che ho insegnato per oltre ventitré anni, andando però
presto in pensione per via di una prima caduta e del femore spezzato per la
prima volta, che non fu l’ultima. Esperienze devastanti che non amo ricordare.
Io insegnante, dunque, senza mai averlo voluto. Anzi! Con un certo disagio
nella scuola elementare per via di materie che non amavo e di competenze
didattiche che non possedevo. E più tardi docente di lettere nella scuola media
con un respiro più mio in nuovi percorsi didattici e in nuovi ambienti di
lavoro. Nuovi incontri. Nuove sintonie e distonie. Nuove colleghe e amiche di
viaggi brevi e di confidenze lunghe, con risate a propiziarci ogni rinnovato
giorno da vivere insieme con i nostri alunni, da accogliere in classi di
speranze e difficoltà e da lasciare andare al suono della campanella. Uno
sciamare di rondini all’incontrario. E il mio paziente raccogliere,
questo sì, gli appena abbozzati sogni e gli scarsi progetti di vita di tanti
preadolescenti per arricchirli di conoscenze e di speranze. Con empatia e
dolcezza. Con il dovuto ascolto per scoprire piccoli talenti e grandi bisogni
in attesa di aiuto. Per “star bene insieme a scuola”.
E descolasticizzare la sempre odiata
istituzione
Condivisioni e confronti con colleghe/amiche con cui vivere
la gioia/fatica quotidiana di educare, insegnando, e di imparare
contemporaneamente. Battute da inventare con i dirigenti scolastici per ogni
possibile ritardo ed evitare a me e alle altre un richiamo con le parole e un
rimprovero nello sguardo. Nicchie di buonumore a propiziarci ogni nuovo giorno
di intenso impegno formativo. Responsabilità e progetti per allargare orizzonti
e dilatare esperienze conoscitive ed esistenziali
(professore’, non verranno mai i miei genitori a parlare
con te è inutile che insisti rassegnati sono io il padre e la madre di me
stesso…)
(Professore’ cùssə jè fìgghjəmə tu dògghə mòuə e mu vénghə
a pəgghià chə la ləcènzə tra tre jànnə nàn tènghə tìmbə da pèrdə chə la scòlə e
chə rə prəfəssùrə…)
(professore’ questo è mio figlio te lo lascio adesso e me lo
vengo a riprendere con la licenza fra tre anni io non ho tempo da perdere con
la scuola e con i professori…)
Amare lezioni di spicciola filosofia da imparare dagli
ultimi. E rincuoranti confronti con i primi della classe. Anche loro con
problemi, di altra natura certo, ma da ascoltare, da seguire, da guidare nei
loro voli, nelle loro urgenze E i tanti alunni con disagi relazionali,
linguistici, affettivi, comunicativi. E Domenico, padre di sé stesso, e Cassandra,
orfana di madre e già matura con una nonna da accudire. E Valeria, bravissima a
cimentarsi anche lei con testi poetici, ma anche lei con una enorme pena nel
cuore. E Barbara, sua compagna di banco, altrettanto brava e altrettanto
attenta. E Giacomo e Cesare a primeggiare per volare lontano… Me li
porto tutti nel cuore, senza fare distinzione alcuna, se non quella della
urgenza della mia presenza, accogliente e attenta ad ogni loro disagio, nei
giorni vissuti insieme. E anni lunghi vissuti nelle varie strutture scolastiche
nei paesi più vicini al mio paese, dove non mi andava di insegnare, per
intuibili motivi che è superfluo raccontare. Ma sempre con Parole da dire e da
ascoltare e correggere e valutare a scuola e a casa. Parole con gli alunni, con
gli insegnanti, con i Capi d’Istituto, con le famiglie. Con i genitori che
venivano subito da me chiamati per “stringere un patto di alleanza" sui
programmi da seguire insieme, sulle insolite metodologie che avevo in cuore di
adottare, sulle valutazioni da fare in comune e persino le autovalutazioni da
vivere a coronamento, nel bene e nel male, di ogni anno scolastico".
C’è un tempo per capire,
un tempo per scegliere,
un altro per decidere.
C’è un tempo che abbiamo vissuto,
l’altro che abbiamo perso
e un tempo che ci attende.
(Lucio Anneo Seneca)
Sì c’è un tempo per ogni nostra esperienza di vita. Un
tempo per insegnare e un tempo per imparare? No. Un tempo per insegnare e
imparare insieme! Se accadesse contemporaneamente, vinceremmo la più grande battaglia
contro l’ignoranza e la diffidenza; contro la presunzione di chi crede di
sapere e l’umiliazione di chi pensa di non sapere e si rifiuta di imparare… ce
lo ha insegnato proprio Seneca circa duemila anni fa e non abbiamo ancora
imparato la sua preziosa lezione: Recede in te ipse quantum potes; cum
his versare qui te meliorem facturi sunt, illos admitte quos tu potes facere
meliores. Mutuo ista fiunt, et homines dum docent discunt. (Ritirati in te
stesso per quanto puoi; frequenta le persone che possono renderti migliore e
accogli quelli che puoi rendere migliori. Il vantaggio è reciproco perché gli
uomini, mentre insegnano, imparano).
C’è un tempo per vincere e un tempo per perdere; un tempo
per ricominciare, per incontrare gli altri e per incontrare sé stessi. Un tempo
per amare ed essere folli d’amore oltre ogni dire. E un tempo in cui quei
ricordi sono sorgente di vita più che di rimpianti. Ma è sempre, in ogni
tempo, tempo di parole. Per comunicare. Per esprimersi. Per ascoltarsi. Anche i
silenzi parlano a quelli che sanno ascoltarli. E anche con i figli c’è stato il
tempo delle parole oltre al tempo dei silenzi. E nuovi ricordi mi illuminano il
cuore. E non importa se li ripropongo ancora.
Le
parole… I figli…
Fiori sbocciati e non attesi e subito da me amati, subito
protetti da ogni incertezza e sofferenza e subito lasciati ad ogni incertezza e
sofferenza. Uno dopo l’altro: Raffaella a restituirmi risate e
parole. Ancora oggi lei sa vestire le parole con ricami di sorriso e di
luce. Ombretta, che ebbe fretta di nascere perché io potessi sapere
del suo lungo pianto e delle sue risa di ciliegi incantati ad ogni primavera
del suo cuore. Con parole inventate, arrangiate, distorte, cantilenate. Giuliano a
donarmi la felicità nella frazione di un attimo: il suo affacciarsi al mondo.
Il mio bimbo di sorrisi in un dilagare di giorni che speravo più sereni. E il
suo tornare a casa con sempre un racconto strampalato da inventare per
sorprenderci o farci preoccupare. Una fantasia indomabile di parole la sua
conquista di libertà. Daniela, “la mia appendice che rischia di
diventare appendicite con pericolo di peritonite”, come le ripetevo per il suo
essere legata a me a doppia mandata, e ai miei biondi capelli che le regalavano
“fiumi di parole tra noi” (I Jalisse) (perché io non ho i capelli biondi? li
voglio biondi come ce li hai tu a furia di lavarli e pettinarli devono
diventare biondi… anch’io da bambina li avevo castani poi con la
polverina magica diventarono di sole e spighe di grano… li voglio
pure io… quando diventerai grande… li voglio
adesso…).
Figli come ciliegie da mangiare a ciuffi a manciate.
L’una tira l’altra. E letterine da insegnare a tutti prima che la
scuola bloccasse la loro gioia d’imparare (a come Avventura/ b come
Bravura/ c come il Cestino della frutta e la verdura/ d come Diamante/ e come
Elefante… f come Farfalla che nel prato prenderò…). In intervalli di
complicità e fatica, una nuova scintilla di vita sotto il mio cuore e un aborto
oltre il quarto mese e un nuovo dolore da ingoiare con labbra mute. Esperienza
lacerante con l’anima in frantumi da ricomporre ancora e ancora. Un altro bimbo
a ricordarmi lacrime perdute in fondo al pozzo di una luna bizzarra e
prigioniera. E parole da dedicargli e ninnenanne da cantargli in silenzio solo
in silenzio. Non ho saputo mai urlare il dolore.
Ma i figli che crescono e si crescono senza una regola certa
da seguire. “Che dite se oggi non andiamo a scuola?”, io seduta in
cucina dopo la colazione a invogliarli a rimanere a casa, e i loro occhi increduli
ad interrogarmi ed io incredula a registrare la loro voglia di andare, e il
loro senso innato del dovere a chiamarli nonostante le tenere persuasive parole
materne a trasgredire, e io a perdermi nella loro incredulità. Quella voglia di
non andare a scuola era la nostra bandiera di descolarizzatori, mia e di Primo,
issata sul pennone della nostra navepirata sempre in viaggio tra mille flutti e
marosi, in mattine di pioggia o di neve, ma anche in azzurre giornate di sole (che
dite? ce ne andiamo in campagna a vedere i ciliegi in fiore? conosco un campo
che conosce i passi ridenti della mia infanzia…). Non avevo mai amato la
scuola sin da bambina, e non l’ho amata neppure da insegnante amando, quasi più
dei miei stessi figli, gli alunni; rovistando, soprattutto negli occhi dei più
ribelli, dei più timidi, dei più lenti e svogliati, le loro difficili, amare,
improponibili storie. Invogliando i più diseredati a recitare meglio dei più
preparati le drammatizzazioni e le rappresentazioni teatrali che imbastivo
durante l’anno scolastico soprattutto per loro: la loro e la mia rivincita in
una scuola che li voleva perdenti e sconfitti. Che mi avrebbe voluto perdente e
sconfitta senza riuscirci mai (‘non mollare mai non mollare di
fronte alla regola… a due più due che deve dare quattro mentre per te è sempre
più di nove… non mollare di fronte alla banalità di uno studio mnemonico di una
lettura consigliata e non vissuta… di una grammatica o sintassi studiata sui
libri e dimenticata nei testi da leggere e da scrivere… di una interrogazione
che non ha senso se non ami quello che ti chiedono di dire’…).
E anche per oggi va bene così. Ma non demordo. Tra poco sarò ancora con voi e la mia detestata/amata scuola e il mio detestato/amato ruolo/compito di insegnante. Buona lettura. Angela/Lina
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