… Per il mattino che ci dà l’illusione di un principio
(Jorge Luis Borges, Altra poesia dei doni)
“Se incontrarsi resta una magia,
è non perdersi la vera favola”
(Massimo Gramellini)
Oggi è la Giornata Mondiale della Felicità. Ed
io augurerei un “pizzico” di felicità a tutti nel mondo, se non fossi
consapevole di questi giorni bui e difficili in tutto il nostro Pianeta, che
stiamo distruggendo con le nostre stesse mani in nome del dio-denaro che
ottenebra orai mente e cuore di chi regge le sorti delle “umane genti”. Eppure sono
convinta che un “pizzico di felicità” esiste per tutti noi, altrimenti non
avremmo neppure coniato la parola felicità. Fosse pure per un istante l’abbiamo
incontrata, provata, vissuta. E poi dimenticata. Tentiamo allora, almeno oggi,
di farla riaffiorare in qualche bel ricordo del passato. La felicità era più a
portata di mano? Non credo, perché ogni epoca ha avuto le sue tempeste, ma
anche i suoi arcobaleni, altrimenti l’umanità si sarebbe estinta già agli
albori delle sue prime aurore. Ed ecco i miei ricordi che si vestono anche di
felicità.
*Quando tornai a casa per iscrivermi
all’Università, ritrovai le mie amiche di sempre e solo pochi amici.
Ci eravamo iscritti entrambi, io e Primo, alla
Facoltà di Lingue: lui per passione, io solo per seguirlo. Ancora una volta da
perfetta incosciente, avendo piena consapevolezza che le lingue non riuscivo a
masticarle affatto. Ero decisamente negata, non tanto nella traduzione, quanto
nella lettura e nella comunicazione orale. Mai avrei imparato a pronunciare una
sola parola straniera correttamente. E ancora oggi mi accade. (Così come non sono riuscita mai ad
imparare i dialetti dei vari paesi abitati. Per le lingue ci vuole un orecchio speciale
tranne che per la lingua materna, che ci penetra dentro profondamente sin dai
nostri primi giorni di vita e mai si cancella. E si ripropone in ogni
situazione viscerale di disagio, di crisi, di gioia, di dolore).
Fu un anno senza mai partecipare ad una sola
lezione, paghi soltanto di essere insieme.
Incoscienti e felici. Immemori e felici. Appassionati e felici.
Corso Trieste. Lunghe giornate a chiacchierare
nella saletta degli studenti, dietro i vetri e con i libri mai sfogliati.
Passeggiate romantiche sul lungomare, infaticabili camminatori noi in gara con
i gabbiani. Corso Cavour: e i panzerotti al Bar Italia, i gelati al Bar Gasperini,
il caffè alla Motta. Lunghe incursioni all’UPIM e alla STANDA. I regalini da quattro
soldi e la felicità nelle tasche vuote. Altri attimi di gloria e di euforia per
essere stata eletta miss matricola. Ancora una volta la bellezza a incoronarmi
regina. Esaltazioni in due. E danze e voli e ricami di voli e sogni. E
progetti…
Poi, il Concorso di Primo l’anno successivo e
il suo impiego nella scuola come il più giovane maestro d’Italia. Io non vi
avevo partecipato. Sapevo con certezza che non volevo fare l’insegnante.
Soprattutto nella scuola elementare. Ma fui contenta della sua scelta e del suo
successo. La mia corsa, la mattina dell’assegnazione della prima sede
d’insegnamento, sotto un temporale spaventoso, per raggiungerlo in
Provveditorato, dove c’era anche suo padre. Portai con me due bicchieri di
carta e una bottiglietta d’acqua per brindare (… “brindisi coi bicchieri
colmi d’acqua/ al nostro amore povero e innocente”…)*.
<Lo raggiunsi che ero la cascata del
Niagara (il papà di Primo si preoccupò e mi rimproverò bonariamente), ma io
rimasi bagnata fradicia fino al mio ritorno a casa, la sera. Tu ti allarmasti e mi guardasti a lungo in
silenzio. Il nonno della pioggia ebbe paura della pioggia e imprecò contro
l’incoscienza della giovinezza. Rimasi a lungo a letto con febbre e
raffreddore. E senza Primo, che dovette presentarsi a scuola e poi ripartire
con suo padre in attesa dell’inizio dell’anno scolastico. Il primo ottobre.
Mi avevano iscritto, intanto, contro il mio
volere, alla Facoltà di Lettere, previo esame di ammissione, essendo a numero
chiuso. Dato che, secondo il vostro parere, avevo sprecato inutilmente un anno,
che, a mio parere, avevo vissuto in una pienezza perfetta di momenti
irripetibili e meravigliosi. Cercai in tutti i modi di non sostenere l’esame,
ma Lizia e Pinuccio, che nel frattempo era diventato il suo ragazzo, mi
accompagnarono fino dentro l’Ateneo e, mio malgrado, dovetti svolgere
negligentemente un tema su Pascoli e D’Annunzio (ce la misi tutta per farmi
bocciare, improvvisando una mia discutibile argomentazione sul valore
immaginifico della poetica dannunziana contro la semplicità puerile di quella
pascoliana, l’esatto opposto della tesi sostenuta dal noto professore
salentino, docente di Lingua e Letteratura Italiana nel nostro Ateneo, in un
suo saggio monografico appena pubblicato e da me ignorato!).
Come ben sai, mio malgrado e con grande
sorpresa, risultai tredicesima su oltre duemila concorrenti per sole trecento
iscrizioni, per cui dovetti accettare di cambiare Facoltà e Sede e soprattutto
di separarmi, ancora una volta, da Primo.
Cosa mai avrò scritto di così convincente da
farmi superare con quella valutazione un esame così selettivo? Non me lo sono
mai più chiesto dopo la telefonata che ricevetti da Peppino tuo nipote che,
essendo stato il primo cospiratore e fautore della mia iscrizione all’esame di
ammissione alla Facoltà di Materie Letterarie, che lui riteneva più consona
alle mie capacità e inclinazioni, era andato per curiosità all’Ateneo a
rendersi conto di persona dei risultati. Da me intenzionalmente ignorati. Mi
comunicò l’ammissione e il voto con grandi esclamazioni di giubilo, gettandomi
nella disperazione più nera al pensiero di dover abbandonare la mia postazione
nella saletta degli studenti di via Trieste per trasferirmi sola soletta
all’Ateneo. Dove, mio malgrado, cominciai a frequentare i vari Istituti del
terzo piano con grande riluttanza e propositi di fuga. E, lasciata a me stessa,
mi imbarcai in un periodo alquanto ingarbugliato della mia vita. Arrivavo
sistematicamente in ritardo alle lezioni o le saltavo del tutto, non individuando
per tempo l’aula o andandomene in giro per negozi in via Sparano. Voi, tu e la nonna, eravate ora fieri di me.
Finalmente avevo imboccato la strada giusta. In realtà, dopo solo qualche mese
commisi la prima imperdonabile gaffe: scambiai un giovane assistente per uno
studente e, chiedendogli il programma d’esame che avrei dovuto sostenere due
giorni dopo, gli dissi che non avevo ancora aperto libro. Ridemmo insieme. Il
giorno dell’esame, me lo ritrovai, ed era il mio primo esame, in cattedra,
pronto ad interrogarmi, avendo entrambi negli occhi il nostro piccolo grande
segreto. Conseguente batticuore e voglia di scappare via. Lizia mi spinse verso
la cattedra non appena venne pronunciato il mio nome. E, mentre lui si stava
divertendo un sacco nel vedermi così sconvolta e avvilita, cominciai ad
avvertire sotto i piedi le sabbie mobili in cui avrei voluto sprofondare. Per
inciso, il professore si divertì come non mai a mettermi in difficoltà con le
sue domande, ma alla fine inaugurò con un trenta il libretto, sollecitandomi
ironicamente a continuare a studiare così come avevo fatto per quel primo
esame. Con già la immeritata corona d’alloro sulla testa e tra i pensieri i
mille applausi di osanna a me stessa, tornai a casa, dove tu e la nonna stavate
ad aspettarmi con tanta ansia nel cuore e tanto orgoglio nello sguardo (...).
Dopo quelle due belle affermazioni, però,
cominciai a pensare per davvero di dovermi mettere di buzzo buono a studiare
per non rischiare altre brutte figure, patemi d’animo, qualche probabile
bocciatura e la perdita di un altro anno senza un briciolo di responsabilità e
di amor proprio. (Negli anni, mi è capitato spesso di pensare all’onestà
intellettuale del professore, Presidente di Commissione d’esame, nel rispettare
la sgangherata tesi di una oscura studentessa, che probabilmente lo aveva
convinto solo perché era riuscita ad argomentare il suo assurdo assunto in
maniera insolita e forse un tantino poetica come a me piaceva fare). Gratificata,
comunque, da quell’insperato e non desiderato apprezzamento, sentii dentro una
insolita consapevolezza delle lacune accumulate: un pozzo senza fondo da
riempire. Non era più tempo ormai di fiabe e di fanfaluche, ma tempo di impegno
sistematico e attento. E anche tu e la nonna scopriste ben presto una Lina più
responsabile e impegnata nello studio. Vi sembrò un miracolo. Da addebitare
questa volta a san Giuseppe da Copertino, il protettore degli studenti. Il
santo che volava. E mi stava anche bene. Pure io continuavo a librarmi in volo
con la fantasia e non avrei smesso mai. Ma ora stavo imparando a fare i conti
anche con la realtà che, però, nella sua ferocia imprevista e improvvisa mi avrebbe nuovamente
schiacciata di lì a poco, impedendomi nuovamente di studiare, sostenere esami,
vivere serenamente i miei vent’anni>.
*Per un aneurisma morì, nello spazio di un giorno appena, una mia cara
compagna di scuola. Fu per me un trauma indicibile. Si ripropose il terrore
della morte con tutte le sue derivazioni (nel senso letterale di andare alla
deriva) psicosomatiche*.
<Somatizzai quell’aneurisma con sudorazioni, tremori, tachicardia,
senso di soffocamento e terribili mal di testa che m’impedirono, per due anni,
di aprire un libro, leggere una sola riga. Tu mi guardavi preoccupato e
infelice, non sapendo come fare per alleviare la mia pena. Ti vennero meno
persino battute e narrazioni. Non un solo racconto. Saltarono tutti i miei
buoni propositi di colmare le enormi voragini conoscitive che ben mi rodevano
dentro. Niente studio. Niente esami. Niente voglia e capacità di vivere, di
organizzare il mio tempo. Tu non mi rimproverasti mai. E neppure la nonna lo
fece. Entrambi aspettaste tempi migliori, preoccupati solo dei miei affanni.
Delle mie paure. Degli attacchi di panico improvvisi e devastanti. Non ricordo
più come ne venni fuori. Forse la giovinezza mi aiutò con la sua imperiosa
voce. Forse il mio amore per Primo. Forse le vostre silenziose e amorevoli
cure. Certo, pian piano, riemersi da quel profondo pozzo di sofferenza, che lo
scrittore Giuseppe Berto definì, un paio di anni dopo, in un suo libro famoso,
“Il male oscuro”. Dopo circa due anni di costante malessere, tornai alla luce.
Quelli, comunque, furono sicuramente ancora anni di tenerezze da parte
tua, così rare in tempi ancora oscuri di autoritarismi e severità
destabilizzanti per chi come me o Pino rivelava più che mai fremiti di sogni e
di anarchia. (…). Fosti tu più che la nonna, ancora una
volta, quella fonte di tenerezza e protezione, a cui la mia anima anelava, mai
paga di dare e ricevere amore. (…) Una
sera, ricordi?, prima che precipitassi nel tunnel della depressione per la
morte della mia amica, ero seduta “jìndə a la
chəcənéddə” (nella piccola cucina) che avevamo nel cortile, proprio accanto al grande camino all’aperto, con
i piedi appoggiati sul portabraciere di legno rotondo, dove eravamo soliti
riscaldarci, insieme, al calore dei carboni accesi, che tu ti premuravi
costantemente di portare dal camino, e stavo studiando per un esame che avrei
dovuto sostenere qualche giorno dopo. Erano trascorse alcune ore da quando
avevo cominciato e mi sentivo molto stanca. Il forte mal di testa mi costrinse
ad alzarmi per cercare una pillola, ma non riuscii a farlo. Mi piegai sulle
ginocchia in un nero profondo e sarei crollata sul braciere acceso se tu non
fossi stato fulmineo nell’afferrarmi. Mi ritrovai alcuni minuti dopo nel mio
letto con un fazzoletto bagnato sulla fronte. Mi dissero poi che eri stato tu a
portarmi dalla cucina in casa, nella nostra cameretta (mia e di Lizia) e nel
nostro letto, attraversando tutto il cortile con me in braccio. Sì, ero un
fuscello, ma pesavo pur sempre quanto un sacco di olive pieno a metà. Ed ero
inerte. E tu avevi ottant’anni.
Miracolo dell’amore
che si è rinnovato negli anni ogni volta che
ho avuto bisogno di aiuto. Ogni volta che un buco nero mi risucchiava. Ti
sognavo. Ti sogno ancora. Sempre. E mi afferri e mi porti in salvo. Sempre.
Miracolo dell’amore. Miracolo in cui credo. E che mi sostiene. E ora vedo che
mi sorridi e, sospirando, annuisci. (…).
Mi dividevo ormai tra due paesi a me cari, tra due case che da una
parte mi colmavano di te e, dall’altra, di mamma e degli altri miei fratelli.
Da una parte, i tuoi campi, di cui via via ti liberavi perché non eri più in
grado di seguirli e, dall’altra, il mare nelle cui acque dimenticavo ogni senso
di costrizione. Da una parte, lo studio (stavo scoprendo finalmente che mi
piaceva studiare e conoscere nuove realtà passate e presenti con uno sguardo
attento al futuro), e le lezioni private (per non pesare economicamente su di
voi: cominciai a diciannove anni e non ho smesso ancora); dall’altra, le
chiacchierate con mamma, le confidenze e le complicità con Anna Maria, che rivelava
sempre più uno spirito intraprendente e battagliero…>
*Avevo ancora le mie paure e i miei ardimenti. E avevo i miei idoli:
letterari, canori, televisivi, cinematografici, teatrali. Italiani e stranieri.
Il cui elenco sarebbe la coda di una cometa persa nello spazio. Ho letto tanto
in quegli anni. Mi piaceva leggere. E in ogni eroina trovavo parte di me. Gli
scrittori e i poeti russi in primis. E quelli americani. E i francesi. Gli
italiani, famosi in quegli anni di grandi autori e grandi pensatori. Un po’
tutti di sinistra. Con alcune eccezioni, vedi Pitigrilli, che mi catturavano
per la bellezza dello stile più che per la profondità sociale, civile o
storico-politico-culturale dei contenuti delle loro opere. Poi, i giornalisti e
le grandi testate. Montanelli, Biagi, Cervi, Giorgio Bocca, Guareschi, Vittorio
G. Rossi. Adoravo quest’ultimo e divoravo i suoi scritti.
E la televisione. Che ormai ci portava parte
del mondo in casa. Storie di amori da copertina. Maria Callas e Aristotele
Onassis. Fausto Coppi e la Dama Bianca. Edoardo VIII e Wallis Simpson: lui,
divenuto poi semplicemente Duca di Windsor, dopo la sua abdicazione al trono
per amore di lei perché pluridivorziata.
E tutte le storie e le follie dei divi di
Hollywood e nostrani che ci facevano sognare in quei primi anni della seconda
metà del Novecento…
E, nei primi anni Sessanta, Kennedy e Marilyn
e la curiosità per il loro controverso rapporto e il dolore per la loro morte,
prematura e crudele.
(E i poeti della Beat Generation e gli
scrittori americani e la loro vita da romanzo tra follie amorose, alcol,
droghe, avventure “on the road”, e i primi approcci con le filosofie orientali,
la poesia zen, il mondo sconosciuto e fascinoso delle fiabe indiane e
tibetane, ma anche di alcune fiabe pugliesi che mio nonno conoscevi molto bene
e di cui faceva tesoro nel raccontarcele.
E, intanto, io e Primo facevamo progetti per un futuro insieme con la
superficialità della nostra giovinezza.
C’era, però, uno
sguardo nuovo a guardare il mondo: più attento e consapevole. Più critico e
agguerrito contro una società da cambiare e da rimodellare sulla falsariga di
una civiltà che si andava tecnologizzando rapidamente, omologando lingue,
comportamenti, aspirazioni. I jeans resero persino democratico il modo di
vestire degli operai e dei menager, dei ragazzi e degli adulti. Le differenze
sociali si assottigliavano sempre più. E noi due ci adeguavamo volentieri,
sempre ribelli anche se meno incoscienti. Sempre innamorati e sempre
determinati a regalarci scampoli di felicità*
Alla prossima, ma vi lascio con alcuni
versi che mi cantano nel cuore perché domani è primavera ed è la Giornata
Mondiale della Poesia. E il compleanno della mia Poesia più bella: Anna Paola.
La felicità è dentro di te.
Quindi rompi le
catene del tuo cuore
e lascia che tu diventi il dolce fiore che sei.
Conosco la soluzione: basta aprire le ali
e metterti in condizione di essere libera.
(Lettera di Jimi Hendrix alla sua bambina)
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